Leopardi, Omero e la luna

A. Ferrazzi, Giacomo Leopardi

A. Ferrazzi, Giacomo Leopardi, da Wikimedia Commons

GABRIELLA MONGARDI.

Questo studio su Leopardi prende le mosse dalla strepitosa osservazione di Pietro Citati nel suo recente saggio sul poeta recanatese, secondo cui è la similitudine omerica alla fine del libro VIII dell’Iliade, in cui i fuochi accesi dai Troiani la notte vengono paragonati con le stelle che splendono in cielo nella luce lunare, a ispirare il poeta per tutta la vita[1]. Incuriosita da questa affermazione, ho deciso di verificarla sui testi di Leopardi: ne è scaturito questo percorso di lettura, che però inizia non dal poeta recanatese, ma ovviamente da Omero.

Omero

L’Iliade, come tutti sanno, canta le vicende accadute in un breve periodo dell’ultimo anno del decennale assedio dei Greci a Troia, e culmina con il duello tra Achille e Ettore e il colloquio tra il vincitore Achille e il re Priamo, padre di Ettore, che gli chiede la restituzione del cadavere per onorarlo con la sepoltura. Nel libro VIII i Greci sono in difficoltà, da assedianti diventano assediati: infatti i Troiani li costringono a ripararsi all’interno delle mura costruite a difesa  delle navi e, calata la notte, si accampano davanti ad esse. Qui si inserisce la similitudine omerica, che conclude il libro e che riporto nella traduzione ormai classica di Rosa Calzecchi Onesti per l’editore Einaudi[2]:

555 Come le stelle in cielo, intorno  alla luna lucente,
brillano ardendo, se l’aria è priva di venti;
si scoprono tutte le cime e gli alti promontori
e le valli; nel cielo s’è rotto l’etere immenso,
si vedono tutte le stelle; gioisce in cuore il pastore;

560 tanti così, fra le navi e lo Xanto scorrente,
lucevano i fuochi accesi dai Teucri davanti a Ilio.

OmeroQuesti versi sono un magnifico esempio della grandezza di Omero e del fascino immortale del suo poema: perché solo a un artista-gigante può venire in mente di paragonare un accampamento di soldati al cielo notturno, per mettere in evidenza con un’iperbole il numero dei soldati (tanti quante sono le stelle in cielo), e nell’intessere questo paragone realizzare un’immagine mozzafiato per la sua bellezza misurata, essenziale – le stelle sono fuochi che brillano intorno alla luna, il cielo è sgombro di nubi, di una limpidezza assoluta, e l’osservatore (il pastore) si rallegra perché le vede tutte. Si noti l’equilibrio veramente “classico” dell’immagine, ottenuto dal poeta con un parco uso di aggettivi in funzione di epiteti “oggettivi”: “la luna lucente”, “gli alti promontori”, “l’etere immenso”; e l’equilibrio, altrettanto classico, del rapporto tra la natura e l’uomo, che non si sente schiacciato dall’immensità del cielo, ma in  armonia con esso, tanto che ne “gioisce in cuore”.

Non stupisce che quest’immagine (letta nel 1809, a undici anni), abbia colpito a tal punto il giovane Leopardi da costituire per lui una sorta di “imprinting”,  che marchierà a fuoco tutta la sua scrittura poetica, dagli inizi con gli Idilli del 1819 agli ultimi Canti napoletani del 1835-36: come vedremo, si trovano nei testi leopardiani precise, puntuali tracce di quei versi omerici che tanto lo avevano impressionato – ma che nessuno prima di Citati aveva notato. Con questo non voglio dire che basta infilare nei propri testi qualche parola usata da Omero per essere un grande poeta, assolutamente no, ma semmai dimostrare come la poesia ci permetta di cogliere cose che altrimenti non vedremmo, ci dia occhi più acuti per guardare il mondo – e come il notturno di Omero ha permesso a Leopardi di vedere la notte, le stelle, la luna in modo nuovo, così la poesia di Leopardi è a sua volta per noi un formidabile strumento conoscitivo.

 Lo “Zibaldone”

Ma, prima di leggere le liriche leopardiane “notturne”e “lunari”, comincerei con un inquadramento generale della poesia leopardiana, utilizzando allo scopo alcuni passi dello “Zibaldone di pensieri”, un insieme di annotazioni, riflessioni, appunti, abbozzi scritto da Leopardi dal 1817 al 1832. Il manoscritto comprende 4526 pagine numerate da Leopardi e fu stampato per la prima volta soltanto a fine Ottocento: in effetti Leopardi non lo destinava alla pubblicazione, anche se continuamente vi attinse per i suoi testi letterari. Lo Zibaldone risulta essere il testo che dà l’immagine più ricca e più autentica del pensiero leopardiano, costantemente impegnato a interrogare razionalmente la realtà, a cercare di catturarne i segreti e svelarne gli inganni, ma anche ricco di oscillazioni, discontinuo e zigzagante nel suo tracciato, sospeso tra un’ambizione sistematica e una pratica tormentata, perché dettata prevalentemente dalle mobili, incalzanti esigenze interiori. Di qui il linguaggio straordinariamente moderno dello Zibaldone, per la sua immediatezza, la sua lucidità, la sua impazienza, la sua capacità di esprimere gli scatti repentini e i movimenti segreti della coscienza: di qui la relativa facilità di lettura dei passi dello Zibaldone che vi propongo, ossia alcuni di quelli in cui Leopardi parla di Omero, della poesia degli antichi rispetto a quella dei moderni, e della poesia in generale.

