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PATRIZIA GHIGLIONE

Vivo in un piccolo paese di provincia, nella pianura che guarda le montagne. Vivere lì ha segnato molto il mio modo di vedere le cose. I vecchietti che abitano intorno a casa mia, si trovano a fare “consei” (1) davanti alla cappella di San Bernardo. Siamo diventati amici, loro sono la parte più viva del paese. Guardano quello che succede intorno, sono presenti, lo vivono, vanno in piazza a parlarne. Lo fanno lì, vivono la piazza. Mi contano che fino a trent’anni fa la gente arrivava con la sedia, in piazza. Cinquanta, sessanta persone che andavano lì, a farsi compagnia. C’era una bialera (2), il viale. Si andava a lavare i panni, in quell’acqua, si condivideva lo spazio. Nella bialera si pescava anche, tutto era, lì. Oggi la bialera è coperta dal cemento, non si vede più. C’è un incrocio, dove passano le macchine, la piazza è diventata un parcheggio e le macchine tolgono il piacere del salotto.

Me lo dicono in piemontese. Io voglio impararlo, questo piemontese, e loro mi aiutano. Uno di loro ha il compito di darmi un colpetto  sulla tibia con un bastone, se mi scappa una parola d’italiano. In effetti a volte le parole mi mancano, altre non mi sento me stessa, quando le uso. Certo, sarebbe più comodo parlare italiano. Ma mi sembrerebbe poco rispettoso, e poi è l’unico modo per entrare veramente in quel mondo di cui voglio far parte anch’io.

Faccio l’università, ho scelto comunicazione interculturale con indirizzo antropologico: è un tipo di approccio che mi ha convinta, proprio perché mette in discussione tutto quello che noi diamo per scontato dell’essere uomini.

Tuttavia, l’università a volte deprime. Certo, uno dice: «l’importante è formarsi, anche solo dal punto di vista della crescita personale». Ma non è così semplice. Se scegli di uniformarti, di iscriverti a facoltà promosse dal mercato, sei integrato e non hai più dubbi. Se scegli l’oscurità e l’anonimato, rischi l’esclusione. A volte, la pubblica condanna. Ma io mi sono detta: «voglio diventare un certo tipo di persona; e poi quello che succede, succede». Magari succederà qualcosa di bello.

Così sono entrata in quest’università. L’università è grande e piena di gente. Che non si parla. Non esiste una collettività giovane che si confronta. I docenti che ti danno confidenza sono pochi, i migliori; perché ti insegnano davvero. Gli altri sanno tutto e si allontanano proprio grazie al loro sapere. Una volta è capitato che uno di loro, uno di quelli della prima specie, si sia seduto vicino a me, in treno, e che mi abbia sottoposto un suo articolo, da correggere. Non ho corretto niente, perché per me lui è perfetto. Ma questo lui non lo sa.

Le lezioni universitarie, al di là di tutto, sono bellissime: certi professori ti passano tante cose, e tu non li puoi nemmeno ringraziare. Il lato umano non deve trapelare, non si possono attraversare i confini.

Un esame bellissimo è stato quello che non ho passato: mi ha bocciata ma abbiamo discusso, c’è stato confronto. Le lezioni migliori, alla fine, per me sono quelle in cui esco con la sensazione di non aver capito niente. Sono provocazioni talmente grandiose e piene di spunti da lasciarti sempre l’impressione che ti sia sfuggito qualcosa. le lezioni di Antropologia di genere, per esempio, ti spiegano che ci sono infinite maniere di essere uomo e di essere donna; nel mondo niente include e niente esclude. Si tratta solamente di costruzioni culturali. Ci sono società matriarcali in cui il ruolo del padre viene ricoperto dai fratelli della madre, dagli zii; la paternità, dunque, non è obbligatoria ma solo uno dei tanti modi possibili di esprimere l’essere uomo. Studiare le società, insomma, è una figata perché capisci che tutto quello che dai per scontato, non è così, che è solo una questione di stereotipi: cose che si credono vere, possono tranquillamente essere messe in discussione.

Il mio sogno è quello di imparare a guardare le cose naturalmente, senza definirle a priori. Svegliarmi alla mattina, sotto una bella coperta calda, e guardare il mondo, assaporandolo così come lo vedo, senza fretta e con la massima libertà. E vorrei stare con tante persone. Incontrare tante persone autentiche, che si sono costruite da sole. Persone anche molto diverse tra loro, da cui imparare, iniziando percorsi creativi. Creativi perché insegnati con la passione di chi è convinto e vero, perché è la passione del vivere che crea e che attrae.

Ma poi, infine, noi siamo davvero individui singoli? Credo proprio di no. Io sono mio nonno, per esempio, sono mia madre. E vorrei eliminare tutte le barriere, quelle del tempo e quelle dello spazio. Lo spazio che allontana le persone.

Il mio professore preferito ci ha spiegato che la rappresentazione grafica dell’uomo, presso i Kanak della Nuova Caledonia, è un  cerchio con tanti raggi tutt’intorno: io sono quello che mi arriva dagli altri e che trasmetto agli altri. Io non sono niente, senza di loro; gli altri sono niente senza di me.

Vorrei scrivere sul mio bigliettino da visita “rivoluzionaria”. Anche se.

Note
(1) aggregazione di persone che  si scambiano opinioni (dialetto piemontese)
(2) canale per irrigazione (idem)

(Beauwindow https://www.margutte.com/?p=4999)