Le collisioni elementari

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LORENZO BARBERIS

Nella bella locandina dell’Unione Monregalese, quest’anno la Mondovì di “Aspettando Collisioni” appare come un’utopica volante, tra Laputa, Miyazaki e Magritte.

Il percorso di inserimento di Mondovì in “Collisioni”, il grande evento (perlomeno) nazionale di Barolo, era iniziato lo scorso anno, con “Mondovisioni”. Quest’anno la formula è cambiata radicalmente: evento gratuito invece che a pagamento, e nel centro della città invece che isolato, sfruttando la nuova Mondovì Breo pedonalizzata (bene) per un percorso che collega le due piazze dell’evento.

Rimane, comunque, un’occasione interessante di riflessione, che quest’anno ha avuto particolarmente rilievo anche per le tematiche artistiche, con due presenze come il critico Philippe Daverio e il fotografo Oliviero Toscani, il cui discorso però, non privo di sfumature politiche in senso alto, si è amalgamato bene nella giornata di domenica con la testimonianza di Antoci, l’eroe antimafia del momento, e le provocazioni di Travaglio, il più raffinato campione dell’anti-renzismo militante.

Il sabato invece, più dedicato alla comicità, ha visto la presenza di un poeta emerso dal cabaret come Guido Catalano, che per una rivista di “poesia e altro” come “Margutte” è certamente interessante. Ma procediamo con ordine.

Se “Collisioni” è l’incontro dinamico di letteratura e musica nel suo progetto originario, bisogna intanto dire che una delle due componenti qui è funzionata un po’ meno: quella musicale. Il Palco Off dei musicisti emergenti è risultato, di fatto, estremamente isolato, e gruppi emergenti anche interessanti hanno suonato in una piazza assolata pressoché deserta.

Dei due big musicali coinvolti, Roberto Vecchioni e il presidente SIAE Gino Paoli, si è avuto solo il primo dei due, per contrattempi in fondo comuni in questo tipo di eventi. Ma anche nel primo caso, l’Italia ai quarti di finale europei contro la Germania in un sentito “Derby d’Europa” ha rotto le uova nel paniere facendo slittare il concerto vecchioniano in tarda serata, dopo i calci di rigore (e pure la beffa della sconfitta per la “maledizione del cucchiaio”).

La flessione musicale rispetto alla prima edizione basata sui Subsonica e su Renga si traduce anche in una flessione di numeri: da 15.000 presenze a 10.000 (cifra degli organizzatori che la stampa locale ritiene, tra l’altro, eccessiva).

La parte letteraria però, che è quella che più ci compete, è stata decisamente interessante, ai livelli dello scorso anno per quantità e qualità nazionale delle proposte, e con un successo di pubblico decisamente migliore grazie alla nuova centralità dell’evento.

Sabato: la Commedia.

Il sabato della due giorni è stato dedicato di più ad autori legati alla comicità e al cabaret, a partire dal poeta torinese Guido Catalano (qui “spiegato bene” sul Post, con tutti i link anche alle immancabili polemiche letterarie), “ultimo dei poeti” sopravvissuto anche a Montale, che nel discorso del Nobel del 1975 pone sé stesso, naturalmente, come punto d’arrivo della letteratura italiana, con qualche successo. Catalano in effetti è uno dei pochi (l’unico?) che vive di poesia, anche se ovviamente al prezzo – inevitabile – di mediarla con la performance, col cabaret (da cui proviene), usando anche al meglio (primo e pressoché unico in Italia: in USA è fenomeno diffuso) l’inevitabile Facebook come strumento raffinato d’autopromozione.

I detrattori, chiaramente, lo accusano di semplificazione nello stile e nelle tematiche, di banalizzazione del linguaggio poetico: lui ovviamente, abile nelle dinamiche dei social, usa le polemiche a suo vantaggio. Loro lo tacciano di “criminale poetico seriale”, lui ne fa una maglietta. Le critiche, pur con qualche possibile fondamento, non colgono il punto centrale: cosa faccia funzionare Catalano e altri no. Sentendolo (brevemente) parlare ho colto perlomeno la bravura dell’animale da palcoscenico, il veterano da cabaret (come in fondo sono Collisioni e tutte queste manifestazioni culturali: declinazioni varie del vasto cabaret televisivo, nelle sue varie forme e format), abilità che Catalano ha saputo adeguare al web, tra blog (aperto nel 2005) e social usati con estrema perizia.