 dallo Zibaldone di pensieri

Del resto il desiderio del piacere essendo materialmente infinito in estensione (non solamente nell’uomo ma in ogni vivente), la pena dell’uomo nel provare un piacere è di veder subito i limiti della sua estensione, i quali l’uomo non molto profondo gli scorge solamente da presso. Quindi è manifesto 1. perché tutti i beni paiano bellissimi e sommi da lontano, e l’ignoto sia più bello del noto; effetto della immaginazione determinato dalla inclinazione della natura al piacere, effetto delle illusioni voluto dalla natura. 2. perché l’anima preferisca in poesia e da per tutto, il bello aereo, le idee infinite. Stante la considerazione qui sopra detta, l’anima deve naturalmente preferire agli altri quel piacere ch’ella non può abbracciare. Di questo bello aereo, di queste idee abbondavano gli antichi, abbondano i loro poeti, massime il più antico cioè Omero, abbondano i fanciulli veramente Omerici in questo, gl’ignoranti ecc. in somma la natura. La cognizione e il sapere ne fa strage, e a noi riesce difficilissimo il provarne. La malinconia, il sentimentale moderno ecc. perciò appunto sono così dolci, perché immergono l’anima in un abbisso di pensieri indeterminati de’ quali non sa vedere il fondo né i contorni. (169-170, luglio 1820)

Da fanciulli, se una veduta, una campagna, una pittura, un suono ecc. un racconto, una descrizione, una favola, un’immagine poetica, un sogno, ci piace e diletta, quel piacere e quel diletto è sempre vago e indefinito: l’idea che ci si desta è sempre indeterminata e senza limiti: ogni consolazione, ogni piacere, ogni aspettativa, ogni disegno, illusione ecc. (quasi anche ogni concezione) di quell’età tien sempre all’infinito: e ci pasce e ci riempie l’anima indicibilmente, anche mediante i minimi oggetti. Da grandi, o siano piaceri e oggetti maggiori, o quei medesimi che ci allettavano da fanciulli, come una bella prospettiva, campagna, pittura ec. proveremo un piacere, ma non sarà più simile in nessun modo all’infinito, o certo non sarà così intensamente, sensibilmente, durevolmente ed essenzialmente vago e indeterminato. Il piacere di quella sensazione si determina subito e si circoscrive: appena comprendiamo qual fosse la strada che prendeva l’immaginazione nostra da fanciulli, per arrivare con quegli stessi mezzi, e in quelle stesse circostanze, o anche in proporzione, all’idea ed al piacere indefinito, e dimorarvi. Anzi osservate che forse la massima parte delle immagini e sensazioni indefinite che noi proviamo pure dopo la fanciullezza e nel resto della vita, non sono altro che una rimembranza della fanciullezza, si riferiscono a lei, dipendono e derivano da lei, sono come un influsso e una conseguenza di lei; o in genere, o anche in ispecie; vale a dire, proviamo quella tal sensazione, idea, piacere, ecc. perché ci ricordiamo e ci si rappresenta alla fantasia quella stessa sensazione immagine ecc. provata da fanciulli, e come la provammo in quelle stesse circostanze. Così che la sensazione presente non deriva immediatamente dalle cose, non è un’immagine degli oggetti, ma della immagine fanciullesca; una ricordanza, una ripetizione, una ripercussione o riflesso della immagine antica. (514-515, 16 Gen. 1821)

Un oggetto qualunque, p.e. un luogo, un sito, una campagna, per bella che sia, se non desta alcuna rimembranza, non è poetica punto a vederla. La medesima, ed anche un sito, un oggetto qualunque, affatto impoetico in se, sarà poetichissimo a rimembrarlo. La rimembranza è essenziale e principale nel sentimento poetico, non per altro, se non perché il presente, qual ch’egli sia, non può esser poetico; e il poetico, in uno o in altro modo, si trova sempre consistere nel lontano, nell’indefinito, nel vago. (4426, 14 Dic.1828)

Una poesia “conoscitiva”

Questa concezione “sensibile” ed “edonistica” della poesia  ne maschera, per una sorta di “sprezzatura” (understatement), la funzione conoscitiva, il profondo valore filosofico, e ingannerà per oltre un secolo i critici letterari (Benedetto Croce fra tutti!), che apprezzeranno di Leopardi solo l’aspetto “idillico”, i “miti del borgo”, i quadri della vita semplice di Recanati con la sua “torre antica” e i “veroni del paterno ostello”, il “garzoncello scherzoso”, la vecchierella che torna dalla campagna, le ragazze che si preparano per la festa, la gallina che, passata la tempesta, ripete il suo verso, Silvia che canta, ignara del futuro e Nerina affacciata alla finestra, con la gioia negli occhi.  Non vorrei essere fraintesa: non sto negando la bellezza e il valore, anche pittorico e musicale, di quelle poesie, e il fascino dello stile “vago e indefinito, peregrino” che riusa il lessico più desueto di Petrarca, Tasso e Metastasio per forzare i limiti espressivi di una “lingua mortale”: ma la grandezza di Leopardi è ben altra, e sarebbe oltremodo riduttivo considerarlo semplicemente un “bozzettista”, un “fotografo di paese” per quanto bravissimo, così come è oltremodo riduttivo, per non dire offensivo, liquidare il suo pensiero, la sua visione del mondo, così lucida e profonda, come conseguenza delle sue malattie, della sua “vita  strozzata” (sempre Croce).

