Dremong

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Max Manfredi e la musica

VA’ A DORMIRE EUROPA

Buonanotte voce, dentro la trincea
sentili i cannoni, tuoni lontani nel cielo rosa
lenti come il treno che ci cantava via
lenti come il tuo cuore dopo l’amore con la tua tosa
di qua di la del Piave ci stava un’osteria
per scordare gli occhi dei miei compagni pieni di neve
la sgnappa accende il fuoco e il camino di casa mia
ronfa la battaglia di là dei monti che qui si beve
va a dormire Europa, tutti i tuoi dj
stanno trasmettendo una classifica che trascolora
metton su ‘sti dischi che non son né tuoi né miei
il mio giradischi ha preso il largo al vento della bora
va a dormire Europa, i tuoi i diavoli oramai
giù dalle tue guglie sono saltati a piedi uniti
dammi tempo Europa, no tu tempo non ne hai
lascia che io canti almeno a questi angeli impediti
va a dormire Europa, adesso vengo anch’io
mi vengo a riprendere la valuta dei sogni spesi
investire in sogni non fa al caso mio
i miei sono volati giù dalle scale di Piranesi
buonanotte vecio, sbatte la bandiera
sbatte primavera, tremano i fiori, sviene il disgelo
sbattono le canzoni, sbatte la bufera
la terra è ancora di neve ma c’è il ghiaccio che si scioglie in cielo
passano le canzoni, passa la bufera
la terra è ancora di neve ma c’è il ghiaccio che si scioglie in cielo
buonanotte vecio, dentro all’osteria c’è una fisarmonica
se sai i ricordi valla a suonare
urlano nel vento a morsi di allegria
e l’inverno arriva il maestro sordo e le sue fanfare
vengono nel vento a sorsi di allegria
e a cantare in coro c’è sempre il gusto che uno può stonare
(da Le parole del gatto, 1990)

***

LE RIME DI SAMPIERDARENA

Confesso che mi sento un po’ a disagio
come il camion stipato quando frena.
E non riesco a salvarmi dal naufragio
nei cieli rossi di Sampierdarena.
Passano le bellissime di ieri
passano sotto i portici, i vortici, di sempre.
Tornavano da amanti parrucchieri
nei sordi doposcuola di dicembre
che i tuoi occhi ci avevano la molla,
i tuoi occhi suoi loro fianchi larghi.
Il loro dolce autunno: una cipolla
da sfogliare, a occhi chiusi, nei letarghi.
Ma adesso, ti dirò, non sono in vena
di fare l’orchestrina coi bicchier.i
Mi vengono col vento dei cantieri
solo le rime di Sampierdarena
che si baciano come fuori scuola,
che s’imboscano dentro ogni portone,
che limonano in ogni mia parola,
che mi sloggiano dalla mia canzone…
Ma chi ce l’ha mai avuta, ‘sta «canzone»
se a scuola ci piegavano la schiena
su poeti nazionali esportazione
marci di «rime di Sampierdarena»
(da Max, 1994)
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L’INTAGLIATORE DI SANTI

È da poco che sono in città e mi sono ambientato da poco
Fra parchi rovine e caffè e le mura che danno sul vuoto
Potete vedermi che brancolo nei pomeriggi stravolti
Oppure che intaglio col roncolo i santi dei vostri archivolti
I santi e le sante hanno facce di paese in paese diverse
Somigliano sempre a qualcuno, persone incontrate e poi perse
A volte è un cane che abbaia perché gli attraverso il pensiero
A volte e uno sguardo di donna che sogna il mio seme straniero
Intanto che intaglio i miei santi d’ulivo. ciliegio e nocciolo
In piazza del municipio le persiane diventano d’oro
Le pietre diventano rosa e nell’aria di pelle bambina
Intanto che poso il lavoro e mi bevo una birra alla spina
Rimango seduto in ascolto di qualche canzone francese
E penso ai santi che incontro girando di paese in paese
Allora m’invento un profilo diverso da tutti gli umani
Mi va di parlare soltanto coi mostri delle cattedrali
(da L’intagliatore di santi, 2001)
***

