Espiazioni

pecore

GABRIELLA VERGARI.
Che mi risulti, prima non era così.
Eravamo esemplari comuni d’una specie comune e tutto sommato benemerita.
E l’ avrei pure voluto vedere che non fossimo benemeriti, noi ovini, che è dalla notte dei tempi che paghiamo un altissimo prezzo alla domesticazione. E dando latte, e dando visceri e carni, e dando figli, e dando fino alla nostra pelle, per farne strumenti musicali o pergamene o conce per stivaletti e borse. Insomma, un elenco che preferisco chiudere qui, perché non è mica la sua lunghezza a renderlo più drammatico.
Vero è che in cambio abbiamo …, beeeh, ecco, che abbiamo precisamente ricevuto, in cambio? Strano, ma ogni volta che torno su questo punto, il punto mi sfugge proprio (scusate il calembour, e tuttavia, in quanto capra, sarò anche ignorante ma non priva di salacità. E del resto il sale non è uno dei miei cibi preferiti? D’accordo, l’ho fatto di nuovo, ma che volete, l’indignazione mi accende l’ironia).
Diciamo allora che è da quando ho aperto gli occhi che li sto cercando, questi famosi benefici che avremmo attenuto in cambio di tutte le sofferenze patite dalla nostra specie, e non li ho ancora trovati. Ma il peggio, per come la vedo, è che ci hanno pure messo le une contro le altre, le cugine pecore e noi, le capre, più selvatiche, più ruzzanti, perfino più maleodoranti!
Mai sentito l’amabile commento: “puzzi come un caprone”? Perché invece loro, le pecore, olezzano di gelsomino!
E però, già che sono quasi tutte bianche per natura (e ahinoi quando ne nasca una nera!), già che sono l’incarnazione stessa della docilità (al limite del più puro “pecorume”, a voler essere un tantino pignoli, ma penso che dal loro “pulpito” sia il meno), già che partoriscono tenerissimi, batuffolosi agnellini, sono decisamente più popolari ed amate di noi.
Intanto sono più ricercate per la lana, laddove la nostra non esisterebbe se non per la disprezzata etichetta di “lana caprina” che già solo al sentirla evoca emicranie e pusillanimità.
Ma allora, io chiedo, da dove proverrebbero il cashmere o il mohair, che avranno pure la consistenza d’ una soffice peluria però difendono dal freddo molto meglio di tanti altri spessi velli?
E visto che siamo entrati in argomento, ammetto che loro abbiano avuto una qualche eco mitologica colla pluricelebrata epopea del Vello d’Oro, quella per intenderci cogli Argonauti, Giasone, Medea, il passaggio delle Simplegadi, ecc…
Voglio perfino sprecarmi, concedo che uno dei momenti di più alta intensità letteraria sia toccato ancora una volta a loro, coll’ ariete, appeso al quale, Ulisse-Nessuno cercava scampo dal crudele Polifemo: «Caro montone, – gli chiedeva il Ciclope, ferito e dolorante – perché così m’esci dall’antro per ultimo? ( …) forse del tuo padrone piangi l’occhio che un malvagio accecò coi suoi tristi compagni, vinta la mia mente col vino …». E mentre quel mostro antropofago così trattiene l’animale a lui più caro, tastandolo alla cieca da sopra, Odisseo di versatile ingegno gli sta aggrappato di sotto, penzoloni (mi pare proprio il caso di dirlo!) tra la vita e la morte, giusto al limite della caverna, ad un passo dalla salvezza.
Beeeh…, che espediente, che emozione, che suspence!
Sì, però, però, vogliamo forse dimenticare il nostro ruolo nella cultura antica, chessò, così appena per fare un esempio, in un ambituccio tipo tragedia greca?
Eh, eh, trasalite al solo pensarlo, sfido, io.
E quindi aggiungo, dove lo mettiamo il culto del tragos e il nostro rapporto con Dioniso? E tutta la dimensione del satirico e del satiresco?
Che fate, trasalite ancora? Non stento a crederlo.
E allora, per mettere a segno il colpo finale, se parliamo di episodi sublimi, dove lo mettiamo il sacrificio di Isacco, quando un mio (sventurato) antenato apparve per segno divino appena in tempo per deviare il coltello sacrificale del padre dalla gola del suo dilettissimo figlio?
Vi ho lasciato senza parole? Beeeh…, modestamente, …
Ah, lo so, lo so, a che state pensando (ve l’ho già chiarito, mi pare: sarò pure capra ma non sprovveduta). Vi pare che per strafare, mi sia andata per così dire a gettare la zappa su… quelle mie zampe bisulci e coriacee.
E certo, una volta richiamati i Testi Sacri, come competere con la smisurata altezza dell’Agnello Sacrificale e del Buon Pastore?
Così elevata ed in genere così ben compresa da essere a tutt’ oggi tradotta nel più indiscriminato eccidio di agnellini e capretti, imbanditi ad ogni Pasqua sulle mense di osservanti e miscredenti con la stessa dovizia di patatine, rosmarino ed altri bei condimenti.