Il problema del rapporto tra malattia, poesia e filosofia in Leopardi è stato a mio avviso risolto definitivamente da Gioanola nel saggio “Leopardi la malinconia”. Le sue osservazioni spiegano anche che cosa davvero ci sia alla base della poesia idillica di Leopardi: «Per ‘vedere’ la vita e la realtà delle cose bisogna esserne lontani, traducendo in acutezza di visione quell’entusiasmo, o passione, o dolore, cioè insomma quel desiderio, che non ha oggetto reale, perché solo così vige quel disinteresse assoluto che non si dà in chi della vita partecipa, confondendo ciò che vede con ciò che vuol vedere, la verità coi sogni. Solitudine, distanza dalla vita, desiderio assoluto e senza oggetto sono le condizioni che riconosciamo come specifiche della malinconia: c’è dunque un rapporto profondo tra malattia e filosofia, ma funziona esattamente al contrario di quanto la critica idealistica ha predicato, perché la condizione malinconica non è causa di un vedere tutto nero, che non ha nulla da spartire con la vera filosofia, ma semplicemente di un ‘vedere’ che non è dato a chi vive a livello del suolo, in mezzo ai “rapporti scambievoli” che non permettono il dis-interesse speculativo[3]». La poesia leopardiana affonda quindi le sue radici in un senso di esclusione dalla vita (cfr. Ultimo canto di Saffo) e in uno sguardo particolare sulle cose, che Leopardi stesso chiama “colpo d’occhio”, “ultra-filosofia” (cfr. Zibaldone 3269-71): e la luna non può che essere l’interlocutrice privilegiata di chi abita la distanza e guarda il mondo dall’alto e da lontano.

La luna è notturna, è solitaria, è deserta, per questo è speculare di chi fatica ad abitare lo spazio diurno dei rapporti umani e preferisce la solitudine della distanza; la luna è essa stessa una metafora della distanza e si presta ad accogliere, dalla sua altezza, uno sguardo che si rivolga dagli abissi della solitudine verso la terra. Non solo. Come sostiene Angiola Ferraris[4], Leopardi restituisce alla luna la pienezza della sua significazione mitico-simbolica (che rimane accessibile all’uomo moderno, secondo lo storico delle religioni Mircea Eliade, perché si rivolge ad uno strato della coscienza umana inattaccabile dal più corrosivo razionalismo): si può quindi parlare di un profondo valore  conoscitivo, mitico-simbolico, per la luna leopardiana – vedremo quale.

La “triplice vocazione” leopardiana

Anche se la luna compare in parecchie opere leopardiane, «come se tutto ciò che voleva dire dovesse passare necessariamente attraverso il riflesso sempre diverso della luna[5]», nel mio percorso di lettura includerò tre soli testi, appartenenti a tre diversi momenti della produzione del poeta, in cui la luna è per così dire in primissimo piano: l’idillio giovanile Alla luna del 1819; l’ultimo cronologicamente dei Canti pisano-recanatesi, ossia il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, composto nel 1830, e infine l’ultima lirica in assoluto composta da Leopardi, nel 1836 a Napoli, Il tramonto della luna: a riprova di una fedeltà tematica inscalfibile, che dura tutta la vita e a conferma, anche, che la poetica del ‘vago e indefinito’ – di cui il notturno è un elemento essenziale – è sviluppata teoricamente e realizzata praticamente nel corso di tutta l’opera leopardiana. È pertanto inutile, controproducente, contrapporre il primo Leopardi “idillico” all’ultimo “eroico” (Binni), come se fossero fiumi che non mescolano mai le loro acque.   Certo nella produzione leopardiana ci sono molte novità tecnico-espressive, ma le determinazioni profonde della scrittura restano ovviamente le stesse e non consentono modificazioni strutturali vere e proprie[6].

Per questo, sulle orme di Gioanola e di Citati, io parlerei di una “triplice vocazione” di Leopardi, insieme filologica, poetica e filosofica; una vocazione che solo astrattamente può essere ricondotta alla linearità cronologica delle ‘conversioni’ (per cui Leopardi, da filologo che era, avrebbe scoperto a 19 anni poesia e bellezza, e successivamente, a 21 anni, filosofia e verità), giacché la filosofia di Leopardi, l’ ‘ultrafilosofia’, non può fare a meno della ‘poesia’ e questa, per moderna e sentimentale che sia, non dimentica gli antichi, in primis Omero, ossia la lezione della filologia classica. Scrive Leopardi  (Zibaldone15-21):«Gli antichi dipingevano così semplicissimamente la natura, […] onde una similitudine d’Omero semplicissima […] e un’ode di Anacreonte vi destano una folla di fantasie, e vi riempiono la mente e il cuore […] perché quivi parla la natura» E una decina d’anni dopo riprende il discorso: «Il poeta non imita la natura, ben è vero che la natura parla dentro di lui e per la sua bocca» (Zibaldone 4372). E allora vediamo che cosa ci dice la natura per bocca di Leopardi-poeta: per poter ascoltare la sua voce, però, è necessario prima fare un po’ di chiarezza sul concetto di “natura” per Leopardi-filosofo. 

La natura per Leopardi

In tutta l’opera di Leopardi non si trova una definizione esplicita del concetto di natura, ma una sua grandiosa, illuminante, plastica rappresentazione sì: la troviamo in apertura del Dialogo della Natura e di un Islandese (una delle Operette Morali, composta nel1824), quando l’Islandese, doppiato il Capo di Buona Speranza, scorge «una forma smisurata di donna seduta in terra, col busto ritto, appoggiato il dosso e il gomito a una montagna; e non finta ma viva; di volto mezzo tra bello e terribile, di occhi e di capelli nerissimi», che si rivela essere appunto la Natura. Ecco, in questa immagine di donna col volto insieme “bello e terribile” è racchiusa tutta la concezione leopardiana della natura, con le sue chiamiamole pure oscillazioni o ambivalenze, per non dire contraddizioni – ma esse ovviamente non inficiano minimamente il pensiero, le parole, soprattutto l’arte di Leopardi, anzi. Schematizzando, possiamo dire che il termine “natura” assume almeno tre significati:
1) natura come paesaggio, con il clima e le stagioni;
2) natura come sistema biologico di cui l’uomo è parte;
3) natura come fato, onnipotente volontà che a tutto presiede, e a volte può apparire provvidenziale, a volte distruttiva – ma sempre “senza avvedersene” come dice nell’ Operetta citata. …

