Le “Quattro stagioni” di Silvia Rosa

tempo-di-riserva-silvia-rosaGABRIELLA MONGARDI

Scrive nella prefazione di questo libro la poetessa Gabriella Montanari: «Prima di iniziarne la lettura, mi piace soffermarmi sui titoli delle raccolte poetiche (come del resto sugli incipit dei romanzi), per consentire all’immaginazione di azzardare congetture sulla natura delle liriche in agguato tra le pagine». E continua: « Tempo di riserva mi ha suscitato visioni di vini d’annata, di giocatori in panchina, di elefanti e leoni al riparo dal bracconaggio, di territori indiani negli Stati Uniti d’America. Mi sono tornate in mente nozioni di diritto privato, qualcosa che aveva a che fare con il dominio e la proprietà. Ma anche il Quinto Emendamento e la facoltà di non rispondere. Per non parlare di stock di viveri, acqua, munizioni e grasso in eccesso. Insomma, un titolo altamente evocativo per ricchezza e diversità d’immagini, un’ottima premessa», e io aggiungerei: una premessa che non delude.

A differenza della Montanari, io non solo mi soffermo sul titolo di una raccolta poetica, vado direttamente all’indice e per prima cosa leggo i titoli di tutte le poesie, scoprendo in questo caso che il libro è diviso in quattro parti, intitolate ciascuna a una stagione – e il pensiero corre subito a Vivaldi e suoi celeberrimi concerti delle “Quattro stagioni”…

A differenza che in Vivaldi, non è la dimensione descrittiva, non è la mimesi naturalistica l’obiettivo a cui mira la poesia “stagionale” di Silvia Rosa, bensì la costruzione di “geometrie golose di parole” (Che sperpero questa quotidianità). La raccolta ha in effetti una solida struttura geometrica, è come un poliedro a quarantotto facce: infatti ciascuna sezione contiene dodici componimenti, tante quante sono le settimane di una stagione, se si considera formata da tre mesi lunari di quattro settimane ciascuno – o tanti quanti sono i mesi dell’anno, quasi a suggerire che una stagione può durare come un anno intero, forse anche di più…

Né le stagioni sono per l’autrice metafora dello scorrere del tempo e delle fasi della vita – nascita, infanzia, maturità, vecchiaia e morte: rappresentano piuttosto il “correlativo oggettivo” di uno stato d’animo, di una condizione esistenziale, delle diverse fasi del rapporto dell’io con se stesso e con gli altri. Non per niente la poetessa, a differenza del musicista, incomincia le sue “Quattro stagioni” dall’Inverno, non dalla Primavera… Questo slittamento è già un indizio importante.

Leggendo le poesie una di seguito all’altra, infatti, si percepisce nettamente un cambiamento, un’evoluzione nella scrittura della poetessa, in parallelo con il mutare della stagione e con il diverso significato simbolico di ciascuna.
Se l’inverno rispecchia il gelo interiore e la durezza della vita, le poesie di questa sezione sono volutamente “sgradevoli”, dure, funeree; con la primavera, che incarna l’apertura al possibile e all’attesa, le poesie si fanno più vivaci e colorate. L’estate, la stagione del solstizio, è un fermo-immagine dell’infanzia, e le poesie hanno un che di fiabesco, di infantile; l’autunno è il tempo della fine ma anche di un nuovo inizio, le poesie sono mature come frutti da cogliere e assaporare.

Ma il vantaggio incommensurabile della poesia rispetto alla narrativa è quello di lasciare il lettore libero di costruirsi un suo personale “sentiero” fra i testi, partendo ad esempio dalla lirica che dà il titolo alla raccolta, Tempo di riserva, che appartiene alla sezione “Inverno”, per poi passare a La margherita e Ritratto (da “Primavera”) e continuare con Agosto, un giorno qualunque, Bambina di carta e 10 agosto, titolo pascoliano, tratte da “Estate”. A questo punto è naturale leggere Fine dell’estate, che si trova nella sezione “Autunno”, in cui rientrano altri tre titoli che stuzzicano la curiosità: Silvia, Ventimila volte e Tutte le stagioni, l’ultima poesia, che è un po’ una sintesi-manifesto del libro: «credere possibile che ogni / desiderio attraversi la litania a memoria / delle stagioni». Silvia è invece uno spiritoso autoritratto per via onomastica, a metà tra il nomen omen e la ribellione a un segno – il nostro nome – che non ci scegliamo noi; in Ventimila volte è di nuovo l’ironia alla Szymborska che permette di raccontare la fine di un amore con il necessario distacco.