LUNA PERSA

L’inverno è caduto di schianto (un bicchiere rotto).
Ti comprerò le calze a rete nere e gli stivali che hai visto di sotto
ma adesso mangiati l’hamburger, mi vieni magra come un’acciuga.
È tutta roba take away, menu veloce per gente in fuga.
Io non ti volevo mica, non ti volevo chiamare Sofia,
figlia di ballerina slava, cosce di rana della Bulgaria.
Figlia di una notte clandestina coi blues di Nag Hammadi,
la candela nella bottiglia, la voglia di perderti ai dadi…
Giocarti col cuoco turco che scommetteva sui cavalli al pub
e si faceva il culo tutto il giorno ad affettare lo shish kebab.
O l’impresario idiota che beveva caffè moka…
coltello per tagliar le carte, tagliar la corda, tagliare la coca
e colpire le mosche a mezz’aria, per farti divertire
ma tu ti ricordi appena, e adesso è ora che si va a dormire.
Hai la maglietta sporca di rossetto, vatti a lavare la faccia, Sofia
e smettila di urlare che passa sempre sotto qualche polizia.
Le luci son saltate tutte e fuori c’è ‘sta luna persa
così diversa dalla luna di neve, te li ricordi i tetti di Anversa.
No che non c’è l’acqua calda, Cristo, hai la fronte che scotta
attenta se cammini scalza che in bagno c’è la bottiglia rotta.
Adesso siamo segnalati, dormiamo male e poco
andiamo a letto quando c’è il black out e andiamo al cesso col coprifuoco.
E non mi fido più di niente e tanto meno dei giornali
perché la coda del serpente non lascia impronte digitali
e domani si ritorna in viaggio, le istruzioni sono nell’opuscolo,
autostrade di sonno e nebbia dove confondi alba e crepuscolo
e ti svegli all’improvviso con un clacson che grida,
lui grida e tu stavi sognando, cosa sognavi sul posto di guida?
Sognavi d’essere in una metropoli coi documenti pronti domani
e una pizzeria Bella Napoli gestita da profughi afgani.
Tu col bambolotto a passare la dogana;
il tuo peluche con il pancino pieno di segatura e di canapa indiana.
E domani è un altro business e tutti i business fanno male
perché le macchie di detersivo si cullano verso il mare.
Sì ma questa pensione di merda e quest’odore di lavanderia
e questa musica andata a male su tutti i “tàksi” della Turchia.
Albe ne ho viste tante (adesso butta il fumetto e spegni)…
c’era tua madre passo pesante perché inciampava negli ultimi sogni.
Erano loro che andavano via, lenti come gli assicuratori,
andavan giù con la marea, bassa marea degli ascensori
e un assegno sotto il piumone e odor di sigari nella stanza
e la finestra aperta sulla neve, per fare aria, aria e lontananza.
C’era la pioggia nelle stazioni, nelle stazioni di tutto il mondo,
c’era il salino nella valigia, nella valigia col doppiofondo.
Vendevo spazzole elettriche che servivano da vibratori
per le signore con il fuoco dentro, innamorate degli accessori.
Giravo città di confine piene di luci sul lungofiume,
i battelli con le orchestrine, il porto nafta e schiume.
Io coi piazzisti, io nei bar del molo
e i gabbiani che stavano urlando: “Un uomo in mare, un uomo solo”.
Quando non riesci più a vendere fumo perché ti cadono le parole
quando ti cadono come d’autunno, come d’autunno le donne sole
come tua madre che ballava nel fumo del night
e il grassone col tight che la voleva vestita da schiava…
Tua madre in una bisca, sola e nuda come un’allegoria
e tu vestita da odalisca che ci facevi la fotografia
e il grassone con gli anelli che ti faceva i complimenti
le passava gli alimenti e una mano nei capelli.
…Ma l’altro ieri quell’organetto… ma cosa ti sei fermata a sentire.
Potevamo guadagnare tempo (tempo!) ora che tutto è lì lì per finire.
Perché suonava della roba triste, faceva freddo e caldo come a Natale.
Il tuo collare falso d’ametiste sotto le reti dell’impianto stradale…
…che si spegnevano poco per volta, col coprifuoco, com’è regolare
che sopravvivere è proibito perché qualcuno si può fare male.
Può scivolare in mezzo agli odori dei ristoranti internazionali,
spaghetti al sugo, pollo tandoori, menu cinesi avvolti nei giornali
e giornali, e giornali sopra i vetri, sopra i vetri della stanza:
tu che li leggi con gli occhiali neri aspettando la Grande Ignoranza.
E la luna non la vedi, i cani l’han lasciata al buio;
non vedi dove metti i piedi fra un autoblindo e un colpo di rasoio.
E luci parassite di satelliti privati,
e ogni volta che cade un uomo si rialzano i mercati.
Adesso che tutto è spento, spegni anche tu la candela.
Non funziona il riscaldamento, vienimi addosso che qui si gela.
Le pulci saltano nella pensione, nel golpe delle notti,
saltano al cielo come i botti che festeggiano l’iniziazione
o che festeggiano la fine di una città che va sommersa
tra i frantumi delle vetrine, e questa luna, luna, luna persa, luna persa luna persa, persa, persa.
(da Luna persa, 2008)