Sarà vera gloria? Come al solito, ai posteri l’ardua sentenza: curioso comunque che a Mondovì “l’ultimo dei poeti” presentasse il “primo dei suoi romanzi”, “D’amore si muore ma io no” (che riprende e rovescia il suo poetico “Piuttosto che morire m’ammazzo”): passo inevitabile di una strategia di ricollocamento (sempre nel segno ovvio dell’Amore con un filo d’ironia) nel caso si voglia vivere davvero di scrittura e non di serate sui palchi.

A Catalano segue Serena Dandini, cui spetta il compito di rappresentare la quota rosa del festival letterario di Mondovì (l’anno scorso tutto al maschile, non senza qualche punta di polemica). La Dandini – a fianco di “Cuore” di Michele Serra sul piano cartaceo – è stata il mentore dell’educazione politico-sentimentale della mia generazione, tra “Avanzi” e “Tunnel”, e sentirla dal vivo è sempre un vero piacere, anche se ormai è “rifluita sul privato”, come si diceva una volta, e parla di relazioni al tempo di facebook (come Catalano, di cui si dichiara grande fan) con la solita grazia ironica e indolente.

Tra i molti silurati eccellenti della RAI, la Dandini non cede all’intervistatrice sul tema delle polemiche e viene il dubbio se la sua esclusione – del 2011 – sia figlia dell’ultimo colpo di coda di Berlusconi, della transizione montiana o la prima zampata del renzismo arrembante. Meritorio e notevole invece il lavoro di “Ferite a morte”, con cui la Dandini, dal 2011 in poi, si è dedicata al tema del femminicidio tratteggiato con cupa, graffiante ironia.

Saltato per ragioni di forza maggiore Valerio Massimo Manfredi, che comunque sfugge all’equazione del Sabato Umorista, si torna alla comicità con un Paolo Villaggio sempre in forma, eclettico e ondivago con perfida malizia, anche nei duetti con Renato Pozzetto. Dalla sfilza di illustri “vecchioni” del comico italiano si sfila Gene Gnocchi, inizialmente previsto, ma l’infornata di nomi risulta comunque consistente ed efficace.

Domenica: la Cultura.

Dopo la comicità del sabato, la Domenica è stata dedicata a interventi più d’approfondimento culturale, con un occhio di riguardo, almeno all’inizio, per l’approfondimento artistico.

Si comincia a livelli altissimi con Philippe Daverio, il re della critica italiana, che conduce da par suo una riflessione attualissima sull’idea di Europa, sfidando “la melanconia indotta dal demone meridiano” delle due del pomeriggio.

Daverio critica le derive disgregatrici di Brexit e nazionalismo austriaco alla riscossa, ma anche sottolineando la necessità di una Europa della cultura fondata sulle comuni radici classiche, di cui l’Italia costituisce il fulcro essenziale (e minacciato). Ma Daverio è all’opposto dell’idealtipo deteriore dell’intellettuale solo aulico e svagato, e parla anche della necessità di esercito europeo, di servizi segreti europei di fronte alle sfide che ci vengono dal terrorismo dell’ISIS innanzitutto (brucia la recentissima strage di Dacca, contro nove operatori italiani del tessile).

La cultura non è quindi sterile orpello, serve a capire, Bruxelles non è “capitale d’Europa” per mera contingenza geografica ma anche per la scelta di Carlo V come sua capitale fino all’abdicazione del 1555. Un dato fondante (se integrato col necessario contesto storico) che non ci viene restituito, per dire, da Wikipedia.

I grandi che hanno fatto l’Europa l’hanno percorsa da cima a fondo, non sono coloro che si sono chiusi nel loro particulare. Da Tommaso d’Aquino a Goethe, per tacere del Novecento, sono tutti clerici vagantes. Massimo esponente di questi il sovrano illuminato da Voltaire, Federico di Prussia, che parlava “francese con le donne, inglese coi mercanti, italiano con gli angeli, spagnolo con io, tedesco coi miei cavalli”; e ancora oggi, così, se la caverebbe bene, sostituiti ai cavalli una BMW.

Uno di loro, Erasmo da Rotterdam laureato a Torino, ha avuto l’onore (dubbio) di dar nome all’Erasmus, il soggiorno studio europeo che per Daverio è un fallimento, produce vacanze erotico-gastronomiche più che studi rigorosi, e sarebbe almeno da ripensare.

Un discorso non privo di qualche gigioneggiamento qualunquista in favore di pubblico, da smaliziato divulgatore accattivante, ma punteggiato anche di richiami altissimi, precisi e puntuali. Ad esempio Daverio vellica il tema “l’esame per votare” in voga in questi giorni riferendolo all’elettorato passivo, non attivo. “L’europarlamentare deve sapere almeno distinguere tra Carlo Magno e Castelmagno” (o almeno conoscere, nota mia, il secondo dei due, dato che in Europa l’Italia non ha tutelato nemmeno i formaggi storici, a differenza di quelli – per dire – francesi).