Davvero un gran risultato per noi (ma più per gli uomini, mi pare)
E qui non si discrimina: i nostri piccoli vanno bene quanto quelli delle cugine pecore, che a rigor di logica dovrebbero essere gli unici a godere di cotanto “privilegio”. Mi pare sia profondamente ingiusto: non sono loro il simbolo della purezza, della mitezza, della bontà integrale al punto da sublimarsi per gli altri? Che c’entriamo allora noi, noi che abbiamo le corna e la barbetta luciferina, odoriamo di zolfo (salvo nelle nostre membra che, se ben cotte, emanano invece — e quanto — profumini solleticanti), noi che quando il demonio appare assume le nostre fattezze, soprattutto nelle sue zampe caprine e selvatiche?
Beeeh…,e qui a non avere parole sono io.
Dico, ma vi rendete conto? E che cos’è che ci ha da un giorno all’altro trasformato, dagli animali benemeriti e puri che eravamo, in creature sataniche? E ci ha di norma bandito dai dipinti delle chiese, laddove li ha riempiti di pecore, agnellini e pecorelle di ogni razza, misura e dimensione? Che sia stata un’altra forma di espiazione?
E sì perché, quanto a questo, noi ne siamo proprio i campioni, assolutamente ineguagliabili ed inarrivabili.
Del capro espiatorio, intendo, quella simpatica e pregevole dinamica — che ci ha visto coinvolti in primissima fila e che da noi ha perfino preso il nome — con cui un’intera comunità fa ricadere pene, colpe, pesti, tabe e peccati solo su un malcapitato responsabile. O, tante volte, anche su un gruppo, magari minoritario per etnia, o per sesso, o per condizione sociale, culturale, razziale, e chi più ne ha più ne metta. Concordo che sul punto si è davvero nel tempo mostrata grande creatività e (si fa per dire) … “larghezza” d’ impiego.
Perciò ritengo che fosse proprio a questo che pure il Poeta pensava quando ha parlato del mio “viso semita”, ma la butto solo lì, non ne sono infatti sicura (sono pur sempre una capra, non mi occupo di ermeneutica).
Almeno nei tempi più antichi si trattava di un rito, sacro e solenne com’era giusto che fosse.
E salvifico (almeno per chi ne riceveva i benefici).
Durante lo Yom Kippur, il Giorno dell’Espiazione, uno di noi veniva bruciato subito, sull’altare sacrificale, un altro (estratto a sorte) era invece destinato a pagare per i peccati del popolo di Israele (e ci risiamo con gli Ebrei), che il sacerdote confessava ponendo le mani sul suo capo. Poi veniva abbandonato a se stesso, in zone impervie e selvagge, per essere infine lasciato precipitare da una rupe non eccessivamente distante da Gerusalemme (sigh!).
Contenti loro! E qui sospendo il giudizio, perché se dovessi aprire il taglio sulla questione sacrifici ed immolazione di vittime tanto umane quanto animali, davvero rischierei di non finirla più e la mia vena satirica diverrebbe feroce, altro che medice, cura te ipsum!
E d’altra parte, visto il nostro destino, meglio forse venire abbattuti per riscattare un intero popolo che per mano di insensibili macellai.
Non so voi, ma a me fa un certo effetto svegliarmi la mattina e sapere di dovere intuire dai movimenti degli uomini se questo sarà o meno l’ultimo giorno della mia vita!
A volte mi viene una rabbia, ma una rabbia …
Poi torno a brucare l’erba, che tanto è l’unica cosa che mi sia concessa (e se per questo ne ero capace anche da sola, senza dover ringraziare la domesticazione) e mi accade.
Prima, all’inizio, poco e piano piano.
Adesso invece sempre più forte e distintamente e non so dire se sia un incubo ad occhi aperti o un’allucinazione o un perverso scherzo della mia fantasia sovraeccitata.
Insomma, il fatto è che più provo a ruminare e più sento tutt’intorno un terribile, ininterrotto rumore di mascelle e ganasce che masticano, triturano, addentano, strappano, lacerano, spolpano, a destra come a sinistra, in alto come in basso, da est ad ovest, da nord a sud, di mattina come di sera.
E mentre prima ascoltavo con piacere gli uccellini e gli altri suoni dell’armonia naturale, adesso mi sembra soltanto che l’universo sia un’interminabile, piramidale tavola imbandita, dove se non mangi sei mangiato, e dove centinaia di migliaia di milioni di miliardi di mascelle si aprono incessantemente per masticare, masticare, masticare, gnam, gnam, gnam…

Da Species. Bestiario del terzo millennio, Boemi editore, Catania 2012.

(illustrazione di Franco Blandino)