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DREMONG

Nelle foreste del Tibet ogni fuga è il mio cammino
e vado via da casa mia – ma quando vedrai le orme sulle neve
penserai “di qui passo, sì, di qui passò
uno strano mostro forse chissà, uno jeti”
Un mostro passò, ma certo che passò: mostro misterioso
che l’uomo chiamò uomo.
I genitori non li ho più, lecco le ferite e il miele.
Fratelli e amici son laggiù: li hanno catturati i cacciatori della bile ma
me ne vado al est, me ne vado al nord
forse l’hai capito che sono un DREMONG… un orso!
E faccio razzia e lungo la mia scia
animali e uomini non hanno soccorso!
…Ma me ne vado via… sei più forte tu…
nemmeno nel tuo sogno, no, non tornerò mai più (mai più!)
Mi alzo, mi rizzo e in piedi sto
nel sonno del tuo bambino.
Per insegnargli la realtà, abito in incubo, ma lui si sveglia
e io rimango là!
Dremong
Sotto il mio cielo che stelle raduna
non vedo più il Mestolo del Miele,
non dormo più nelle Grotte della Luna.
Coi morsi no, non stringerò
l’uomo che m’ha stretto in una morsa che fa tanto, tanto male,
per cavarmi il fiele.
Favo di stelle e mantra indù:
schiudo gli occhi nel torpore
Sbarre di gabbie di bambù
geometria del mio terrore e
sangue, tanto sangue
d’occhi come i miei.
Urli nei frantoi.
Ombre cinesi travasano bile gialla.
Come dei trofei
della “Chen Gao toy”.
Infilati in pancia, cateteri metallo.
Ora la mia bile puoi trovarla in farmacia
o per farti bella all’ombra della mia agonia
ma un’ultima cosa voglio dirtela…
Io nasco col collare
e so che non mi sbaglio:
c’è sempre la luna all’altro capo
del guinzaglio.
(da Dremong, 2014)

