La fine dell’impero romano: una storia contemporanea – prima parte

Thomas Cole (da Wikipedia)

Thomas Cole (da Wikipedia)

PAOLO LAMBERTI
In questo testo verrà affrontato il tema della fine dell’Impero Romano in rapporto alle invasioni o immigrazioni dei popoli definiti barbari e alle dinamiche di integrazione riuscita e fallita. Ricordando che quando si parla di caduta dell’impero romano si intende quella della sua parte occidentale. Bisanzio è un concetto storico occidentale, nato in chiave polemica, che oscura il fatto innegabile che la parabola romana continua almeno sino al XII secolo, se non al XV.
Il tema sarà affrontato per la sua “attualità”, per gli innegabili parallelismi con la cronaca odierna. Se è vero che historia non è più magistra vitae, ma montalianamente

La storia non è magistra
di niente che ci riguardi.

va anche ricordata la definizione di Croce: «ogni storia vera, è storia contemporanea (…) la contemporaneità non è una classe della storia, ma è il carattere intrinseco di ogni storia.  Dobbiamo concepire lo stretto rapporto della storia con la vita come un rapporto di unità». Ovvero «il bisogno pratico, che è nel fondo di ogni giudizio storico, conferisce a ogni storia il carattere di “storia contemporanea”, perché, per remoti e remotissimi che sembrino cronologicamente i fatti che vi entrano, essa è, in realtà, storia sempre riferita al bisogno e alla situazione presente, nella quale quei fatti propagano le loro vibrazioni (La storia come pensiero e come azione)».
La fine dell’Impero Romano è sempre stata una palestra in cui la ricostruzione storica si è scontrata con le ideologie dominanti ai tempi degli storici. Tra i vari punti di vista con cui affrontare la questione, oggi colpisce l’insistente analogia tra la fine dell’Impero Romano e le invasioni barbariche e i tempi che vive l’Occidente, tra guerre di confine, demografia calante e migrazioni crescenti. Fino a pochi anni fa era il mondo statunitense a spingere sul parallelismo tra Roma e Washington, si pensi solo a due autori tanto controversi quanto stimolanti come Luttwak e Hanson; al contrario gli storici europei, ben più accademici, ma anche eredi di un certo antiamericanismo di fondo ben presente nella cultura europea del secondo dopoguerra, negavano non solo ogni parallelismo, ma si era giunti a stemperare la fine di Roma in una continuità quasi affettuosa con il Medioevo, anzi con il concetto di Tardo Antico.
Se le riflessioni di Luttwak nascevano dalla guerra fredda e quelle di Hanson dall’11 settembre, fatti che coinvolgevano in misura limitata il pensiero europeo, gli attentati islamici e soprattutto le migrazioni dell’ultimo decennio hanno stimolato una svolta nel modo di considerare la fine di Roma.

Roma è mai caduta?
Il nesso tra le invasioni e la caduta dell’impero romano si intreccia con le modalità e le conseguenze di tale caduta.
Un esempio di tale nesso si coglie nel serrato confronto che Machiavelli instaura con il suo predecessore Flavio Biondo nel primo libro delle Istorie Fiorentine. Queste iniziano un po’ sorprendentemente con un libro dedicato alla storia italiana a partire dalla caduta dell’Impero d’Occidente, evento per lui traumatico e tale da riverberare sino ai suoi tempi: c’è nel pensatore fiorentino un legame diretto tra la fine del mondo antico e le contemporanee guerre che stanno travolgendo l’Italia. «A ognuno puzza questo barbaro dominio (Principe XXVI)» riprende non a caso il termine “barbaro”: al pari della citazione immediatamente successiva da Petrarca i moderni invasori stranieri sono assimilati ai popoli barbari del tardo antico.

