(La) Prea della mia infanzia III. Tra ieri ed oggi

Foto di Silvia Pio

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GIUSEPPE PRIALE

Ora funziona soltanto più l’inesorabile tribunale del tempo, che condanna all’oblio non solo usi e costumi della nostra terra, ma anche proverbi, detti, massime, parole e fonemi della nostra parlata. La quale col tempo finirà per assimilarsi sempre più al piemontese di tipo monregalese o addirittura all’italiano. Già oggi a Prea non tutti sanno, per esempio, cosa significa sadùl (sazio), giola (indigestione), avòř (avulso, stranito), manèsch (abile solo in lavori manuali), manènt (servitore; nel periodo feudale, servo obbligato a (ri)manere legato per contratto alla terra del padrone). Oggi, forse, nessuno sa cos’erano le botine (stivaletti da donna, in inglese boot, stivale), cos’era la pusča (bevanda acidula, dal lat. posca), la trempa (vino allungato con acqua), la buèna (siero inacidito del latte), il lač bèt (colostro, primo latte dopo il parto), il biò (torrentello), l’arsussa (risorsa), le ghërle (castagne non fecondate, ma il termine richiama alla mente la pronuncia inglese di girl, signorina). Nessuno direbbe più sta’ quai, ma sta’ citu (sta’ zitto); nessuno direbbe più čabra, ma cřava (capra), però direbbe ancora čabřeřa (zecca della capra); nessuno direbbe buča (labbro), ma labř, però direbbe ancora buceřa (eruzione labiale). Non si sente più dire pařpaiùn, cřaiùn, scartařì, ma fařfala, matita, quaderno. Così plan (pianura), plöia(pioggia), uřeta (stomaco, piccola olla, olletta), fařağ (cosa voluminosa ma poco consistente), stela (dal lat.astellam, legna spaccata da ardere ), ravei (sveglia), rideu (tendina) e tantissimi altri termini non sono più conosciuti o usati in qualche detto, proverbio, massima o in qualche toponimo: veri archivi linguistici di parole dismesse.
Un’altra interessante parola, ormai dismessa, è přich (debiti, chiacchiere), che ha il suo omologo in prechi dell’italiano antico con il significato di preghiere, derivate entrambe dal latino preces. La divergenza di significato, però, risulta solo apparente, se consideriamo che in passato la miseria in montagna era molta e i soldi erano pochi. Per cui, chi andava alla butea a comprare senza soldi, rivolgeva “preghiere” al bottegaio di aver pazienza, di segnare (mařcò) il debito (spesse volte aggiunto ad altri) sul quaderno della vergogna (crenta), con la promessa di estinguerlo al più presto possibile, non appena venduto il vitello, che magari non era ancora nato, o non appena vendute le castagne, che non erano ancora scese. Insomma, i più poveri in questo modo riuscivano a tenere in sospeso i pagamenti, sostituendo l’umiliante parola debit con un pietoso e più dignitoso přich.
Però, gli immancabili linguacciuti potevano, a loro volta, farne altri (inestinguibili) di ordine morale, con le chiacchiere o peggio con le maldicenze.
Oggi, prima di mangiare o bere, nessuno invoca più Ğöše (Gesù), oppure dice che un tale è morto senza dire Ğöše, ossia che è morto improvvisamente, senza neanche aver avuto il tempo di invocare Gesù.
Pochi sanno ancora cos’erano le gřule (zoccoli completamente in legno) – da non confondere con le grolle valdostane, ben diverse per forma e uso, pur derivando, penso, dallo stesso etimo – scomparse, forse con lo scioglimento del fantomatico ordine degli “Zoccolanti” e l’abolizione della “liturgia” delle Tenebre del Venerdì Santo, che si concludeva, come ho già detto, con la čabra, sostenuta dal ritmo binario degli zoccoli, battuti con forza sul pavimento da chi non possedeva “strumenti musicali”, tra i quali è da ricordare la scivuřa, un piffero ottenuto dalla corteccia sfilata da un giovane pollone di castagno in primavera, quando la saba (linfa) riprendeva a scorrere.
Oggi neanche il margaro, più tradizionalista, usa le gřule, quando va nella stalla a dunò ghia (o ghidò), cioè a governare le vace (mucche da latte) e le giure (le manze che non hanno ancora figliato).
Di questo passo, fra non molto, spariranno anche i toponimi nella parlata del Chié, sostituiti da quelli italianizzati, perlopiù, malamente o completamente stravolti dai topografi fiorentini dell’I.G.M.
