Interviste impossibili, una nomade chiamata Freya Stark

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SILVIA PIO

Possiamo parlare in italiano, vero?
Certamente. Dopo un breve periodo in Inghilterra i miei genitori, entrambi artisti squattrinati,  iniziarono a fare i nomadi. Io nacqui a Parigi, ma ci trasferimmo ad Asolo quando avevo un anno. E proprio ad Asolo ho passato gli ultimi anni della mia vita. A 16 anni mia madre lasciò mio padre per lavorare ad un folle progetto con un Italiano: una fabbrica di stuoie a Dronero. Quanto ho odiato quel posto…

Quindi le lingue non sono mai state un problema per lei.
Non ho avuto un’istruzione vera e propria. Soprattutto leggevo, gli amici di famiglia mi regalavano classici inglesi ed italiani. Mia nonna era tedesca e con me usava la sua lingua. A 18 anni finalmente mio padre mi pagò gli studi al Bedford College di Londra; là mi sono accorta che parlavo inglese con un accento straniero. Lo scoppio della I Guerra Mondiale mi fece ritornare in Italia. Lavorai come infermiera, anche sul fronte del Tagliamento, e come impiegata all’Ufficio Censura di Londra.

Le lingue mi sono sempre servite. Mi venne in mente di studiare l’arabo quando in Europa si iniziò a parlare di spartizione dei resti dell’Impero Ottomano, che era tra gli sconfitti della guerra. Le terre degli Arabi, fino ad allora governate dai Turchi, dovevano essere organizzate in territori sotto mandato fino a quando non avrebbero imparato a stare in piedi da sole. C’era anche un interesse economico relativo al petrolio, trovato in abbondanza in quelle zone. Si aprivano infinite possibilità di lavoro.

Avevo seguito avidamente le avventure del Colonnello Lawrence, che aveva guidato la rivolta degli Arabi contro i Turchi. Avevo letto tutto quanto era disponibile sulle culture del Medio Oriente.

Foto di Fiorenzo Calosso

Foto di Fiorenzo Calosso

Intanto con mia madre ci eravamo trasferite vicino a Ventimiglia ed avevamo iniziato a coltivare fiori. Andai a lezione per sette anni da un monaco cappuccino che aveva vissuto a Beirut prima di ritirarsi in un convento a Sanremo e poi frequentai la London School of Oriental Studies.

Cosa la spinse a partire?
La vita mi era diventata intollerabile. Volevo allontanarmi dall’influenza quasi pericolosa di mia madre, dall’insulsaggine delle persone che avevo intorno, dall’impossibilità di trovare marito (mia sorella era sposata e faceva una vita di infelicità a Dronero, ma la mentalità vittoriana di mia madre mi faceva sentire a disagio come zitella). Avevo amicizie intellettuali, che coltivavo con intense corrispondenze epistolari, ma sognavo di avventurarmi in zone inesplorate e scoprire città perdute nel deserto.

Un piccolo investimento mi aveva fruttato abbastanza per comprare un biglietto per Beirut su una nave da carico, e mi imbarcai nel novembre del 1927. Avevo 34 anni.

Sa cosa diceva il nobile Sayyid Abdullah, un orologiaio che incontrai in Arabia qualche anno dopo? Ci sono cinque ragioni per viaggiare: lasciare i propri guai dietro le spalle, guadagnarsi da vivere, acquisire conoscenza, far pratica di buone maniere e incontrare uomini onorevoli. Sono d’accordo con lui.

Foto di Fiorenzo Calosso

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Persia, Mesopotamia, Transgiordania, Palestina, Egitto, Siria, penisola Arabica. Ci racconta qualcosa dei suoi viaggi?
In Libano i missionari sembravano non credere che fossi andata là per il puro piacere di studiare l’arabo. Come molti dopo di loro, pensavano che fossi una spia. Cercavo la compagnia dei locali per praticare la lingua, così sia gli Europei che gli Arabi non sapevano cosa pensare di una donna sola, senza soldi o amicizie altolocate che faceva lunghe camminate con bussola, macchina fotografica e taccuino e chiedeva il perché di tutto, compresi gli scontri di religione che, allora come oggi, straziavano quelle zone. Volevo andare più lontano, però. Mi era sempre piaciuto scrivere e forse potevo procurarmi di che vivere inviando in Europa reportage dai luoghi che erano al centro dell’interesse politico ed economico dell’epoca.