Flavio Biondo, nelle sue Decades, fornisce a Machiavelli buona parte della ricostruzione storica, ma con una differenza fondamentale: per lui la fine di Roma è piuttosto una inclinatio, un processo di trasformazione che associa momenti di distruzione con l’evoluzione di caratteri positivi; dalla fine dell’Impero emerge una nuova Europa, l’Europa cristiana che ne continua la vita trasfigurandola con la nuova religione e creando un nuovo mondo policentrico, che in Italia si riconosce nella positività delle molte città indipendenti ed orgogliose della loro civiltà, ricchezza, cultura.
Biondo scrive in un Quattrocento ancora felice: stese prima del 1450, le Historiarum ab inclinatione Romanorum imperii decades sono pubblicate nel 1483, nel pieno della stagione dell’equilibrio di Lorenzo de Medici. Alla radice della sua visione è ancora l’idea medievale dell’eternità di Roma, assicurata più dal Papato che dall’Impero. Le riflessioni medievali sulla traslatio imperii da Bisanzio e sulla renovatio imperii, che accompagnano i secoli tra Carlo Magno e il Quattrocento, nascono dalla visione cristiana che vede nell’apocalittica di Daniele una successione di quattro imperi destinati a perire, che di fatto escludono, a differenza dell’Apocalissi giovannea, Roma, vista come il momento successivo legittimato dalla venuta di Cristo. La rinascita del diritto romano e la presenza della chiesa compensano largamente le distruzioni dei barbari che pure Biondo ricorda: anzi se proprio lo spostamento della capitale a Costantinopoli è visto come una delle principali ragioni della caduta, la traslatio imperii carolingia segna un nuovo inizio.

Per Machiavelli l’ottica è rovesciata: la sua visione profondamente anticristiana lo porta ad escludere ogni positività, il suo giudizio sui mille anni dopo la fine dell’Impero è del tutto negativo, e corroborato dal disastro delle guerre italiane; non formula ancora un’accusa esplicita al cristianesimo come causa della caduta dell’Impero (spetterà a Gibbon questa concezione), ma per lui la caduta dell’Impero è una perdita irreparabile, è la perdita della virtù romana, che non viene sostituita né dall’energia feroce dei barbari né dall’Europa cristiana, e soprattutto da quell’Italia dalle molte città e cuore del Papato che in quegli anni sta miseramente crollando.
Quella di Machiavelli contro Flavio Biondo non è quindi una polemica erudita, ma un’ennesima prova di una storiografia che vive nella politica e interroga il passato per capire il presente. Non si può non riflettere sulle opposte visioni di oggi sul declino dell’Occidente e sulle migrazioni, che ripropongono l’opposizione tra il gradualismo ottimista di Biondo e il pessimismo apocalittico di Machiavelli: soprattutto misurando le due tesi sui ben diversi momenti storici.

Storiografia ed ideologia
Non si creda che gli interessi ideologici plasmino le ricostruzioni storiche solo nel Rinascimento.
L’Ottocento che vede la nascita della “Scienza dell’Antichità” (Altertumwissenschaft) è anche il secolo dei nazionalismi romantici, e ci consegna due visioni della fine del mondo antico quasi opposte.
Nel mondo germanico il fenomeno delle migrazioni è considerato il momento della nascita dell’Europa moderna, a trazione tedesca: un momento di rinascita, di ringiovanimento, che viene definito con un termine gentile, quasi affettuoso: Völkerwanderung. Si ricordi che l’Ottocento romantico tedesco si riconosce nella figura del Wanderer, icasticamente rappresentato da Caspar David Friedrich. La gioventù tedesca si riunisce in associazioni di viandanti, o più modernamente escursionisti, associazioni che assumono anche un ruolo politico in occasione del 1848 e dell’unificazione tedesca. Dunque il termine Völkerwanderungen si lega ad uno spirito giovanile, avventuroso, costruttivo.
Invece Francia ed Italia parlano esplicitamente di invasioni barbariche. Si ricordi Thierry, uno dei primi storici romantici francesi, che interpreta razzialmente la Rivoluzione Francese come il rovesciamento di una aristocrazia germanica da parte di un popolo ancora gallo-romano: idea questa ripresa da Manzoni nell’Adelchi. Del resto i Longobardi Irsuti per tema le fulve criniere esprimono un’ottica razziale e quasi razzista, che si ritrova nel Giuramento di Pontida  di Berchet:

Perché ignoti che qui non han padri,
qui staran come in proprio retaggio? …

Giù l’orgoglio del fulvo lor sir!

