Le arie che mi do – 1 (Puccini)

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GIANNINO BALBIS

 

In quelle trine morbide

(Giacomo Puccini, Manon Lescaut, atto II)

Chi è Manon  Lescaut? Una, nessuna, centomila, forse. Sia nel romanzo di Prévost, sia nelle opere di Auber, Massenet e Puccini – pur con diverse sfumature – il suo profilo psicologico e comportamentale è un’irrisolta combinazione di superficialità e calcolo, scelte di cuore e scelte di interesse. Emma Bovary e Dama delle camelie in minore, più immatura e volubile di entrambe. Vittima consenziente di scelte altrui e vittima inconsapevole di scelte o non-scelte proprie. Sempre in fuga, sempre insoddisfatta, prigioniera di contraddizioni e ambiguità.
Il contesto in cui si muove, d’altronde, non lo è di meno: la vicenda è ambientata nella Francia prerivoluzionaria e si conclude nella Louisiana ancora francese del ’700, ma – almeno per quel che riguarda l’opera pucciniana – le atmosfere sembrano già quelle struggenti e maledette di fine ’800 e primo ’900.
Personaggio in ogni caso affascinante, Manon, proprio per la sua inguaribile volatilità: tanto da legare a sé in maniera indissolubile un idealista sognatore come Renato Des Grieux,  che lei ripetutamente ama e tradisce, abbandona e rimpiange. Distacco e rimpianto sono, probabilmente, i marchi dominanti della sua storia.
L’aria del secondo atto In quelle trine morbide ne offre un esempio eloquente. Immersa nel lusso dell’abitazione parigina del vecchio e ricco amante Geronte, ma preda del gelo mortale di un rapporto senza sentimento, Manon rimpiange Des Grieux, le sue carezze voluttuose, le sue labbra ardenti, le sue braccia infuocate. È il preludio alla catastrofe finale: denunciata, imprigionata, deportata, Manon pagherà con la morte l’ultima fuga, l’unica senza ritorno, della sua vita. Ma col conforto della presenza di Renato, destinatario, finalmente esclusivo e disperato, del suo ultimo sorriso. Perché anche alla fine, come scrive l’abate Prévost nel suo romanzo, “la costanza e la fedeltà non meritano che dispe-razione e abbandono”.

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O Mimì tu più non torni

(Giacomo Puccini, Bohème, atto IV, duetto)

 La soffitta fredda e disadorna del poeta Rodolfo e del pittore Marcello – luogo simbolo della vie de bohème parigina – è lo spazio fisico e psicologico dove tutto ha inizio e dove tutto finisce, in quella assoluta perfezione di simmetrie narrative e musicali che è la Bohème di Illica e Giacosa non meno che di Puccini.
All’inizio Rodolfo e Marcello combattono gelo e fame scherzando sul lavoro e sull’amore, caminetto che sciupa troppo … e in fretta. Alla fine combattono con la nostalgia, confi-dandosi l’un l’altro le pene d’amor perdute: O Mimì tu più non torni, mia breve gioventù canta Rodolfo, Io non so come sia che il mio pennel lavori contro la voglia mia gli fa eco Marcello.
Dice Dostoevskij che gli artisti ispirati intuiscono Dio. Rodolfo e Marcello – il primo soprattutto – intuiscono quella variante del divino che chiamiamo destino. Mimì tu più non torni… Mimì sta per tornare in realtà: ma non per restare, per ubbidire al destino, appunto. E con lei ubbidisce al destino la breve gioventù, la giovinezza audace, spensierata, votata alla gioia e alla bellezza, che il tempo porta via. La fuga del tempo contro  l’eternità della giovinezza: è il filo conduttore della Bohème.

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Signore, ascolta

(Giacomo Puccini, Turandot, atto I)

Nel pantheon delle eroine pucciniane suicide per amore, Liù – la protagonista tragica di Turandot – è la più sublime. La sua vita è tutta nell’ombra d’un sorriso, che lei, schiava, un giorno ha ricevuto dal principe Calaf, unica ricompensa al suo amore segreto e senza speranza. Sua missione, assistere con dedizione assoluta il vecchio e cieco re Timur, come Antigone con Edipo. La sua impresa, serbare a qualunque costo il segreto del nome di Calaf, fino alla scelta estrema, che svelerà la fermezza eroica nascosta nell’infinita dolcezza del suo carattere.
Ma Liù nasconde anche nel proprio destino le risposte ai tre enigmi della spietata principessa cinese: la speranza, la vana speranza d’amore (che ogni notte nasce / ed ogni giorno muore); il sangue, che per amore verserà; e Turandot stessa, che sancisce la sua infelicità e la sua morte. Calaf risolverà gli enigmi senza sapere che erano già risolti nel cuore di Liù, perché non si è mai accorto di lei e del suo amore, neppure quando Liù glielo confessa, atterrita al pensiero che lui, perduto ormai nel fascino di Turandot, ne accetti la sfida e ne possa morire: Signore, ascolta!…, quanto cammino col tuo nome nell’anima, col nome tuo sulle labbra! Liù, votata al segreto, alla rinuncia, al sacrificio…
Chissà se Gabriel Garcia Marquez pensava a lei quando scrisse: C’era una stella sola e limpida nel cielo… e sentii in gola il nodo di tutti gli amori che sarebbero potuti essere e non sono stati.

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Tu che di gel sei cinta

(Giacomo Puccini, Turandot, atto III)

 Liù, la sublime eroina di Turandot, amante non riamata, che si uccide per non rivelare il nome dell’amato Calaf, sarebbe certamente piaciuta a Rainer Maria Rilke, che muore nell’anno stesso della prima di Turandot alla Scala (1926), con la famosa direzione di Toscanini e l’interruzione dell’opera proprio dopo la morte di Liù. Rilke, che nella prima elegia duinese ha celebrato le donne non corrisposte in amore, definendole amanti più vere delle corrisposte, pronte a morire affinché l’amato possa rinascere a nuova vita: Canta di loro, delle abbandonate! Tu quasi le invidi, / che ti parvero tanto più amanti delle ricambiate. /… Perfino la morte per il loro uomo  fu soltanto pretesto per la sua ultima nascita.
Esattamente questo dice Liù prima di uccidersi, rispondendo alla domanda di Turandot: chi ha posto tanta forza nel tuo cuore? L’amore, dice Liù: quell’amore che tu, cinta di gelo, non hai mai conosciuto, ma presto conoscerai, perché anche tu – come me – amerai Calaf. Ed io muoio perché egli vinca ancora: vinca avendo salva la vita e vinca facendosi amare da te. Liù è l’esatto contrario di Turandot – una schiava innamorata che si dà la morte contro una principessa glaciale che semina morte – ma vuole, morendo, continuare a vivere in lei, nell’amore che attraverso di lei finalmente potrà raggiungere Calaf ed essere da lui ricambiato.
Estremo gesto di disperata tenerezza…, come nei versi di Majakovskij: Lascia che lastrichi con un’ultima tenerezza la strada su cui cammina il tuo passo che per sempre si allontana.