In effetti, se la ricchissima Germania versa 100 in fondi europei e ottiene 110, e l’Inghilterra della Brexit ottiene comunque 10 miliardi di fondi per 11 versati, l’Italia è il fanalino di coda nell’attrarli, con 30 euro ottenuti per 100 versati. I nostri Eurodeputati non partecipano al dibattito con gli altri, non ne condividono la cultura nemmeno gastronomica, si fiondano in pizzerie da nostalgici e perdono le cene eleganti (quelle tali sul serio) dove si decidono i veri accordi prima di portarli in commissione. Ritorna il ministro Orlando digiuno di francese alla Pace di Versailles, e le conseguenze sono analoghe per il paese.

Invece noi dobbiamo porre in ogni sede, dal locale al sovra-europeo, il tema che l’Italia è patrimonio di tutti i tardo-latini, che dalle Americhe all’Australia sono figli dell’antica civiltà romana che non è nostra: è di tutti. “Adoro il Piemonte per le sue muffe“, spiega Daverio: i vini, i formaggi, la custodia di un certo spirito gozzaniano che ne è il fascino profondo, non patinato, “non toscano” (e “presidentessa della Toscana” diviene anche per un malevolo lapsus la Polverini, mancante nei confronti del ricchissimo patrimonio artistico laziale, dalla Villa d’Adriano in giù).

Una bacchettata va anche ai cugini di Alba per i nuovi quartieri della città, privi di pitagorica armonia col contesto. Chissà se Daverio non conosce abbastanza Mondovì, la giudica ben conservata o ha deciso di soprassedere per carineria di ospite.

In ogni caso, invita a farsi custodi della bellezza tramite il suo SaveItaly, spontaneo e situazionista, e anche a pubblicizzarlo il più possibile, adattando la “propaganda fide” controriformista: “pro-pagus”, a favore degli incivili dei villaggi dove sopravvivono (super-sto) le superstizioni antiche. Così “adottiamo ciascuno un ricco”, un Trimalcione cinese o arabo da educare ai piaceri della “Dolce vita” come novelle Audrey Hepburn in “Vacanze romane”. Ma il tutto con garbo, senza rivoluzioni, che non fanno parte del nostro stile di vita: lo schioppo in Italia si usa solo per la cacciagione o per il tradimento, sempre insomma per questioni di corna.

E ricordandoci che la fotografia “può mentire il bello dove c’è il brutto” (e a volte deve, purché la consolazione non impedisca l’indignazione ove necessaria), Daverio introduce un altro dei Toscani, un fotografo del calibro di Oliviero Toscani, giunto a presentare il suo ricettario di creatività, “Dire fare baciare”, non senza qualche accenno di provocazione nel suo stile (più dal video del backstage che sul palco). “Toscani nasce nel 1913, quando Jean Cocteau apprende il segreto del successo dal suo mentore: Etonnez Moi, stupitemi” è la presentazione lusinghiera e sempre coltissima che ne fa Daverio.

Toscani lo segue su questa linea e tratteggia (a parte tirate un po’ di maniera contro facebook ed Erasmus, anche lui) alcune celebri provocazioni creative, “Sposatevi con Toscani” (foto di un matrimonio inesistente, che però lo rendono più vero di un matrimonio celebrato ma non documentato iconicamente) e il lavoro sulla Anoressia. “L’unica cosa che cambierei è nascondere il viso della modella: tutti si sono concentrati su lei, non sul problema. Oggi le darei una maschera nera, stile carnevale di Venezia.” Poi anch’egli si adegua nell’apprezzamento di una “Europa nata vecchia“, dove il classico sta oltre le mode, la cupola del Brunelleschi è modernissima perché eterna e un automobile del 1928 vetusta. “La creatività è dall’altra parte del tempo”.