Ma venendo a tempi più recenti, la grande narrazione (per dirla con Lyotard) delle invasioni/migrazioni di massa viene sempre più contestata a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso, soprattutto su influssi degli archeologi. Ma non è un caso che la diversa metodologia archeologica, che contesta le fonti antiche, riesca ad affermarsi nel mondo europeo della decolonizzazione e in quello statunitense del post-Vietnam.
Quasi a far scontare all’Impero Romano le colpe delle potenze coloniali, e a trasformare le fulve criniere nei sandali dei guerrieri di Giap, si è arrivati, allo scorcio del secolo, ad interpretare il Tardo Antico come un melting pot in cui i cittadini dell’Impero e i migranti dalle frontiere si incontravano in un pacifico multiculturalismo, rotto solo da qualche episodio di violenza da ricondurre per lo più ad errori del governo o a lotte politiche tra élites. Maliziosamente si può cogliere una curiosa continuità tra il rifiuto a credere alle invasioni barbariche di molti multiculturalisti odierni e il punto 5 del Manifesto della Razza del 1938: «è una leggenda l’apporto di masse ingenti di uomini in tempi storici».
Poi l’intensificarsi delle migrazioni e l’ascesa del fondamentalismo islamico stanno di nuovo spostando l’accento sull’aspetto violento della fine dell’Impero Romano, correggendo gli estremi della narrazione multiculturalista ma rischiando di ricadere in un estremismo di segno opposto, tutto volto a dimostrare i rischi delle migrazioni e del disarmo militare: si veda un classicista come Hanson, che oggi scrive quasi solo più di storia contemporanea.

Al di là delle forzature ideologiche oggi ci sono i mezzi per una valutazione più completa di fenomeni complessi; ma il lettore curioso si trova davanti ad un’altra battaglia, ancor più sconcertante: la rivalità tra i vari rami della ricerca.
Il primo rapporto difficile è quello tra archeologi e storici. Intorno alle origini di Roma è in corso una vivace ed aspra discussione che vede da un lato gli archeologi, in primis Carandini e la sua scuola, e dall’altra gli storici.
Carandini, incrociando i risultati dei suoi scavi sul Palatino con una riflessione antropologica sul mito, ha offerto un quadro che tende a ritrovare un forte nucleo storico dietro le leggende di fondazione di Roma. Di contro uno storico come Ampolo parla di ipertradizionalismo e un po’ velenosamente paragona Carandini agli studiosi fondamentalisti della Bibbia. Uno scontro che si ripropone anche nel mondo anglosassone, dove all’attenzione di Cornell risponde lo scetticismo radicale di Wiseman e Forsythe, che considerano le fonti romane tarde rielaborazioni e di fatto negano ogni storicità a ciò che precede il IV secolo a.C.
Simile scontro si coglie tra chi accentua le notizie delle fonti antiche di spostamenti e chi dai materiali di scavi fatica ad individuare tali movimenti; e grande incertezza nasce dalla difficoltà di accoppiare i nomi trasmessi dagli storici antichi e i risultati degli scavi.

