Paesaggi creaturali

azzola-copertina

CLAUDIO ZANINI

Da “Tutte le forme di vita” di Claudia Azzola, La Vita Felice 2020

(senza titolo)

Taglio i gambi della rosa muscosa
come taglio i capelli, sento salire
odori suscitatori di selvagge
percezioni, il nettare profondo
di ogni strofa e fonemi rinnovati,
arte coltivata in reminiscenza
di non so che mater materia,
di un magone esistenziale,
non fui favorita, favorite l’arte
che coltivo, quale la perla-luce,
la forma intorno alla voce dell’io.
Favorite la mia voce,
questa voce.

Fin dalla prima occhiata, nel Poemetto delle api, primo capitolo della raccolta poetica “Tutte le forme di vita”, si coglie la densa e molteplice ricchezza di significanti che pervade l’intero testo.

La raccolta è composta di brevi componimenti autonomi, coinvolti tuttavia entro un continuo flusso poetante e filosofico che conferisce loro una intima e salda unità di forma e pensiero. Ciascun testo è caratterizzato da un verseggiare complesso, direi caleidoscopico; una miriade d’immagini scaturisce dalla frantumazione del discorso, dove le parole esprimono una molteplicità semantica all’interno d’un tessuto d’allitterazioni, salti percettivi, inattesi flash, rime interne, richiami, allusioni ad altre cellule del testo. Parole (simboliche e no), che sono “tronchi fossili” carichi di storia, oppure nomi, sostantivi, aggettivi, forme verbali che compaiono come inattese schegge di senso, in sotterranea relazione reciproca, sebbene apparentemente estranee l’una all’altra. Il loro incontro amplia i significati, ne riflette obliquamente le immagini e istituisce relazioni sorprendenti. Qui, Claudia mette in campo una ricchezza lessicale e una magistrale capacità di cogliere ed evocare connessioni.

Ogni breve componimento appare quale nucleo compatto che lampeggia di fulminee illuminazioni, anche per associazioni mentali come per esempio: “il bombo e la bombarda”, il “gotico cisalpino veneziano/bombi/bombicina” o “tessuto medioevale/trina architettonica/segni della natura”; in cui entrano in corto circuito: insetti e macchina bellica, Arte e manufatto, Storia e natura; oppure, il “nerogiallo delle api” accostato/contrapposto a quello “delle armature dei goti”, e così all’interno d’una frammentazione che, nella sintetica costruzione di senso, suggerisce l’intimo nesso di tutte le creature e delle loro immagini entro un unico organismo vivente nel corso d’una Storia naturale e della specie umana.

Tale concetto di “Storia umana e naturale”, mi ha richiamato subito alla memoria una serie di piccole opere di Paul Klee in cui convivono, in un sapiente equilibrio formale, gli elementi più disparati: fiori, animali, insetti, figurine, visi, geometrie e segni, risolti in forme archetipiche. Anche questi brevi testi di Claudia, come molte opere di Klee, hanno l’identità di figurazioni immaginali complesse e gremite di senso. Il senso vasto e profondo che affiora dall’inconscio millenario.

Per esempio, il dipinto Ad marginem (1930) di Klee, è risolto entro un testo pullulante di creature, che permette diverse modalità di lettura (diritto, rovesciato, destra, sinistra), dove lo spazio è aperto, fluido (non c’è spazialità geometrica o cromatica, né prospettica o assonometrica). Un sole centrale suggerisce l’idea compiuta di cosmo. Parafrasando il titolo del trattato di Klee, Storia naturale infinita, allora la raccolta poetica di Claudia, mi appare come il palinsesto per una Storia creaturale infinita (infinita perché rivolta al futuro) recante il sottotitolo Paesaggi creaturali.

Uno dei temi principali di tale Storia creaturale, riguarda gli animali e gli insetti. La loro capacità salvifica. Potrebbero, dunque, salvarci gli animali, con la loro ineffabile e segreta intelligenza? Sono creature oscuramente consapevoli che il loro destino è d’essere incondizionatamente della natura. E di dover perseguire l’incessante e paziente lavorio di connessione d’ogni suo elemento, all’interno d’un disegno complessivo, al fine di ricostituire un universo di relazioni, vivibile per ogni creatura e forma di vita.

Claudia cita una miriade d’animali (che ben potrebbero figurare in un kleeiano ma anche borgesiano Bestiario fantastico); tra questi, “il gatto, che ha vita immaginale”, e “l’essere veggenti delle cicale” in un’epoca d’omologazione assoluta; accanto a “la mitezza della lupa”, “la civetta occhiuta” è sempre all’erta e “l’ermellino bianco che piuttosto muore che insozzare il candido manto”; mentre affermano la loro esistenza “clan di scimmie immutabili” insieme al fervido e costante agire d’altri innumerevoli umili creature nel ventre guasto della storia. Sebbene “gli insetti si vanno spegnendo”, essi, irriducibili, lavorano per il futuro. Forse aspettano con pazienza che il nefasto sapiens scompaia.

Corrisponde e si oppone a questa sotterranea realtà vitale, sebbene appariscente forse solo all’acuminato sguardo poetico dell’autrice, la dolente realtà del presente, dove la creatura homo sapiens vive l’immediato e ansioso qui e ora (il “dopo gli è indifferente”), soffocato in un’esistenza da topi in una terra bruciata, mettendo in pericolo la propria e l’altrui sussistenza. Il suo linguaggio è corrotto dai “neologismi già putridi della neolingua”. Una lingua arida, omologata a quella dei mercati finanziari e delle merci, che caratterizza gli ”uomini vuoti” (Eliot) che hanno perduto la tagliente qualità dell’ironia (del witz) e l’abitudine al riso liberatorio (“non v’ha arte senza riso”). Anche Jarry e Artaud sono chiamati a evocare l’estrema libertà della loro lingua selvaggia, in cui l’inconscio liberato e perversamente rivela la dolorosa frammentazione dell’Io contemporaneo che si aggira in un paesaggio creaturale irrimediabilmente devastato.

Alla parola arida e tradita, costretta entro una vuota assenza di segni e significati Claudia oppone la bellezza di questa raccolta, che racchiude tutto “lo splendore del libro miniato”. Infatti, alla presenza continua degli animali nel contrasto allo sconfortante Stato delle cose, s’accompagna l’ostinato recupero e salvataggio dall’oblio di accadimenti e vicende sotto cui, in trasparenza, affiorano vividi residui della Storia alta, dell’Etica civile.

Si percepisce, in questo franto e appassionato poema, la costante presenza di “cose”, nella loro sofferta carnalità (grevi, logore, vissute, scarnificate). Sono materiali (nomi, corpi, cose, eventi fattuali…) da cui traspare la memoria profonda e migliore della specie: le tracce di “eroi e tombe”, dei miti immortali, delle stagioni di quando gli dèi se ne sono andati sigillando un’epoca remota di cui custodiamo aurei indizi.

Sono versi sovente velati da un’accorata tristezza che li percorre come dolente vena, da cui, tuttavia, si levano inattesi momenti di feroce ironia e aspre invettive, che richiamano ciascuno alla consapevolezza morale e civile.

Raro e luminoso materiale di recupero, in grado ancora di dare un senso a “tutto ciò che accade”, vale a dire, (per Wittgenstein), al Mondo; mentre della bellezza non rimane che la spoglia mirabile da difendere e custodire. Consapevole della rovina della vicenda umana, il poeta, che sola ha la “voce che splende nella bocca”, e ansiosamente cerca chi se ne prenderà carico.

(Recensione apparsa su ODISSEA)