La nostra classe sepolta. Cronache poetiche dai mondi del lavoro

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AA.VV.

A cura di Valeria Raimondi

La nostra classe sepolta – da un verso di Luigi Di Ruscio – si prefigura come una raccolta poetica corale, militante e non istituzionale, mossa dalla passione e dalla rabbia, dalla convinzione che ci sia ancora qualcosa da dire e che vada detta.
Il libro raccoglie vari contributi dai mondi del lavoro, in cui la cronaca convive con la poesia per dar voce ai protagonisti di una lotta tuttora in corso. Alcuni degli autori qui raccolti sono scrittori già affermati, altri alla loro prima pubblicazione. Valeria Raimondi, curatrice dell’antologia, ha portato avanti una selezione attenta, emotiva e “intuitiva”, dichiaratamente schierata, la cui prima necessità è quella di raccontare un mondo, anzi i diversi mondi in cui questa lotta ha luogo, mettendone sullo stesso piano e senza particolari distinzioni i protagonisti, per rendere al meglio e con più forza la voce di una classe “sepolta” ma non arresa.

Dalla prefazione di Valeria Raimondi

Occupandomi da tempo di poesia ho avuto modo di osservare come nel corso del tempo si sia acuita la distanza, mai colmata, ma neppure sorvegliata e curata, tra vita e arte, tra poesia e impegno, tra ciò che nobilita e ciò che mobilita. In molti altri paesi questo strappo non pare così lacerante e il poeta si pone a fianco della società civile con la propria specifica voce che, al pari di ogni altra, vuole segnare il cambiamento. Esiste una vivace discussione su come si debbano collocare i contenuti civili o sociali dentro l’ispirazione poetica. Può e deve il prodotto lirico esprimere un nuovo antagonismo sociale e lanciare un grido di allarme convincente all’umanità sfruttata? È in grado di cogliere la mutazione radicale del panorama sociale e del mondo del lavoro? Nonostante si moltiplichino le produzioni di poesia considerata civile, spesso la parola risulta poeticamente debole, vicina alla cronaca, costretta a sacrificare la metafora, il ritmo, lo stile e politicamente ininfluente dovendo rinunciare al proprio segno distintivo, dovendosi asservire piuttosto che servire. Ecco che la frattura pare insanabile: l’Arte, la quale obbligatoriamente chiede libertà, si ripiega in sé stessa, non si vuole sporcare di vita, e se lo fa, somiglia troppo a quest’ultima, non se ne discosta il tanto o il poco necessario al simbolico. – Ma tu pensi: i poeti sono matti. / Guardi appena; lo trovi stupidino. / Ti piace più Togliatti, scriveva Umberto Saba. – Avessimo ascoltato più Saba che Togliatti!, esclama un amico giornalista. Forse allora si dovrebbe ribaltare la domanda: la lotta di classe e la “politica” hanno bisogno della poesia? All’anticapitalismo serve quella creatività che non sia solamente un frivolo accessorio? Può la parola far sognare, come un tempo il linguaggio della Sinistra sapeva fare, provocando un capogiro e inducendo un senso alla vita e al futuro? Ciò che oggi ci circonda pare abbia orrore del sogno: la parola, troppo evocativa, non può essere tra gli strumenti della rivoluzione! Eppure la rivoluzione ha enorme bisogno di immaginazione… In questo mondo andato in pezzi si dovrebbe cercare di ricucire lo strappo senza tradire il linguaggio dell’arte da un lato, e senza svuotare di forza la pratica politica, dall’altro. La raccolta antologica risponde a questo desiderio.

Il tema del lavoro, di ciò che oggi è questa schiavitù (neppure troppo camuffata), mi sta a cuore sia per le ragioni espresse da Eliana Como nell’introduzione, sia perché ho il ricordo di una classe lavoratrice compatta, un sindacato, una lotta, un sogno. Mi sono occupata di questo tema con la consapevolezza che testimoniare il lavoro attraverso la poesia non può essere né materia di studio né sperimentazione letteraria: la dimensione lavorativa è per molte persone una tragedia quotidiana. Perciò mi auguro l’antologia sappia esprimere, e divenga, una pratica. Nel 2016 sono state pubblicate due sillogi: Lotte di classe e Gli obbedienti, rispettivamente di Luca Bassi Andreasi e Francesca del Moro. Il confronto vivace con i due autori e la condivisione ideale di queste raccolte mi hanno indotto a pensare a una sorta di mappa della poesia del lavoro in Italia in chiave attuale. Ho perciò coinvolto soggetti diversi tra loro, ho cercato un editore sensibile a questi contenuti, ho fatto scelte stilistiche ben precise guidata dal desiderio che l’azione-parola sia praticata dentro i luoghi di lavoro o laddove si tocchino i nervi scoperti dello sfruttamento. Ho chiesto infine che parte dei ricavati vadano a sostenere le lotte dei lavoratori e delle lavoratrici, le autogestioni, i processi e le spese legali in corso. Le autrici e autori presenti in questa antologia sono stati coinvolti secondo alcune linee d’intento. Ho fatto appello a chi avesse già una produzione dedicata al tema, ma anche a chi, per necessità, avesse scritto poesie dai luoghi del lavoro; ho fatto ricerche anche tra coloro che sapevo impegnati in realtà culturali, politiche, associative presenti sul territorio nazionale. Ho deciso quindi di selezionare i testi di ognuno senza limitare il numero di poesie. Nessuna didascalia, solo due note biografiche: occupazione e provenienza geografica. Gli autori in seguito si sono introdotti con una sintetica autopresentazione. Tre le sezioni che suddividono l’antologia: Il pane quotidiano, dunque le vive testimonianze; Homo Oeconomicus, sul senso del lavoro: alienazione versus nobilitazione; Colata continua, citazione dal mondo delle fabbriche, per parlare di morti sul e di lavoro. Queste cronache dai mondi del lavoro rappresentano, credo, un tentativo di insurrezione poetica e politica.