A ciò si aggiunge la diffidenza verso la sociologia contemporanea, che pure, analizzando il presente, ha creato modelli teorici che possono essere applicati anche al passato. Ma lo strumento più controverso rimane quello degli studi di genetica e antropologia fisica svolti sul DNA antico e moderno e sulle ossa ritrovate nelle sepolture: che sia diffidenza verso la scienza o timore di possibili derive razziste, come già successo in passato, il risultato è spesso quello di una chiusura preconcetta, si veda il duro giudizio sull’utilità delle ricerche genetiche di uno storico eccellente come Canfora.
Eppure proprio perché tutti questi metodi sono diversi la loro combinazione è fruttuosa: ognuno offre risultati con propri limiti e difficili da combinare, ma usati insieme permettono di combinare molti pezzi di un puzzle che non sarà mai completo.
Le fonti antiche ci danno nomi e vicende, filtrate naturalmente attraverso le nozioni e gli interessi dello storico, ma anche attraverso le convenzioni letterarie della storiografia antica. Epigrafi ed iscrizioni offrono un legame diretto con i tempi, ma sono frammenti isolati. Gli scavi producono molto materiale sulla vita quotidiana, l’immaginario funebre e religioso, il trasmettersi degli usi e delle tecnologie, ma non ci dicono quasi nulla sull’identità, la politica e le vicende delle comunità esplorate.

La sociologia offre modelli complessi per la migrazione: possono spostarsi élites capaci di imporsi con la forza, oppure popolazioni, quasi sempre in forma parziale, oppure gruppi di giovani impiegabili come manodopera, anche militare, oppure singoli o piccoli gruppi attirati da una vita migliore, oppure masse di profughi spinti dalle guerre. Tutti questi modelli appaiono applicabili anche al Tardo Antico, ma vanno calati nella realtà testimoniata dai dati.
Infine i dati antropologici e genetici, che possono offrire interpretazioni sorprendenti: ad esempio lo studio delle ossa delle popolazioni dell’Italia antica ci offre un quadro degli Etruschi più simile a quello dei Greci che a quello dei Romani. Infatti stato di salute ed altezza sono migliori, a testimoniare un’alimentazione abbastanza equilibrata in tutta la popolazione, dato che sembra indicare minori disparità sociali rispetto alla società romana: a titolo di confronto, in tutte queste popolazioni l’alimentazione appare migliore e più equilibrata che nell’Europa del XIX secolo, in cui la divisione in classi e la distribuzione ineguale della ricchezza erano decisamente più marcate.

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Etnogenesi: l’invenzione dei Germani
Tra tanti testi antichi naufragati, che rimpiangiamo, alcuni passi della Germania di Tacito forse sarebbe stato meglio che fossero andati persi.
«Ipsos Germanos indigenas crediderim minimeque aliarum gentium adventibus et hospitiis mixtos» (Germ. 2). «Ipse eorum opinionibus accedo qui Germaniae populos nullis aliis aliarum nationum conubiis infectos propriam et sinceram et tantum sui similem gentem extitisse arbitrantur» (Germ. 4).
A partire dalla riscoperta del testo tacitiano nel Rinascimento, e soprattutto nelle aspre polemiche della Riforma, il mondo germanico ha tratto da questi passi, per altro quasi inseriti en passant, conseguenze sempre più funeste man mano che trascorrevano i secoli. Anche senza arrivare ad Hitler, prima la polemica protestante contro la corrotta Roma papale poi il nazionalismo tedesco dell’Ottocento hanno individuato questi passi come una legittimazione della loro pretesa superiorità.
Tuttavia le parole di Tacito vanno lette innanzitutto all’interno di un testo che esalta le virtù dei Germani per meglio avvertire del pericolo da loro costituito: dietro al moralismo di molte osservazioni traspare il giudizio politico-strategico di un alto funzionario romano, che probabilmente ha prestato servizio sul Reno (forse come legato della Legio XXI Rapax), e che indica, nell’anno successivo al suo consolato, la necessità di riprendere una politica anti germanica, dopo le frustrazioni e le incertezze delle campagne di Domiziano.
Ma bisogna ricordare un altro dato fondamentale: la purezza razziale non è un valore romano; al contrario dei Greci, ed in particolare degli Ateniesi, che si vantavano “autoctoni”, come ricorda ancora Isocrate: «ταύτην γὰρ οἰκοῦμεν … οὐδ’ ἐκ πολλῶν ἐθνῶν μιγάδες συλλεγέντες, ἀλλ’ οὕτω καλῶς καὶ γνησίως γεγόναμεν, ὥστ’ ἐξ ἧσπερ ἔφυμεν, ταύτην ἔχοντες ἅπαντα τὸν χρόνον διατελοῦμεν, αὐτόχθονες ὄντες …» (Panegirico 24).
Il passo isocrateo sembra ben presente a Tacito, con μιγάδες che anticipa mixtos, καλῶς καὶ γνησίως propriam et sinceram. Ma mixtos non può non rimandare a Virgilio (Aen. XII, 838-9)