Dopo la cultura come chiave per salvare l’Italia e l’Europa (MondovìEurope, l’hashtag lanciato su due piedi da Daverio), Collisioni fa delle scelte nette sul discorso politico vero e proprio: innanzitutto Giuseppe Antoci, che giunge a parlare dell’attentato con cui la nuova “mafia dei terreni” siciliana ha cercato di ucciderlo, tentativo ormai raro e pertanto sorprendente di attacco diretto al cuore dello stato. Antoci, invitato dal direttore di Provinca Granda con cui è amico da sempre, spiega con chiarezza il nuovo intrico del potere mafioso, basato sul prendere il controllo dei terreni agricoli intimidendo con grossi nomi mafiosi la partecipazione di concorrenti alle aste. Il suo lavoro per mettere in crisi il sistema come presidente del parco di Nebrodi gli ha fruttato l’attentato, per fortuna fallito, che ha avuto l’effetto boomerang di accelerare in tutta Italia la proposizione del Protocollo Antoci per evitare le infiltrazioni mafiose (tramite l’abolizione dell’automatismo dell’autocertificazione dell’antimafia). Un giro d’affari, quello della mafia dei terreni, che frutta all’organizzazione sui tre miliardi di euro l’anno, con un guadagno anche del 2000 per cento sui terreni acquisiti grazie allo sfruttamento dei fondi europei.
Il massimo del pienone lo fa Marco Travaglio, la piazza – e non solo il tendone – gremito all’inverosimile. Travaglio dedica il suo intervento all’attacco al Referenzum, condotto con il consueto sarcasmo al vetriolo, culminato nel duetto con la bravissima Giorgia Solari nelle parti di una Maria Elena Boschi che alcuni tra il pubblico, ahimè, credono autentica.

Travaglio basa la sua performance sulla lettura del vademecum di Renzi per il cruciale Sì al referendum d’ottobre sulla sua riforma costituzionale dei Boschi-Verdini; lo stile brillantissimo non sempre aiuta a capire cosa è informazione espressa in tono sarcastico e cosa aperta parodia.

Nel commentare il “Catechismo renziano” Travaglio parte dagli Angeli: Angelino Alfano, naturalmente, ma anche Anna Finocchiaro confusa con Angela Finocchiaro sulla guida, secondo lui.

Di Madonna ce n’è una, la Madonna dei Boschi ovviamente, ma se lei è la Madre il Padre della Riforma è Napolitano. Più avanti però il catechismo dà il titolo anche a Renzi, definito Enfant Prodigedella sinistra italiana.

Santi mancati ma guardati con bonarietà sono Verdini, Calderoli, Berlusconi (“non ha tenuto unito il suo campo” la sua vera colpa, mentre i vari processi sono derubricati a “persecuzioni”). Dalla A angelica alla Z dei diavoli, di cui il più temibile è “l’ansiogeno” Zagrebelky, capo della legione dei 56 costituzionalisti-gufi; i “duecento scienziati” trovati da Renzi sono esperti in ogni campo eccetto quello legislativo-costituzionale; molti in marketing, ma anche psicopatologia si difende bene, spiega ironico Travaglio.

Tra questa legione angelica di Santi figura Paolo Crepet, direttamente da un plastico di Porta a Porta, e un Federico Moccia definito generosamente “scrittore”. I sostenitori più credibili difendono la riforma con argomenti surreali: “Una puttanata, ma non ho la faccia per non votarla”, direbbe Massimo Cacciari, mentre il cambio d’opinione di Benigni sarebbe repentino e rapidissimo. Su tutti il mentore di Renzi, lo specialista americano, Jim Messina, l’uomo che ha consigliato un altro referendum a un altro capo di governo: quello sulla Brexit.

Le Piaghe d’Egitto sono ciò che ci attende a non votare il sì, secondo Confindustria e Renzi stesso. Insomma, il divertimento c’è, ma a volte quel che si guadagna in intrattenimento si perde in profondità e in precisione della critica (cosa è vero, cosa parodia?).

Anche i comici Dario Vergassola e Giobbe Covatta non risparmiano alcune frecciate al premier nei loro due interventi sostitutivi di Gino Paoli. Il primo vanta di aver chiesto a Renzi se la notte va a dormire ad Arcore, il secondo ci racconta di visioni da un 2019 prossimo venturo dove Renzi accumula su di sé non solo presidenza del consiglio e segreteria del partito, ma diviene anche gelataio, barbiere e medico di base.

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Insomma, tra Comicità, Cultura e Politica variamente intrecciate il festival di quest’anno interessa e diverte, offrendo anche qualche spunto di riflessione utile per leggere la nostra complessa quotidianità. Quello che è mancato, certo, è la musica, specifico di Collisioni fin dal nome che prevede tale connubio. Altri luoghi come Dogliani sono riusciti a costruire Festival tematici (come appunto quello della TV) in grado di funzionare egregiamente anche senza l’elemento musicale; ma lo specifico della fortissima formula-Collisioni si basa sul dualismo letterario/musicale e quindi, in un senso o nell’altro, qualcosa andrà ricalibrato.

La prossima edizione di Collisioni, comunque, se avverrà sarà ormai all’indomani delle prossime elezioni monregalesi; un altro sindaco e un’altra maggioranza faranno gli onori di casa, anche se la preparazione compete ancora a quella attuale. Il clima pre-elettorale ormai iniziato avrà una sua influenza? Se sì, quale? Anche qui, ci sarebbe molto da discutere tra satira, politica e riflessione culturale.