***

LE CASTAGNE MATTE

Eravamo in pochi e si fiutava già
che quel che raccontavano non era la realtà
Sicuri che bruciare noi non si voleva più
con le castagne matte la bella gioventù
Cronometravo il vento tra ponte e ferrovia
fischiando una “paloma” o un canto di anarchia
Eravamo in tanti a resistere lassù
resistere è normale quando non resisti più
Futuro bella sposa promesse che mi fai
futuro non ti lascio tu non lasciarmi mai
Futuro traditora, sorride per un po’
poi sputa e si allontana con l’ultimo kapò
Il sangue e il suo sapore si imparano da voi
per far tornare i conti che non tornano mai
Le ombre dei compagni sono rimaste là
là dove si cantava che l’è morta la pietà
Le armi dei compagni sono rimaste là
tra le castagne matte vendetta e libertà.
(da Dremong, 2014)

Di quest’ultima canzone esiste una versione, molto amata da don Andrea Gallo, che venne scritta per diventare l’inno di una nuova Resistenza:
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Breve biografia.
Max Manfredi, nato a Genova nel 1956 è un cantautore trasversale, imprendibile sotto un’etichetta, vagabondo dalla musica al teatro, dalla letteratura alla didattica. È un artigiano di musica e parole. Sulla scena da oltre vent’anni, Max Manfredi racconta di viaggi, climi, città e metropoli, storie d’amore e di disincanto, prende a schiaffi e carezze, evoca scene meridiane o crepuscolari in cui per riconoscersi basta un minimo di abbandono, e lo fa accompagnato da musicisti provenienti da esperienze disparate, eccezionali per tecnica e passione. Fabrizio De André ebbe a dire di lui che era «Il più bravo di tutti».

Quando e come è nata la passione per la musica?
Ho cominciato a scrivere, anche canzoni, da ragazzino. Ho continuato poi, salvo qualche periodo, per tutta la vita. A un certo punto, verso i trent’anni, ho deciso che quello sarebbe stato anche il mio mestiere. Scrivere, cioè, e cantare. “Mestiere” è parola nobile, da cui derivano, pensate, sia “ministero” che “menestrello”. E, quasi a burla, ci muoviamo fra sacerdozio e burocrazia anche noi!
La mia passione per la musica è nata, quindi, molto presto, direi connaturata in me, e favorita dall’ambiente familiare. Da bambino ascoltavo dischi di musica leggera (ricordo Fred Buscaglione e Domenico Modugno, ma anche Peppino di Capri ed Antoine), qualcosa di classica, e seguivo – allora – i festival di Sanremo. Verso i tredici anni cominciai a fare canzoni, ispirandomi ai “cantautori” in voga. Ma intanto, senza far studi musicali, imparavo un’armonia istintiva ed esercitavo l’orecchio suonando le canzoni dei Beatles. Devo ringraziare i dischi dell’Enciclopedia della Musica, non so se Garzanti o che edizioni fossero, che spaziavano dalla musica folk (etnica, come si dice adesso), al jazz, alla classica. A diciassette anni cominciai ad occuparmi attivamente di musica popolare italiana. In seguito, mi avvicinai alla canzone medioevale, sia come appassionato, sia come interprete professionale.