Queste accezioni nei testi leopardiani tendono a sovrapporsi parzialmente o totalmente, ma secondo me non è neanche giusto volerle distinguere ad ogni costo: è meglio essere consapevoli della complessità del termine (e della realtà che indica) e accettarla… Certo è che per Leopardi la natura, il biologico, il corporeo è un “primum”, è alla base di tutto: se Cartesio sosteneva “Cogito ergo sum”, per Leopardi vale la formula rovesciata: “Sum, ergo cogito”: prima c’è la natura, poi la ragione e la cultura. In questo senso Leopardi poteva considerare gli antichi migliori, più felici dei moderni perché, non ancora guastati dalla civiltà, vivevano in sintonia con la natura grazie alle favole antiche, gli inganni dell’immaginazione, le illusioni. Per noi moderni, però, questo non è più possibile: la ragione mette a nudo l’arido vero a spese del poetico, delle illusioni, svelando il volto terribile della natura e del destino, ma conoscere la verità è l’unica, residua consolazione per l’uomo forte e fiero. Di qui deriva appunto l’alta funzione conoscitiva, il profondo valore filosofico della poesia leopardiana di cui parlavo prima… Leggiamo dunque, finalmente, queste poesie.

Alla luna (Canti,14)

O graziosa luna, io mi rammento
Che, or volge l’anno, sovra questo colle
Io venia pien d’angoscia a rimirarti:
E tu pendevi allor su quella selva
Siccome or fai, che tutta la rischiari.
Ma nebuloso e tremulo dal pianto
Che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci
Il tuo volto apparia, che travagliosa
Era mia vita: ed è, né cangia stile,
O mia diletta luna. E pur mi giova
La ricordanza, e il noverar l’etate
Del mio dolore. Oh come grato occorre
Nel tempo giovanil, quando ancor lungo
La speme e breve ha la memoria il corso,
Il rimembrar delle passate cose,
Ancor che triste, e che l’affanno duri!

Si tratta di un “idillio” in endecasillabi sciolti, cioè non rimati, composto nel 1819, come il celeberrimo Infinito.  Con la scelta di questa forma metrica Leopardi fa – senza averne l’aria – una vera e propria una rivoluzione: infatti non utilizza il sonetto, invenzione e vanto della nostra lirica, dalla struttura simmetrica e regolare, due quartine e due terzine unite da un preciso schema di rime. No,  per esprimere «situazioni, affezioni, avventure storiche del mio animo» (secondo la definizione che lui dà dell’idillio), ha bisogno di una forma aperta, senza strofe, senza rime, e la trova in un genere che risaliva alla letteratura classica (sono “idilli” ad esempio le Bucoliche di Virgilio) e che sin dalle origini cantava (o metteva in scena) il rapporto uomo-natura, proprio quel tema centrale nella riflessione e nella scrittura leopardiana.

Anche se è assente la divisione in strofe, il testo è chiaramente articolato in due parti. La prima, incorniciata dai due vocativi ai vv.1 e 10, ha la forma di una allocuzione (alla luna appunto) e delinea, con pochi elementi topici (il colle, la selva e il chiaro di luna), un paesaggio famigliare, immutabile nel tempo, come è immutato lo stato d’animo angosciato del soggetto contemplante: straordinario l’effetto di “canto alla durata” che scaturisce dall’intreccio del presente e del passato nel sovrapporsi delle due immagini – vista e ricordata – fino a coincidere. La seconda parte passa dalla malinconia al piacere, dal dialogo evocativo al monologo filosofico, in cui il soggetto enuncia una legge generale sulla dolcezza del ricordo, anche se la materia del ricordo non è lieta e anche se i vv.13-14 limitano la portata di questa consolazione alla giovinezza.

Nel notturno che costituisce la prima parte dell’idillio davvero – come volevano  i Romantici – il paesaggio è uno stato d’animo e l’io che compare al primo verso è l’io lirico romantico, ossia la voce dell’interiorità, che non parla della realtà esterna, ma di come la soggettività la reinventi, abbattendo il diaframma tra parola poetica e mondo, tra io e non-io: una novità assoluta, rivoluzionaria per la poesia italiana… Leopardi – sia chiaro – non era un romantico, anzi, nella polemica tra romantici e classicisti si era schierato con questi ultimi, eppure è l’unico poeta e pensatore italiano in linea con la cultura europea del tempo, perché era un genio. Ma torniamo al nostro testo, e alla luna. L’io proietta sulla scena lunare i segni del proprio dolore, trasfigurandola letteralmente (la visione della luna appare infatti deformata dal pianto) e conferendole un che di luttuoso. Al tempo stesso, la presenza “graziosa” della luna, amica e interlocutrice umanizzata, alterego celeste del poeta, immette una nota di dolcezza nella solitudine malinconica della scena. La contemplazione notturna della luna suggerisce contemporaneamente un’idea di estinzione (la notte è immagine della morte) e un’idea di circolarità e di continuità della vita, di durata, perché le stesse situazioni ritornano e il soggetto di oggi può rispecchiarsi in quello di ieri, come il suo volto addolorato si rispecchia nel volto velato, sfigurato della luna.luna

Canto notturno di un pastore errante dell’Asia (Canti, 23)

Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,
silenziosa luna?
Sorgi la sera, e vai,
contemplando i deserti; indi ti posi.
Ancor non sei tu paga
di riandare i sempiterni calli?
Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
di mirar queste valli?
Somiglia alla tua vita
la vita del pastore.
Sorge in sul primo albore
move la greggia oltre pel campo, e vede
greggi, fontane ed erbe;
poi stanco si riposa in su la sera:
altro mai non ispera.
Dimmi, o luna: a che vale
al pastor la sua vita,
la vostra vita a voi? dimmi: ove tende
questo vagar mio breve,
il tuo corso immortale?