hinc genus Ausonio mixtum quod sanguine surget,

supra homines, supra ire deos pietate videbis

Ci ricorda che il mito fondativo di Roma è nella mescolanza delle genti, nell’Asylum romuleo, nell’aver fuso adventus, ovvero le immigrazioni di coloro che sono venuti per scelta, (si pensi a Tito Tazio con i suoi Sabini), e hospitia, chi appunto si è rifugiato nell’Asylum, schiavo fuggitivo, esiliato, profugo.
Ancora Tacito riporta le parole dell’imperatore Claudio che giustifica l’inclusione di Galli nel Senato: «quid aliud exitio Lacedaemoniis et Atheniensibus fuit, quamquam armis pollerent, nisi quod victos pro alienigenis arcebant? at conditor nostri Romulus tantum sapientia valuit ut plerosque populos eodem die hostis, dein civis habuerit (Tac. Ann. XI,24)». E già prima Cicerone aveva scritto al fratello Quinto, destinato al governo d’Asia: «Quod si te sors Afris aut Hispanis aut Gallis praefecisset, immanibus ac barbaris nationibus, tamen esset humanitatis tuae consulere eorum commodis et utilitati salutique servire (Cic. Ad Quintum fratrem I,1,27)».

Ma la Germania è anche testimone di un processo tanto complesso quanto parallelo a molte dinamiche del mondo odierno.
Sono i romani ad aver inventato i Germani, esattamente come il colonialismo europeo ha inventato le tante nazioni oggi considerate failed states. O meglio, il processo di etnogenesi che ha portato da un mondo frammentato di clan e piccole tribù ai popoli che chiamiamo barbari è stato favorito e voluto dai Romani.
Sociologi ed antropologi hanno ben precisato il processo che vede, tra due culture adiacenti ma di livello economico e sociale differente, la tendenza della cultura meno avanzata a gravitare verso quella più in grado di offrire condizioni di vita migliori: un dato che oggi possiamo toccare con mano, letteralmente.
Nell’Europa dei secoli precedenti all’ascesa di Roma possiamo vedere che le culture del bassopiano europeo, limitate ad un livello di sussistenza, gravitavano verso quella che chiamiamo cultura di Hallstatt e La Téne e che identifichiamo con i Celti, che a loro volta sono protagonisti di un’espansione secolare verso il più ricco mondo mediterraneo, testimoniata a livello macroscopico dai saccheggi di Roma e di Delfi.
L’arrivo dei Cimbri e dei Teutoni, dapprima nel mondo celtico e poi in quello romano, testimonia la natura subitanea e di massa che possono assumere queste espansioni: in questo caso siamo certi che si siano spostate intere popolazioni. Se invece leggiamo in Cesare di Ariovisto, si vede un modello diverso, quello di bande guerriere volte ad imporsi su popolazioni preesistenti. Le fonti classiche ci offrono come una serie di istantanee del mondo oltre il limes. Tacito (presumibilmente anche basandosi sui Bella Germaniae di Plinio il Vecchio) ci presenta nella seconda parte della Germania un quadro di frammentazione, citando quasi una cinquantina di popoli sparsi sino all’Elba e al Baltico, quadro confermato di lì a pochi decenni da Tolomeo. Ma Marco Aurelio si trova ad affrontare una lunga guerra contro Quadi e Marcomanni, che si presentano come confederazioni politicamente più sofisticate. E già Caracalla, per non parlare dei successori del III secolo, si trova a combattere contro gli Alamanni ed i Burgundi, anch’essi popoli formati da più componenti ed uniti politicamente. E mentre guerre ed accordi segnano nel III secolo i rapporti tra Roma e gli Alamanni, già a metà III secolo l’imperatore Claudio verrà soprannominato il Gotico, aprendo quella vicenda gotica che dominerà dal IV al VI secolo. Eppure il 1 gennaio 406, giorno che più ancora di Adrianopoli può essere considerato la svolta verso la fine di Roma, a valicare il Reno ghiacciato sono altri nomi ancora, Franchi, Vandali e così via.
Contrariamente alle parole tacitiane che parlano di un popolo sincerus, l’etnogenesi dei popoli germanici è sempre un processo di mescolanza, all’interno di quel mondo senza veri confini naturali che è il bassopiano germanico, che si prolunga sino agli Urali.