Da “La nostra classe sepolta. Cronache poetiche dai mondi del lavoro” (Pietre Vive, 2019)

Farmacia 13
Un minuto di ascolto totale
non posso darti che questo Nina
così mi porto via da Piazza Bonomelli
almeno la tua voce      la tua luce

«sono venuta dalla Persia»
dici
«dietro me c’è una sventura»
dici
«due lauree non bastano a colmarla
e con la seconda mi hanno dato un lavoro.
Si può dire stage lavoro?
Qui in Bonomelli è pieno di arabi,
Milano è piena d’arabi.
Quando mi hanno scelta sembravano felici
– finalmente avremo qualcuno che può parlare agli arabi –
ma io l’arabo non lo conosco.
Io
vengo dalla Persia»

ambita e ben pagata è l’ignoranza
questo accade sotto luce e sottovoce, qui, Nina
per questo tifo buio
e, del rumore, l’assenza.

Christian Tito

*
Dicono noi dobbiamo
e tu non capisci
non sai chi noi siamo
in questi spazi invasi
dal discorde tam tam
lo sbattere dei piedi
sulla propria mattonella.
La rivolta neanche a parole
che si è così presi
a spezzare il verbo in quattro
a umiliarne il valore.
Non sai chi noi siamo
tra tutte le pagliuzze
da cercarsi negli occhi
le mille dita puntate
le mitragliate a salve.
Non sai chi noi siamo
tra gli o tempora o mores
con il dorso del polso
languido sulla fronte
la schiena che s’inarca
e trova breve sollievo
per poi piegarsi al padrone.

Francesca Del Moro

*
Homo oeconomicus

L’homo oeconomicus
vive nelle città per progetti
da servo emancipato
a coltivare idee
pagate a cottimo
e nel tempio sacrifica
il tempo della vita
e qualità e talenti
al dio neoliberale
i sacerdoti del lavoro
lo hanno ammaestrato
in un recinto mobile e precario
all’efficienza nomade
alla creatività flessibile
e lui alla fine crede davvero
che non esista altro modo
per sentirsi umano.

Alessandra Flores D’Arcais
*
Le donne della Seleco

Le ho viste uscire alla fine del turno
camminando ma senza toccare il suolo
guardando i lampioni ma senza vedere
la luce e mentre svanivano le ho
immaginate aprire la porta
baciare i figli scaldare in forno
la cena e poi ripulirsi e a volte
giacere sotto un marito qualsiasi
con l’aria di chi da anni ha imparato
che manca sempre mezz’ora di troppo
alla fine del giorno

Francesco Tomada

*
Colata continua

Chiedilo alle vedove agli orfani
cosa vuol dire esser moglie
figlia
figlio
di un caduto sul lavoro.
Chiedi se ricordano
l’ultima volta che l’hanno
visto uscire
alle sei del mattino per andare in fabbrica
resistere
per pagare l’affitto
gli studi
la spesa
per lui
per loro
nell’unico tempo della vita
per costruire un futuro
per mancare il ritorno
per lasciare l’amore nel vuoto
nel nero colore del lutto
lì accanto.
Oppure
chiedilo a Loro
che sapore ha il vuoto
di una mancata rappresentanza
ché quando hanno avuto bisogno del voto
allora sì che sono venuti alla fabbrica.
Che cosa ne sanno Loro
della colata continua
dell’acciaio che fuso
ha incenerito
l’affetto
dei compagni
del turno.
Che conoscono Loro del lutto
per Eternit.

Dopo ogni funerale
dall’ombra del loro stendardo
se ne ritornano al lavoro del potere
dopo un saluto ufficiale
alle vedove
agli orfani.

Mario Archetti

Testi e contributi di:

Alberto Figliolia; Alberto Mori; Alessandra Flores d’Arcais; Alessandro Silva; Andrew Marini; Anna Lombardo Geymonat; Benny Nonaski; Christian Tito; Claudia Zironi; Ed Warner; Eliana Como; Fabio Franzin; Fouad Lakehal; Francesca Del Moro; Francesca Pellegrino; Francesco Tomada; Francesco Zanoncelli; Gassid Mohammed; Giuseppe Boy; Luca Bassi Andreasi; Lucianna Argentino; Marcello “Guitarsolo”; Marco Cinque; Marco Di Pasquale; Maria Nardelli; Mario Archetti; Marjo Durmishi; Matteo Rusconi; Paola Musa; Paolo Buffoni Damiani; Patrizia Argentino; Pino Simone; Pippo Marzulli; Savina Dolores Massa

A cura di Silvia Rosa