Vecchierel bianco, infermo,
mezzo vestito e scalzo,
con gravissimo fascio in su le spalle,
per montagna e per valle,
per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,
al vento, alla tempesta, e quando avvampa
l’ora, e quando poi gela,
corre via, corre, anela,
varca torrenti e stagni,
cade, risorge, e piú e piú s’affretta,
senza posa o ristoro,
lacero, sanguinoso; infin ch’arriva
colà dove la via
e dove il tanto affaticar fu vòlto:
abisso orrido, immenso,
ov’ei precipitando, il tutto obblia.
Vergine luna, tale
è la vita mortale.

Nasce l’uomo a fatica,
ed è rischio di morte il nascimento.
Prova pena e tormento
per prima cosa; e in sul principio stesso
la madre e il genitore
il prende a consolar dell’esser nato.
Poi che crescendo viene,
l’uno e l’altro il sostiene, e via pur sempre
con atti e con parole
studiasi fargli core,
e consolarlo dell’umano stato:
altro ufficio piú grato
non si fa da parenti alla lor prole.
Ma perché dare al sole,
perché reggere in vita
chi poi di quella consolar convenga?
Se la vita è sventura,
perché da noi si dura?
Intatta luna, tale
è lo stato mortale.
Ma tu mortal non sei,
e forse del mio dir poco ti cale.

Pur tu, solinga, eterna peregrina,
che sí pensosa sei, tu forse intendi,
questo viver terreno,
il patir nostro, il sospirar, che sia;
che sia questo morir, questo supremo
scolorar del sembiante,
e perir dalla terra, e venir meno
ad ogni usata, amante compagnia.
E tu certo comprendi
il perché delle cose, e vedi il frutto
del mattin, della sera,
del tacito, infinito andar del tempo.
Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore
rida la primavera,
a chi giovi l’ardore, e che procacci
il verno co’ suoi ghiacci.
Mille cose sai tu, mille discopri,
che son celate al semplice pastore.
spesso quand’io ti miro
star cosí muta in sul deserto piano,
che, in suo giro lontano, al ciel confina;
ovver con la mia greggia
seguirmi viaggiando a mano a mano;
e quando miro in cielo arder le stelle;
dico fra me pensando:
a che tante facelle?
che fa l’aria infinita, e quel profondo
infinito seren? che vuol dir questa
solitudine immensa? ed io che sono?
Cosí meco ragiono: e della stanza
smisurata e superba,
e dell’innumerabile famiglia;
poi di tanto adoprar, di tanti moti
d’ogni celeste, ogni terrena cosa,
girando senza posa,
per tornar sempre là donde son mosse;
uso alcuno, alcun frutto
indovinar non so. Ma tu per certo,
giovinetta immortal, conosci il tutto.
Questo io conosco e sento,
che degli eterni giri,
che dell’esser mio frale,
qualche bene o contento
avrà fors’altri; a me la vita è male.

O greggia mia che posi, oh te beata,
che la miseria tua, credo, non sai!
Quanta invidia ti porto!
Non sol perché d’affanno
quasi libera vai;
ch’ogni stento, ogni danno,
ogni estremo timor subito scordi;
ma piú perché giammai tedio non provi.
Quando tu siedi all’ombra, sovra l’erbe,
tu se’ queta e contenta;
e gran parte dell’anno
senza noia consumi in quello stato.
Ed io pur seggo sovra l’erbe, all’ombra,
e un fastidio m’ingombra
la mente, ed uno spron quasi mi punge
sí che, sedendo, piú che mai son lunge
da trovar pace o loco.
E pur nulla non bramo,
e non ho fino a qui cagion di pianto.
Quel che tu goda o quanto,
non so già dir; ma fortunata sei.
Ed io godo ancor poco,
o greggia mia, né di ciò sol mi lagno.
se tu parlar sapessi, io chiederei:
– Dimmi: perché giacendo
a bell’agio, ozioso,
s’appaga ogni animale;
me, s’io giaccio in riposo, il tedio assale? -

Forse s’avess’io l’ale
da volar su le nubi,
e noverar le stelle ad una ad una,
o come il tuono errar di giogo in giogo,
piú felice sarei, dolce mia greggia,
piú felice sarei, candida luna.
O forse erra dal vero,
mirando all’altrui sorte, il mio pensiero:
forse in qual forma, in quale
stato che sia, dentro covile o cuna,
è funesto a chi nasce il dí natale.

Il rispecchiamento, la somiglianza tra l’uomo e la luna, e la circolarità come eterno ritorno dell’identico si ritrovano anche nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, ma vi assumono ben altro significato.

Il testo è, metricamente, una “canzone libera”, ossia la nuova forma metrica creata da Leopardi rielaborando la canzone petrarchesca: un testo poetico diviso in strofe che in Petrarca avevano tutte lo stesso numero di versi e lo stesso schema di rime, mentre in Leopardi le strofe sono di lunghezza variabile e composte da endecasillabi e settenari variamente rimati, o anche non rimati. C’è un’unica legge metrica – o meglio musicale – nella canzone leopardiana: l’ultimo verso di ogni strofa rima con un verso precedente; in questo Canto in più è la stessa rima in -ale a ripetersi alla fine di ogni strofa, dando al canto la cadenza di una melodia elementare: del resto chi canta – come si capisce dal titolo – è un pastore nomade dell’Asia. La voce che qui dice ‘io’ non appartiene al poeta, ma ad un personaggio scelto da Leopardi a rappresentare una realtà insieme primitiva ed esotica, per ottenere il massimo distanziamento possibile dalle forme della civiltà e per dimostrare che certe domande, sul senso della vita e il destino dell’uomo, sono davvero universali, che tutti gli uomini senzienti e ragionanti sono “filosofi”.