Di fatto più che i popoli cambiano i nomi, mutano le confederazioni, vi sono continui spostamenti. Né tutte queste genti sono germaniche: gli Alani appartengono a popolazioni iraniche come gli Sciti, ma si affiancheranno prima ai Goti poi ai Vandali. Invece gli Eruli, che ricordiamo come il popolo di Odoacre, sono Germani che si uniscono agli Unni e sottomettono i Longobardi. Un quadro che smentisce sia ogni idea di purezza che ogni pretesa di etnicità.
Il problema è capire cosa vi sia dietro questo tourbillon di nomi, di capi, di guerre, anche se si possono individuare alcune linee di tendenza. La prima è la costruzione di strutture politiche sempre più complesse e sofisticate. La seconda è quella di una costante attrazione verso il più ricco mondo romano: va ricordato che se nel mondo antico questi movimenti sono innescati da una differenza di reddito di 2 a 1, oggi la differenza tra il mondo ricco e quello più povero è tra 5 e 15 a 1.
La terza è la dimensione culturale ed economica che si fa sempre più complessa: un dato confermato dalle osservazioni moderne dell’ONU, che rivela come la spinta verso la migrazione si accentui con il passaggio a livelli di reddito più alti. Nel mondo antico non sono le tribù a livello di pura sussistenza ricordate da Tacito e testimoniate dagli insediamenti scavati dagli archeologi verso l’Elba a premere verso Roma, anche perché demograficamente fragili. Sono invece le realtà più organizzate, meno povere e demograficamente in ascesa che già incontra Marco Aurelio.
Questo è il frutto dell’influenza dei Romani: per loro trattare con una miriade di clan era impossibile, erano troppo grandi per questo: dunque tendevano a riconoscere ed appoggiare i capi emergenti, a finanziarli, a trattare con loro per ottenere soldati ed alleati.
E spesso, come la storia recente mostra, sono proprio questi capi a sfruttare la loro forza contro chi li ha innalzati: Arminio in primis, ufficiale romano per molti anni, e di alto rango; ma anche Maroboduo, che dopo aver creato la confederazione dei Marcomanni e aver combattuto i Romani per anni, accetta un trattato e vi mantiene fede sino al punto di combattere contro Arminio ed esserne sconfitto, per poi rifugiarsi in territorio romano e passare gli ultimi 18 anni della sua vita in confortevole esilio a Ravenna: antenato dei molti dittatori che si sono rifugiati dopo la sconfitta presso i loro protettori.