Il tema del tempo è ovviamente quello dominante nella raccolta – tempo inteso nel senso di chrònos più che di kairòs, colto nel suo scorrere verso la fine, più che afferrato e goduto nell’ottica del carpe diem. Per quanto la poetessa sia conscia del fatto che non abbiamo un “tempo di riserva”, questo discorso non le interessa: il suo “tempo di riserva” è quello della scrittura, è la poesia che custodisce intatto il passato, la stagione mitica dell’infanzia, e la protegge dal dolore del presente.
Il tempo per lei è la dimensione in cui l’io si realizza, prende coscienza di sé, si costruisce nel confronto con gli altri e con il Tempo stesso – tra inizi e fini, addii e ritorni, illusori come la danza circolare delle stagioni – perché il nostro tempo non ritorna mai…

La marcia irreversibile del tempo biologico si legge nelle metamorfosi del corpo e del desiderio:
«Il giovane corpo robusto, folto
i capelli abitati da corvi dentro un nido
di ricci: quanto tempo è passato? mi chiedo,
da quando eri un cucciolo magro, petulante,
con parole gracili invece che mani irrequiete,
quelle che adesso tieni sui fianchi della tua sposa,
giovinezza accecante che invidio – un bocciolo –,
per la prima volta vedo il segno delle stagioni
sul volto degli altri, mi accorgo di essere oltre
gli anni di polpa rossa da mordere, sono il frutto
per terra, ora, e osservo i fiori crescere altrove:
la mia primavera è una pallida offerta a un sole
indifferente, sono io adesso la donna che
non vale la pena.» (da Primavera altra)

Ma il rapporto tra il tempo e il corpo è ben altro: è di identità, sovrapposizione, intreccio inestricabile come in Ritratto o in La stessa di allora, (“il passato […] riposa sulle tue spalle, / il presente […] cresce smisurato / lungo il tuo collo, sul petto”): perché il nostro esistere è un esistere nel corpo e nel tempo, o meglio nel tempo attraverso il corpo, che è un “abito vivo”, un’ “irrequieta frontiera” sotto lo sguardo dell’Altro (Frontiera).
Se, come ricorda il poeta Antonio Melillo nella postfazione all’antologia Il corpo, l’eros (Ladolfi editore 2018), la poesia al femminile tratta la “carne”, la poesia della Rosa è profondamente “carnale”: il tema del corpo in tutte le sue declinazioni attraversa tutte le sue “stagioni”, ancorando il tempo alle potenti metafore di una poesia concreta, pastosa, polimorfa, che ci tocca tutti, che non lascia indifferenti.

E come potrebbe lasciare indifferenti una poesia che osa affrontare il tema del Tempo, con cui si sono cimentati nei secoli filosofi e fisici? Si pensi, per rimanere ai giorni nostri, all’intenso e ispirato saggio del fisico Carlo Rovelli L’ordine del tempo (Adelphi, Milano 2017), che “fa il punto” sulla questione, rendendo accessibili a tutti le risposte che oggi la scienza dà alla domanda di S. Agostino: «Che cos’è il tempo?». Ma Rovelli stesso, ponendo in esergo a ogni capitolo del suo libro alcuni versi oraziani sul tema del tempo, riconosce implicitamente il “vantaggio” della poesia rispetto ad altri tipi di linguaggio: il discorso poetico, autorizzato com’è a violare le regole della semantica e della sintassi correnti, con i suoi cortocircuiti di parole folgora i nostri circuiti mentali, lasciandoci intuire per un attimo verità vitali. Con il coraggio un po’ incosciente di un bambino, il poeta non arretra di fronte a nessun tema e resta in attesa della “rivelazione” – la parola giusta, il giusto nome con cui “chiamare” la realtà (Kafka) e renderla visibile anche se solo a schegge, a sprazzi, in maniera obliqua. A Silvia Rosa, in Tempo di riserva, questo è perfettamente riuscito.

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Il libro sarà presentato SABATO 26 MAGGIO ALLE 17:30 a Mondovì, presso la libreria Confabula in via S. Agostino: l’autrice Silvia Rosa dialogherà con Gabriella Mongardi.