Ai fini del nostro discorso, la prima cosa da rilevare è come in questa canzone la luna, più nettamente che in passato, sia presentata non tanto come confidente ideale del pastore, presenza consolatrice, quanto piuttosto come entità da cui vanamente si attendono risposte a quesiti esistenziali e conoscitivi di portata universale. La luna è presentata fin dall’inizio come silenziosa, e l’aggettivo ha un duplice significato, pittorico-descrittivo e filosofico. Nella prima accezione l’aggettivo allude alla quiete del paesaggio naturale, rappresentato in modo volutamente stilizzato, con  elementare semplicità (la pianura desertica che si perde all’orizzonte) e forse anche alla placida rassegnazione con cui la luna apparentemente accetta la monotona ripetitività dei suoi moti celesti; in senso filosofico, invece, la luna è silenziosa perché non può materialmente dare alcuna risposta ai quesiti del pastore, partecipe com’è della generale indifferenza della natura nei confronti dell’uomo.

Al silenzio della luna si collega, nel finale della prima stanza e poi altrove nel testo, il modulo stilistico costituito da  “dimmi” seguito da frase interrogativa o anche la semplice interrogativa diretta, che se nella prima strofe ha ancora il valore di una reale interrogazione suscettibile di risposta, poi nella terza, quarta e quinta strofe acquista decisamente lo statuto dell’interrogativa retorica, cioè di una domanda che non attende risposta, perché la risposta è già implicita nella formulazione della domanda e chiara alla coscienza di chi la formula. In realtà il pastore alla fine del canto si darà anche risposte esplicite: a me la vita è male (v.104) e è funesto a chi nasce il dì natale (ultimo verso, 144).

La presa di coscienza che rende inutile la risposta della luna è costituita, nello sviluppo del canto, dalla seconda stanza (allegoria della vita umana come sofferenza) e dalla terza (riflessione su tale sofferenza); con il finale della stanza e con l’antitesi mortale/mortal non sei si insinua il sospetto che la similitudine fra le condizioni esistenziali della luna e del pastore (enunciata ai vv.9-10: Somiglia alla tua vita / la vita del pastore) sia quanto meno imperfetta e la proiezione affettiva del pastore verso la luna sia un errore: la luna non è mortale, e non si cura delle parole né della sofferenza del pastore. Il pur con cui si apre la quarta stanza è carico di significato: qualcuno dev’esserci che sa. La strofe è costruita sull’efficace contrappunto tu luna / io pastore, ripreso e variato nel finale, che scandisce la serie straordinaria di riflessioni e quesiti sui nodi fondamentali della vita e della morte, del senso ultimo dell’uomo e dell’universo. Con la quinta stanza lo sguardo e l’attenzione del pastore si spostano dall’alto al basso, dal cielo alla terra, dalla luna alla greggia. Se la luna, dall’alto del cielo da cui contempla con distacco le vicende umane, può essere immaginata superiore all’uomo, la greggia gli è inferiore nella concreta gerarchia delle cose terrene; e tuttavia ha anch’essa un privilegio rispetto all’uomo, l’inconsapevolezza e l’assenza di noia, quella noia che all’uomo deriva dal sentimento del tempo come monotona ripetizione di giornate tutte uguali che però ci trascinano verso la nostra fine. Con il mutamento di interlocutore il quesito si sposta dal piano conoscitivo a quello esistenziale, e il contrappunto dal “sapere/non sapere” al “soffrire/non soffrire”. Rimane invece la contrapposizione tra il pastore e l’interlocutrice, e si ripete significativamente lo stilema dimmi + frase interrogativa (un’interrogazione ormai definitivamente disincantata). Nella stanza conclusiva il pastore, rivolgendosi alla luna e alla greggia accomunate, ha un ultimo moto che si concreta nell’ipotesi illusoria di un libero volo che gli faccia attingere una felicità sconosciuta sulla terra. Ma subito al moto immaginativo-illusorio succede il doloroso ripiegamento sul “vero”, la realtà dell’esistere come “essere-per-la-morte” che accomuna ogni essere vivente, la totale assenza di un senso ulteriore.

Si noti però che nel suo canto il pastore-poeta, pur nella lucida, inesorabile constatazione del “male di vivere”, non assume il tono polemico e accusatorio della protesta, bensì quello assorto e quasi incantato dell’interrogazione del mistero. Questa disposizione all’immersione nel mistero universale piuttosto che allo scontro con una forza ostile è sottolineata dalla musicalità del canto, particolarmente ricco di allitterazioni e rime interne, e dallo stile che abbonda di parole suggestive, vaghe, indefinite, capaci di suscitare piacere e appagamento nell’uomo, in quanto sollecitano la sua immaginazione. A mio avviso questa musicalità fascinosa che pervade il canto, questo sguardo fermo e fraterno all’enigma del cosmo è…merito della luna e ovviamente di Leopardi, che restituisce alla luna la pienezza della sua significazione mitico-simbolica, scoprendola nella sua immagine di giovinetta immortal (v.99).

