“Il rumore del mondo” nel romanzo di Benedetta Cibrario

cibrarioSTEFANO CASARINO

Secondo classificato al Premio Strega 2019, Il rumore del mondo di Benedetta Cibrario (Mondadori, 2018) è un romanzo ricco e complesso, che va letto con calma, assaporandolo come un buon vino da meditazione: intenso e coinvolgente, non contiene, per fortuna, nessuna delle astruserie intellettualistiche del postmoderno. Ѐ, invece, un pieno e convinto ritorno alla tradizione letteraria otto-novecentesca.
Siamo certamente nel romanzo storico, genere oggi non particolarmente in auge: potremmo accostarlo a Una storia romantica di Antonio Scurati (Bompiani, 2007), col quale ha in comune l’ambientazione geostorica (il Nord Italia nell’Ottocento: là il Lombardo-Veneto, qui il Regno di Sardegna).
Ma è anche un romanzo realistico, con una tenuta narrativa che richiama Balzac, Tolstoj e il più volte citato Dickens. Ed ha molto del romanzo epistolare, tante lettere animano la narrazione: un aspetto, questo, che può lasciare perplesso il lettore, ma che, a parer mio, è appropriato. Oggi ce la sbrighiamo con e-mail, SMS, WhatsApp e quant’altro, ma per secoli carta e penna sono stati strumenti di uso quotidiano per la corrispondenza tra persone lontane.
Grande risalto ha anche l’introspezione psicologica, che l’autrice conduce con sapienza, e l’esplorazione turistico-culturale: qui il raffronto può avvenire con Camera con vista (1908) di E.M. Forster: in entrambe le opere, occhi di Inglesi dell’Ottocento guardano l’Italia, là la Toscana, e Firenze in particolare; qui il Piemonte, Torino e il Piemonte meridionale. Ed ha, infine, anche molto del  Bildungsroman, almeno per quanto riguarda Anne, la giovanissima protagonista, che cambia moltissimo dalle prime alle ultime pagine del romanzo.
L’autrice ci regala personaggi particolari, ad alcuni dei quali ci si affeziona: oltre alla protagonista, di cui seguiamo con coinvolgimento il suo “trapianto” dall’Inghilterra al Piemonte e il suo processo di sofferenza e maturazione, formidabile è il carattere di nonno Cline, col suo caparbio insistere sul valore dell’intelligenza (quella è, secondo me, una pagina da rileggere con attenzione in questi nostri tempi di informazione superficiale e di sbandierate più che accertate competenze), ma ricche di umanità e benissimo rappresentate sono anche le figure del padre di Anne, del marito Prospero (col quale è davvero difficile simpatizzare, anche se la storia della sua infanzia e la sua morte parzialmente lo riscattano), del suocero Casimiro (un conservatore reazionario che, suo malgrado, subirà l’influenza dei tempi nuovi e che, dietro una scorza durissima, nasconde inconfessate fragilità e rivelerà poi un gran cuore), la signora Manners (in bilico tra la saccenteria e la saggezza, tra velleitarismo e pragmatismo) e, infine, l’entusiasta Enrico Verra, immagine, forse, dell’uomo nuovo che sorgerà da quei tempi.
Appunto, i tempi: come per i Promessi Sposi, secondo la lettura di Luigi Russo, anche qui credo si possa dire che “personaggio” è il tempo storico, un periodo importantissimo, dal 1838 al 1849: mi fa molto piacere che si dedichi attenzione (direi, dedizione) ad un Risorgimento che da un po’ stiamo invece accantonando, relegando a scuola il suo studio alla fine del quarto anno delle Superiori (una volta lo si portava all’Esame di Stato, ma da tempo non è più così), e trascurandolo completamente nella riflessione politica, che anzi oggi, in età di sovranismi e populismi, sembra andare in direzione ostinata e contraria a ciò.
Il “rumore del mondo”, ieri come oggi, era ed è dato dal contrasto tra “progressisti” e “conservatori”, tra chi è curioso e aperto al nuovo e chi ne ha paura e lo avversa: il tutto, qui, è ambientato nel Piemonte dalla Restaurazione in poi, con la volontà dell’aristocrazia di mantenere sine die l’assolutismo e l’immobilismo del buon tempo antico e coi fermenti rivoluzionari che agitano la borghesia.
Un Piemonte qui definito: cauto, disciplinato, austero… e privo di fantasia. Più che Torino, la fa da padrone il Monregalese, coi suoi paesaggi e i suoi cibi, decisamente strani e non certo leggeri per i palati inglesi. Tanto per citare un esempio di menù: pesto di acciughe, peperoni di Carmagnola con la bagna cauda, cervella, fette di semolino fritte, lingua di bue in gelatina, cappone di Morozzo ripieno di fichi e nocciole, crema spumante al cioccolato, pesche ripiene all’amaretto. Come viene opportunamente osservato: niente cucina raffinata, non in casa sua… aveva gusti solidamente carnivori.
 L’ Ottocento è esplorato da tanti punti di vista: epidemiologico (vaiolo, colera: dimentichiamo spesso di quanti mali era facile ammalarsi e morire prima dei vaccini), sociale ed economico (padroni di terre e di fabbriche e contadini, l’agricoltura e l’allevamento, la seta), ideologico e storico (a Cavour e a Mazzini si allude, di Carlo Alberto si dà un’interpretazione imperniata su una sorta di critica simpatia, che personalmente non mi sento di condividere).
La scrittura di questo romanzo è condotta con accorta compostezza, ogni tanto qualche sententia, qualche espressione tra l’ironico e il commosso balza improvvisa: mi limito a citarne tre esempi:
-         La modernità mi annoia (detto dall’aristocratico Casimiro);
-         Noi siamo immaginazione (la conclusione dell’ultima lettera di nonno Cline);
-         La vita è uno specchio che vi rimanda l’immagine che le offrite. […] L’entusiasmo è il passaporto migliore per ogni viaggio, che sia di un mese o di una vita intera (affermazioni della signora Manners).

Che sapore resta, dopo aver concluso l’ultima pagina e chiuso il libro? Un po’ di rimpianto perché la narrazione è finita, e si fantastica su come la storia avrebbe potuto ulteriormente evolversi; un po’ di dispiacere perché è terminata la compagnia che ci hanno fatto alcuni di questi personaggi; un po’ di nostalgia, per un’epoca di ideali e di forti passioni: la nostra, per riprendere il bel titolo di un saggio di Gerard Schmitt e Miguel Benasayag è “l’epoca delle passioni tristi”.
Ma soprattutto un senso di pienezza, di soddisfazione e di gratitudine per chi ci ha raccontato con entusiasmo tutto ciò. Si è realizzato, finalmente, il reciproco piacere dello scrivere e del leggere, del narrare e dell’ascoltare: quella che, per me, è una delle forme più alte della comunicazione e della cultura umana e che non sarà mai rimpiazzata da nessuna informatizzazione.