A tal proposito, per evitare che spariscano con il tempo anche i nomi dei nostri tèč – casolari di montagna a tetto racchiuso, ritenuto, dagli studiosi di architettura, d’origine celtica, dal momento che si trova molto presente nei Pirenei, nel Galles e in Irlanda, paesi in cui la presenza dei Celti è stata più massiccia e duratura che altrove – la nostra Associazione, Nusèč dëř Chié (Noi dell’Io) di Prea, ha realizzato vicino al cimitero una grande mappa topografica dei tèč, ottenuta spianando una roccia a mo’ di grande leggio, con lo scopo di salvare, dall’oblio, i loro nomi in occitano, dal momento che molti sono ormai spariti sotto la vegetazione spontanea o deceduti per abbandono e vecchiaia.
Ritornato da militare, – non mi sono neppure meritato i gradi da caporale – in una giornata estiva particolarmente calda, cedetti all’impulso di ritornare, dopo una dozzina d’anni, al Gorgo Nero (Guřg Niřùn dal lat. gurgum nigrum), per un po’ di refrigerio, per rinfrescare i miei ricordi legati a quel luogo e poi fare anche un po’ di utile lettura.
Intanto, il Gorgo non mi parve più così nero, cosi grande, così profondo come una volta. L’Ellero con una delle sue piene eccezionali l’aveva reso meno profondo, aveva divelto la folta vegetazione soprastante, allargato l’alveo e formato persino un po’ di spiaggetta. Pertanto, prima di immergermi nella lettura del saggio sul canavesano Giovanni Flecchia (1811- 1892) – professore di linguistica all’Università di Torino, autore di una Grammatica sanscrita e studioso di etimologia, toponimia e dialettologia italiana: scienze che mi interessavano per condurre un’indagine sul Chié di Prea – mi tuffai con la mente un’altra volta nel Gorgo, per rileggere ancora una volta le pagine della mia infanzia e della mia fanciullezza scritte sulle sue acque, ora limpide e tranquille come non mai. Di quel tempo rimaneva ancora il ricordo di un grande spavento e un segnetto, quasi invisibile, sulla mia fronte, quello che mi aveva meritato di diventare il capo di una banda di ribelli (all’acqua, al sapone e alle rape), ai quali piaceva giocare alla guerra partigiana e affrontare imprese, anche rischiose, solo sulla terra ferma. Con le palle di neve, poi, si lottava fin quasi allo sfinimento, a volte fino all’accecamento (temporaneo). Con le pietre, però, avevamo fatto il patto che non si doveva lottare: si potevano usare solo nella lotta contro i mostri, i fantasmi e il diavolo in persona.
Devo precisare, a questo punto, che le sassate – scagliate contro il diavolo tenuto alla catena da San Grato nel grande quadro dietro l’altare della cappella omonima – furono sicuramente la conseguenza d’un abbaglio, di un errore di “valutazione”, dovuto senz’altro ad un eccesso di zelo da parte di qualche ragazzino “iconoclasta” redivivo.
Ma l’arma migliore (un vero gioiello di ingegneria balistica infantile), usata in tutte le stagioni, sia per giocare alla guerra, sia per le gare a chi sparava più lontano, era lo schiopèt, un piccolo schioppo di legno, realizzato con un segmento di canna di sambuco, compresa fra due nodi e svuotata del grande midollo bianco e spugnoso. Funzionava ad aria compressa fra due stüe, due proiettili di stoppa ben masticata per renderli più consistenti, posti uno in uscita, l’altro in entrata della canna. Il secondo proiettile, spinto con decisione per mezzo del canèt – una cannula di legno stagionato con impugnatura cilindrica, simile allo stantuffo di una pompa da bici – faceva uscire il primo con uno scoppio (più forte era lo scoppio, più lontano andava il proiettile). Dopo alcune prove a salve, l’arma – lubrificata con abbondante saliva prima dello sparo – era collaudata, ma diventava sempre più efficiente con l’uso.