Quali generi e/o autori ti hanno ispirato?
Negli anni detti dell’adolescenza cercavo, proprio nella canzone, un gradiente emotivo, un’intensità lirica, poetica, intendendo la poesia di parola e musica che deflagrano insieme. In seguito avrei capito l’importanza, anche, del gesto. Fosse pure lo stare immobili. La cercavo e venivo spesso deluso. Posso dire che uno dei motivi che mi spinse a fare canzoni fu la scontentezza nel sentire le canzoni degli altri.
Ma ogni tanto ricevevo illuminazioni, piccole e grandi, anche dagli altri, fossero Battisti o Paolo Conte, De André o Francesco Guccini, e soprattutto Leonard Cohen, Bob Dylan, Jacques Brel – scoperto in seguito – Brassens, e poi ancora – ma molto più tardi, e molto prima che fosse “scoperto” in Italia – Tom Waits. Ma anche Petrolini, Carmelo Bene, Schubert, Coltrane… anche cellule di messaggi pubblicitari, “memi” impazziti, film americani, alcuni poeti (che so e mi va a volte di leggere, anche ad alta voce, in modo magistrale); e ancora da me stesso, quel che scrivevo in prosa e si rifletteva in versi. Come diceva Rimbaud, «il titolo di un vaudeville apparecchiava spaventi davanti a me».
C’era modo di vivere su un filo psichico, teso fra la normalità quotidiana e l’abisso dei sogni. questo filo era la scrittura. E contemporaneamente vedevo come non esiste un “genere” musicale o poetico, se non negli occhi miopi, e presbiti insieme, della critica, oppure nell’entusiasmo dei compagni di viaggio. E i miei maestri erano molecolari: tutto poteva insegnarmi qualcosa o darmi un suggerimento, tutto poteva schifarmi. Imparavo, dolorosamente, quanto poco abbia valore il valore. Ma questo succedeva prima dell’abbattimento culturale degli ultimi trent’anni (proprio come si “abbatte” il pesce). Qui il discorso si allungherebbe, si articolerebbe, si frastaglierebbe, e, come diceva un altro grande, Gozzano, «sarà bello tacere».
Eppure, per amore o per inerzia, non mi sono ancora deciso di smettere di far canzoni e di scrivere. So che per farlo senza disprezzarsi (non per fierezza, ma perché si raggiunge una dimensione sospesa, al di là della dignità e del disprezzo) bisogna attraversare il silenzio come un setaccio, o un wormhole.

In un bell’articolo scritto da Alessio Lega sulla tua musica, tu affermi: «Accetto una sola etica, quella della bellezza, e quella la inseguo ossessivamente brano per brano». Puoi spiegarci queste tue parole?
Dire «accetto una sola etica, quella della bellezza», è un’affermazione perentoria ed è anche ambigua. Significa, in sostanza: se il senso della bellezza viene asservito ad altre etiche, se cioè si fa del dopolavoro o della celebrazione, la bellezza stessa perde il suo potenziale rivoluzionario, o almeno antagonista. La bellezza dev’essere antagonista in sé, e non perché ancella di qualche sistema ideologico, religioso o morale. E la bellezza non può essere già data per buona. È una scommessa continua e clandestina, un azzardo, un graffio sulle cose. Nello stesso tempo, avessimo come punto di riferimento il senso della bellezza, faremmo tutti scelte migliori rispetto a quelle che comunemente facciamo – o si fanno, sia nel rigetto, sia nell’accoglienza. Questo, per quanto riguarda la cultura, il mondo, cioè, delle memorie e dei messaggi. Cultura, arte e spettacolo. Faccio un esempio facile: tutte le commemorazioni, i tributi, leciti e in certi casi doverosi, ad artisti famosi e/o defunti, non virano verso la bellezza; piuttosto ne onorano i fantasmi, sia pure dando spesso da mangiare ai vivi. La sorpresa verso ciò che ancora non si conosce, che non è assodato, però, non è cosa da tutti. In questo senso c’è un valore mediatico ed un valore estetico, delle cose, anche delle cose d’arte, e son ben diversi – anche dal punto di vista etico.
Non vedo altra possibilità di lavorare, quindi, se non in modo artigianale. Questo per quanto riguarda le opere, ma anche il pensiero.
«Brano per brano» non è solo canzone dopo canzone, ma dà il senso dell’essere sbranati e dello sbranare, attaccarsi con le unghie e coi denti. Un’immagine molto dionisiaca. Ogni canzone, ogni poesia, ogni fotografia parla anche della società. Parla d’amore e di odio, di entusiasmo o disincanto. Testimonia un attrito continuo, da cui spesso vengono scintille. E soprattutto “scarta”, devìa dal senso d’appartenenza, dal gregario. Gli stessi inni, in questo senso, riservano sorprese, specialmente quando sono “belli”.

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