Alla base di questa interpretazione[7] sta il presupposto (già intuito da Leopardi nello Zibaldone e confermato dagli studi novecenteschi sul mito di Eliade, Kerényi, Jesi) che la mitologia antica  fosse una partecipazione al reale,un aprirsi alla conoscenza del reale, di natura narrativa, pre-razionale e pre-scientifica, ma in grado di instaurare con la realtà un vincolo profondo e genuino. Nel volto della luna del Canto notturno è riconoscibile il volto di Persefone-Proserpina rapita da Ade-Plutone, e quindi caduta in preda del regno dei morti in modo violento. Secondo la lettura di Kerényi, il mito di Persefone presenta un’ambivalenza di bellezza-orrore, a seconda che si consideri la non-esistenza come un’esistenza di segno negativo, di cui il vivente inorridisce, ovvero come la condizione che accompagna il manifestarsi del solo istante di bellezza concesso all’umanità: la giovinezza appunto o per la precisione – come dice Leopardi - il limitare di gioventù. Il legame profondo tra la luna leopardiana e il simbolismo espresso dal mito di Persefone risiede appunto nella rivelazione dell’intima connessione esistente tra l’unicità e la non-esistenza: la luna è intatta, vergine (vv.57 e 37), non toccata dalla morte, in quanto simboleggia quell’unico istante di luce (la giovinezza) che la poesia canta nella pienezza del suo fulgore, prima che tramonti nell’oscurità senza fine della non-esistenza. Luna come epifania della giovinezza, dunque, di quell’istante di pienezza vitale che, per il fatto stesso di esser stato vissuto, sfugge alla stretta letale della morte, e si trasforma in un evento immortale, irripetibile nella propria unicità, grazie alla poesia che trova la musica, le immagini, le parole per dirlo…

Se qualcuno considera troppo ardita questa lettura, legga il canto “Il tramonto della luna” dove Leopardi stesso, con la lunga similitudine iniziale, stabilisce l’equivalenza luna = giovinezza. È Citati a notare che la luna, dopo il Canto notturno, per sei anni non compare più nelle liriche leopardiane, fino appunto al Tramonto della luna. Scrive il critico[8]: «Dopo di allora, nei Canti Leopardi non evocò più la luna: i suoi candori, i suoi raggi, i suoi silenzi. Tacque. Fino a quando, durante l’ultimo anno di vita, nel Tramonto della luna, tutto ricomparve meravigliosamente fresco, come se nulla, sulla regina delle notti, fosse mai stato detto».

 Il tramonto della luna (Canti, 33)

Quale in notte solinga,
Sovra campagne inargentate ed acque,
Là ‘ve zefiro aleggia,
E mille vaghi aspetti
E ingannevoli obbietti
Fingon l’ombre lontane
Infra l’onde tranquille
E rami e siepi e collinette e ville;
Giunta al confin del cielo,
Dietro Apennino od Alpe, o del Tirreno
Nell’infinito seno
Scende la luna; e si scolora il mondo;
Spariscon l’ombre, ed una
Oscurità la valle e il monte imbruna;
Orba la notte resta,
E cantando, con mesta melodia,
L’estremo albor della fuggente luce,
Che dianzi gli fu duce,
Saluta il carrettier dalla sua via;

Tal si dilegua, e tale
Lascia l’età mortale
La giovinezza. In fuga
Van l’ombre e le sembianze
Dei dilettosi inganni; e vengon meno
Le lontane speranze,
Ove s’appoggia la mortal natura.
Abbandonata, oscura
Resta la vita. In lei porgendo il guardo,
Cerca il confuso viatore invano
Del cammin lungo che avanzar si sente
Meta o ragione; e vede
Che a sé l’umana sede,
Esso a lei veramente è fatto estrano. 

Troppo felice e lieta
Nostra misera sorte
Parve lassù, se il giovanile stato,
Dove ogni ben di mille pene è frutto,
Durasse tutto della vita il corso.
Troppo mite decreto
Quel che sentenzia ogni animale a morte,
S’anco mezza la via
Lor non si desse in pria
Della terribil morte assai più dura.
D’intelletti immortali
Degno trovato, estremo
Di tutti i mali, ritrovàr gli eterni
La vecchiezza, ove fosse
Incolume il desio, la speme estinta,
Secche le fonti del piacer, le pene
Maggiori sempre, e non più dato il bene.

Voi, collinette e piagge,
Caduto lo splendor che all’occidente
Inargentava della notte il velo,
Orfane ancor gran tempo
Non resterete; che dall’altra parte
Tosto vedrete il cielo
Imbiancar novamente, e sorger l’alba:
Alla qual poscia seguitando il sole,
E folgorando intorno
Con sue fiamme possenti,
Di lucidi torrenti
Inonderà con voi gli eterei campi.
Ma la vita mortal, poi che la bella
Giovinezza sparì, non si colora
D’altra luce giammai, né d’altra aurora.
Vedova è insino al fine; ed alla notte
Che l’altre etadi oscura,
Segno poser gli Dei la sepoltura.

Metricamente è di nuovo una canzone libera, composta di quattro strofe di endecasillabi e settenari, in numero variabile da 14 a 19 per strofa. Le prime due strofe sono imperniate intorno a una similitudine, di cui la prima strofa enuncia il primo termine (il comparante), “naturalistico” e la seconda il secondo termine (il comparato), “esistenziale”. La prima strofe descrive un paesaggio inargentato dalla luce della luna, colta però nel momento in cui sparisce; anche qui, come nel Canto notturno, il gioco contrappuntistico delle riduzioni timbriche, delle assonanze e delle consonanze crea una linea melodica che fluisce limpida e ininterrotta in un dettato musicale sapientemente orchestrato sulle connotazioni foniche delle parole tematiche “notte” e  “luna”. Queste due parole cioè disseminano le loro vocali e consonanti in tutta la strofa, in particolare il nesso /vocale + n [m/l] /, particolarmente amato da Leopardi per la sua sonorità. La seconda strofe paragona la scomparsa della luna alla fine della giovinezza, quando la vita umana piomba nell’oscurità del disinganno e l’uomo, privato di ogni scopo e conforto, si sente veramente straniero sulla Terra. Spenta la luce della giovinezza, l’uomo compie l’esperienza tragicamente paradossale della vecchiaia, ossia della ‘direzione della morte’ connaturata al suo viaggio terreno: è la linearità del tempo vissuto a spezzare l’analogia tra i corpi celesti, simboli dell’infinita ciclicità della vita della natura, e gli uomini. Nella terza e nella quarta strofa, con l’evocazione sarcastica degli “eterni”, la mortalità è vista come complemento opposto della vitalità perenne delle forme divine[9].