Sovente organizzavamo anche missioni esplorative e di “rastrellamento” nelle slařie, nei sottotetti delle nostre case, ma preferibilmente delle case abbandonate. Una volta in una di queste slařie trovammo un grosso mucchio di cartucce e alcuni fucili di varie dimensioni. “Rastrellammo” un bel po’ di cartucce (luccicavano come l’oro), ma giudiziosamente, però a malincuore, lasciammo i fucili per paura di essere visti dai soliti “malpensanti” di noi, ribelli solo per gioco e a certe norme d’igiene invise a tutti i bambini “ruspanti” come noi. Andammo a svuotare le cartucce sotto la pancia (bařma) della Grande Pietra – la sede più adatta per i nostri convegni segreti – facendo un bel mucchietto di polvere pirica insieme alle cartucce vuote. Dopo l’ordine “fuoco alle polveri”, una grande vampata bianca si alzò fino alla volta della bařma, mentre un crepitio da mitragliatrice fece volare in tutte le direzioni le cartucce, munite della capsula al fulminato di mercurio. Per fortuna nessuno degli sconsiderati piromani venne colpito in modo serio. La prova del fuoco era stata superata, ma con un certo tremore alle gambe, che a stento ci portarono a casa ammutoliti e febbricitanti per lo spavento.
Devo precisare che il gioco non era di nostra invenzione: noi l’avevamo solo variato pericolosamente con le cartucce vuote. A nessuno, però, venne più in mente di fare la “controprova del fuoco” e rastrellare anche i fucili, magari di notte tempo, per rendere più realistico il gioco della guerra fra partigiani e tedeschi. Una parte, quella dei tedeschi, che nessuno voleva fare, perché doveva sempre essere quella dei perdenti, costretti con la pancia a terra a implorare “no capùt”. Allora si ricorreva alla sorte (malasorte), a cui io, come comandante della brigata, mi autoescludevo, nonostante qualcuno mugugnasse ancora, dopo aver dato un’altra prova di coraggio (da farmela sotto e da meritarmi il riformatorio) andando a prendere, per scommessa e di notte, una nidiata di merlotti sfurgnàt (pronti al volo) in fondo ad un loculo del cimitero.
Un giorno, mentre raccoglievo le castagne nei pressi della Grande Pietra, vidi sotto il suo fianco, tra sterpi e foglie, uno strano oggetto ovale di colore verde scuro, con la superficie quadrettata e un piccolo quadrante bianco, simile a quello di un orologio da polso (una bomba a mano, chiamata “ananas” nel gergo militare). Il mio primo impulso fu quello di correre ad annunciarne la scoperta agli amici. (Era già passato un po’ di tempo dalla “prova del fuoco” e le gambe non tremavano più). Ma poi, non so da chi ispirato, andai invece a comunicarla allo zio materno (mio tutore), ritornato sano e salvo dalla guerra. Lo zio venne immediatamente sul posto. Prese lo strano oggetto che, lanciato al riparo della Grande Pietra, finì su un masso sottostante, testimone ancor’ oggi dell’effetto della deflagrazione.
Poco mancò che il gioco della nostra guerra, fra partigiani e tedeschi, finisse in tragedia, come era avvenuto per altri bambini del nostro comune. Fortuna volle che l’ultima pagina della mia tragedia famigliare fosse già stata scritta e sigillata alcuni anni prima.
Girata l’ultima pagina dei ricordi e neppure aperto il saggio sul linguista Giovanni Flecchia, un improvviso schiaffo, dato alla superficie quasi piatta e trasparente dell’acqua, mi riscosse dal torpore in cui mi trovavo: era stato quello di una trota, che subito dopo andò a rifugiarsi in un anfratto della riva su cui mi trovavo. Mi alzai e, senza neppure mettere i piedi in acqua, andai a cacciare la mano nel suo rifugio. Messa in posizione frontale, come se mi stesse aspettando, si lasciò prendere per le branchie con l’indice e il medio. Docilmente si lasciò tirar fuori, quasi senza dimenarsi. Per nulla cosciente di aver pescato di frodo e in modo improprio, la portai a casa avvolta in una grossa foglia di gřavassa, una pianta che prospera lungo i corsi d’acqua, un tempo usata anche, all’occorrenza, come cappello parasole o parapioggia. La nonna la cucinò per cena, ma rinunciò a dividerla con me, perché non era grande come quella che mio padre aveva tirato su con le mani insanguinate nell’estate del 1944, quando l’Italia cercava disperatamente di uscire, dopo vent’anni di apnea, dal “gorgo nero” del Fascismo; quando mio padre pescava di frodo per sfamare quelle quattro bocche che pochi mesi dopo (12-12-1944) sarebbero rimaste a pigolare cibo e protezione, ma invano.

(Fine)

(La) Prea della mia infanzia I. La Prea e l’Ellero

(La) Prea della mia infanzia II. Infanzia e tradizioni