Migrazioni: il catalogo è questo
Un archeologo che scavasse le città dell’Impero Romano nel periodo tra III e V secolo potrebbe immaginare, osservando il passaggio tra templi pagani e chiese cristiane, che vi sia stata una massiccia migrazione di popolazioni cristiane dal Medio Oriente. E invece si è trattato di un fenomeno culturale e politico che non ha coinvolto migrazioni di massa, al massimo qualche apostolo. Un archeologo che scavasse le città europee tra fine del XX secolo e inizio del XXI potrebbe immaginare, osservando il moltiplicarsi delle moschee, ad un’altra religione monoteista che si espande per conversione di popolazioni preesistenti: e invece si tratta di un fenomeno prevalentemente legato a migrazioni di massa.
Il mondo germanico è profondamente mutato dal contatto con Roma. Già Tacito osserva l’influsso dell’economia monetaria romana sulle popolazioni confinanti: «quamquam proximi ob usum commerciorum aurum et argentum in pretio habent formasque quasdam nostrae pecuniae agnoscunt atque eligunt» (Germ. V).
Ma sono gli archeologi a testimoniare un cambiamento che parte dall’importazione di tecnologie agricole che trasformano un’economia di sussistenza, basata sulla tecnica del dissodamento temporaneo seguito in pochi anni dall’abbandono dei campi, ad un’economia che con migliori tecniche arative fornisce un surplus e la base per una demografia in crescita.
Questi mutamenti si rispecchiano a livello sociale e politico: Tacito parla di una società clanica, in cui i capi si appoggiavano agli anziani e in cui le decisioni erano prese in assemblee; ma già nel II secolo si osserva l’emergere di una militarizzazione, favorita dallo stato di conflittualità con Roma. Nascono quindi bande di guerrieri, spesso di 150/200 uomini, che vivono di rapina o si aggregano a capi di maggior prestigio, e basano la loro legittimità sulle armi: in Danimarca, a Eisbøl-Mose una palude, in cui era d’uso gettare prede sottratte ai nemici come sacrificio, ha restituito l’equipaggiamento (spade, elmi, scudi) di una di queste bande, evidentemente annientata in qualche anonimo scontro.
Ma già Marco Aurelio deve affrontare non più tribù ma confederazioni politiche dotate di una struttura duratura e capace di sopravvivere a decenni di guerra e a dure sconfitte; si tratta di un fenomeno aggregativo che può ricordare confederazioni del passato romano, come quella latina e quella sannita, che Roma affronta allo stesso modo: scioglierle sia con la forza sia creando patti bilaterali con i vari componenti.
Il caso dei Burgundi nel III secolo sembra offrire un ulteriore cambiamento: questa popolazione, pur giunta sul limes tra Reno e Danubio, mantiene un dialetto germanico diverso da quello delle popolazioni circostanti, come gli Alamanni: emergono identità culturali e linguistiche che mostrano un carattere etnico specifico, non solo un generico appartenere alle culture dell’epoca.
Dal IV secolo nasce una recente controversia storica, ovvero la presenza di migrazioni di popoli. Idea ottocentesca screditata per tutto il Novecento, anche perché si tratta di una modalità di migrazione estranea ai modelli dei sociologi moderni. Ancora pochi anni fa studiosi come Halsall ipotizzavano che le cosiddette invasioni barbariche fossero dovute a gruppi piuttosto ridotti di guerrieri, svalutando testimoni come Ammiano Marcellino. Tuttavia se le fonti antiche non vanno prese alla lettera, non possono neppure essere scartate a priori, ma valutate caso per caso: e Ammiano è un testimone contemporaneo, ufficiale e politico, e quando ricorda che i Goti giunsero a decine di migliaia e con le famiglie va accettato. Troppo spesso gli storici moderni, chiusi nelle loro università, dimenticano che il siriano Ammiano è stato generale e protagonista della campagna di Giuliano contro i Sassanidi, Arriano di Nicomedia ha guidato due legioni in una celebre vittoria contro gli Alani, Cassio Dione fu due volte console e stretto collaboratore dei Severi: non avranno i metodi storiografici di oggi, ma hanno anche un’esperienza quadi del tutto estranea all’accademia odierna.