A differenza che nelle due liriche precedenti, qui la luna non è più interlocutrice del poeta (come nell’idillio giovanile)  o del suo alter-ego (il pastore): si compie qui il processo di sublimazione dell’io lirico in una «voce» impersonale che culmina nella conquista di una trasparenza assoluta dello sguardo. E con questa nuova voce, con questo sguardo il poeta enuncia con apparente impassibilità la durissima, ma oggettiva, immodificabile legge del nostro destino.

Quando all’inizio avevo detto “che la poesia di Leopardi è per noi un formidabile strumento conoscitivo” intendevo appunto questo: che leggendo i suoi versi noi siamo obbligati a confrontarci con verità inconfutabili, siamo obbligati ad aprire gli occhi  sulla realtà della vita e della morte, che è appunto una realtà, un dato di fatto, intorno a cui non possiamo più raccontarci storie – per questo io contesto assolutamente l’etichetta di “pessimista” attribuita con troppa leggerezza e superficialità al poeta recanatese: Leopardi è semplicemente realista, dice le cose come stanno, e non scrive quello che scrive perché era malato e ha avuto una “vita strozzata” (come voleva il già citato B. Croce) – lo fa perché ha il coraggio di guardare in faccia le cose come stanno, la realtà così com’è. Ce lo dice lui stesso per bocca del suo alter-ego Tristano, il protagonista dell’ultima delle “Operette Morali”, scritta nel 1832: «So che, malato o sano, calpesto la vigliaccheria degli uomini, rifiuto ogni consolazione e ogni inganno puerile, ed ho il coraggio di sostenere la privazione di ogni speranza, mirare intrepidamente il deserto della vita, non dissimularmi nessuna parte dell’infelicità umana, ed accettare tutte le conseguenze di una filosofia dolorosa, ma vera. La quale se non è utile ad altro, procura agli uomini forti la fiera compiacenza di veder strappato ogni manto alla coperta e misteriosa crudeltà del destino umano».

Ma torniamo al “Tramonto della luna”: anche in questo Canto, al di sotto dello “stile del vero” – severo, eroico, lucidamente ragionativo – dell’ultimo Leopardi, vibra la passione di sempre, la nostalgia colma di amore per quella vita che ci inganna, ci delude, ma di cui abbiamo pur vissuto l’unica felicità, l’unico splendore – la bella / giovinezza. Quante cose dice l’enjambement tra aggettivo e sostantivo dei vv.63/64! Che risalto acquista il semplice aggettivo “bella”, che pare dilatarsi nel ricordo e dilatare da verso a verso la durata della giovinezza grazie all’effetto d’eco dato dall’assonanza e-a! E se il passato remoto “sparì”, con il suo aspetto perfettivo di azione definitivamente compiuta e irrevocabile, dice tutta la crudeltà del destino, dall’altro capo del testo si leva la mesta melodia del carrettiere a salutare l’estremo albor della fuggente luce (vv.16-19): emblema della poesia e della sua funzione vitale – cantare prima di essere inghiottiti dal buio – e insieme ripresa di un motivo delle proprie liriche giovanili, un’autocitazione che conferma la fedeltà del poeta a se stesso, e che fa l’ “ultimo Leopardi” molto più simile al “primo” di quanto non si sia soliti credere…

Per concludere vorrei lasciare di nuovo la parola a Citati (pp.408ss.): «L’ultima luna di Leopardi si muove nel cielo e lentamente tramonta, davanti ai nostri occhi, dietro le montagne o nel mare. La sua luce è argentea: così era stato soltanto nelle poesie  della giovinezza. […] Tutto è indefinito, indeterminato, impreciso e ricorda le pagine dello Zibaldone sui riflessi e le incertezze e le vaghezze della luce lunare […] La giovinezza stessa è soltanto un riflesso, non è mai la piena luce. […] Negli anni dell’Infinito Leopardi aveva descritto e celebrato questo mondo, la più grande ricchezza che l’uomo possegga – così fragile, eppure così robusto se su di esso poggia la natura delle cose umane (v.26): ora, dopo quasi vent’anni, ne rappresenta la fine. Dal tempo del Canto notturno Leopardi non parlava della luna e del mondo del riflesso legato alla luna, come se gli avesse rivelato tutto senza dargli una risposta o senza che egli comprendesse la risposta. Ora torna a parlare della luna e dei riflessi, come se soltanto la luna (anche lei era natura) contenesse la sua verità, quella piccola o grande verità che doveva rivelare agli uomini. Così la sua poesia si chiude su se stessa: era cominciata col quadro lunare derivato da Omero e finisce qui», con il tramonto della luna.

Anche la mia lettura leopardiana finisce qui, con la speranza di aver suscitato nei lettori il desiderio di rileggere Leopardi, poeta lunare, poeta sublime e … non pessimista!


[1] P. CITATI, Leopardi, Mondadori, Milano 2010, pp.107 ss.
[2] OMERO, Iliade VIII, vv. 555-561, trad. di Rosa Calzecchi Onesti, Einaudi, Torino 19724
[3] E. GIOANOLA, Leopardi, la malinconia, Jaka Book, Milano 1995 pp. 341 ss.
[4] A. FERRARIS, L’ultimo Leopardi, Einaudi, Torino 1987, pp.55, 165 ss.
[5] P. CITATI, op. cit., p.117
[6] E. GIOANOLA, op. cit., pp.265, 456
[7] cfr. A.FERRARIS, op.cit., passim
[8] P.CITATI, op.cit., p.120
[9] A. FERRARIS, op.cit., pp.165 ss.

(pubblicato originariamente il 7 settembre 2013)

La foto di Leopardi è tratta da Wikipedia