Perciò se la visione di popoli etnicamente compatti, monolingui, già aristotelicamente nazioni ottocentesche in potenza, è superata, lo è anche l’idea di piccoli gruppi di aspiranti cittadini romani solo a tratti un po’ vivaci.
A confermare un quadro di migrazioni di massa e di demografie in espansione è l’accordo tra linguistica, genetica ed archeologia.
La linguistica testimonia un proto Germanico originario delle aree scandinave, nato nell’Età del Bronzo Nordica, tra metà del secondo millennio a.C. e VIII secolo a.C.; un peggioramento climatico innesca una spinta verso Sud che porta ad una tripartizione in Germanico del Nord (da cui le lingue scandinave), dell’Est (la lingua di Goti e Burgundi, oggi senza eredi) e dell’Ovest (da cui derivano le moderne lingue germaniche).
L’archeologia testimonia una serie di culture che si allargano dal Nord della Germania attraverso Germania e Polonia sino da un lato al Mar Nero e dall’altro al Reno. Ben prima di Ariovisto culture come quella di Jastorf e di Pomerania testimoniano l’incontro tra il nascente mondo germanico e quello della cultura di Hallstatt, che noi identifichiamo con i Celti.
Anche se non è sempre facile associare i dati delle fonti antiche con gli scavi archeologici, è possibile ad esempio seguire la cultura di Przeworsk nel suo espandersi dalla Vistola e dall’Oder verso i Carpazi e l’alta valle della Tisza, e riconoscervi i movimenti dei Vandali prima del loro scontro con il limes. Più controverso è il legame tra la cultura di Wielbark lungo la Vistola nel II-III secolo d.C. e quella di Chernyakov a nord del Mar Nero e la migrazione dei Goti: ma il diradarsi degli insediamenti di Wielbark in parallelo al crescere di quelli di Chernyakov e lo sviluppo di una lingua gotica rafforzano l’idea di spostamenti di popolazioni che si creano un’identità etnica e politica.
Parimenti lo studio del DNA e particolarmente degli aplogruppi del cromosoma Y rivela due realtà. Contrariamente a Tacito, i Germani appaiono molto mescolati, con aplogruppi molto antichi e presenti in tutta Europa, come Y-DNA R, trovato per la prima volta in Siberia circa 24.000 anni fa e oggi dominante in Europa. Tra i molti sottogruppi di R è interessante vedere come un subclade caratterizzante il mondo celtico sia comunque diffuso in quello germanico; invece R1b-U106 ha una distribuzione strettamente legata a quella delle lingue germaniche, come dimostra il caso della Svizzera tedesca, dove è molto più presente che in quella francese, o dell’Inghilterra, dove diminuisce spostandosi man mano dall’Est verso le zone celtiche di Cornovaglia e Galles.
In conclusione, lo scetticismo verso la migrazione di popolazioni numerose appare più un postulato ideologico politically correct che una ipotesi sostenibile; al contrario si deve tornare a dare fiducia alle fonti antiche. Quando Tacito caratterizza i Germani per l’uso di fibule («Tegumen omnibus sagum fibula aut, si desit, spina consertum» Germ. XVII), sembra anticipare i moderni archeologi; quando coglie la natura politica dell’etnogenesi germanica e l’attrazione verso Roma, come fa per i Batavi («Omnium harum gentium virtute praecipui Batavi non multum ex ripa, sed insulam Rheni amnis colunt, Chattorum quondam populus et seditione domestica in eas sedes transgressus, in quibus pars Romani imperii fierent». Germ. XXIX) rivela i meccanismi che gli storici moderni confermano.

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