La mia infanzia di ristrettezze e le prove di coraggio a cui mi sottoponeva mio padre per gioco furono un bagaglio importante da allora in poi. Durante il soggiorno a Damasco incontrai il deserto per la prima volta e decisi che avrei affrontato qualsiasi pericolo, disagio, malattia e solitudine per vederne di più. L’Oriente mi aveva chiamata.

Foto di Fiorenzo Calosso

Foto di Fiorenzo Calosso

Ho viaggiato spesso da sola, con guide locali. Sono stata in luoghi dove nessuno aveva mai visto un occidentale, e che questo fosse una donna era inconcepibile.

Dopo il viaggio nella terra dei Drusi, mi incuriosì la storia di una setta persiana del secolo XI chiamati gli Assassini, il gruppo terrorista più efficace della storia, e tornai a Londra per saperne di più.

Il suo primo libro, The Valleys of the Assassins, ci dice che li ha trovati questi Assassini.
Non subito. Andai a Baghdad per la prima volta nell’ottobre 1929. Visitai tutti i luoghi di interesse archeologico, presi lezioni di persiano, turco e curdo ed iniziai a studiare Corano e Sunna. Intanto disegnavo o correggevo le carte geografiche britanniche. Tornai a Baghdad nel ’31per raggiungere la Persia ed esplorare le zone degli Assassini. A dire il vero, il nome derivava da hashish perché si diceva che ne facessero uso.

Presi la malaria, viaggiai tra valli e montagne a dorso di mulo e asino, feci misurazioni per le carte governative, venni studiata dai locali come fossi un’attrazione circense e infine scoprii l’antica fortezza degli Assassini.

Foto di Fiorenzo Calosso

Foto di Fiorenzo Calosso

È così che raggiunse successo e notorietà?
A Baghdad ero famosissima, tra gli occidentali e tra gli Iracheni, per via di quella impresa. In Gran Bretagna molti leggevano i miei articoli corredati dalle mie fotografie. Le Forze Armate usavano le mie carte geografiche.

Non sempre ero contenta. Forse avrei voluto essere bella, appartenere a qualcosa o a qualcuno. Io avevo talento e coraggio infiniti, qualità che in una donna non erano considerate quanto in un uomo. Ma il premio che la Royal Geographical Society mi assegnò nel ’33 per il contributo cartografico mi apriva ad un mondo nel quale ero a mio agio: quello degli esploratori, dei diplomatici, dell’establishment intellettuale britannico.

Ma mi sentivo a casa anche tra i Beduini dell’Arabia. In questo ero molto diversa dagli abitanti delle colonie. Cercavo di stabilire una specie di cameratismo con le mie guide, che naturalmente erano tutte uomini. Accettavo qualsiasi cibo mi preparassero e lo consumavo con loro. La loro amicizia era anche dovuta al fatto che non portavo con me alcun servo. Avevo capito che l’unico modo per mantenere l’armonia era partecipare alla conversazione serale. Condividevo ciò che avevo, persino la crema per il viso. Non rida, loro la usavano per lucidare i pugnali.

Foto di Fiorenzo Calosso

Foto di Fiorenzo Calosso

A proposito di Arabia, è vero che voleva trovare il regno di Saba, quello della regina che incantò Salomone?
Oltre alla Bibbia e al Corano, ne avevano parlato Plinio, che chiamava quel luogo Arabia Felix, Claudio Tolomeo, Diodoro Siculo. I Beduini riportavano storie a proposito di una città circondata da mura sulla via dell’incenso. Ho studiano centinaia di documenti ed ho deciso di andare in Yemen e vedere se riuscivo a trovare le rovine dell’antico regno. Volevo essere la prima a raggiungerlo, ad alzare il velo su un importante angolo di geografia storica. Purtroppo non esistevano mappe della zona e tutti i luoghi che pensavo di esplorare erano nel nord del paese, oltre la linea che l’imam xenofobo aveva tracciato per delimitare i territori banditi agli Europei infedeli. Mossi le mie conoscenze, ricevetti alcune lettere di raccomandazione per i governatori locali e partii per Aden nel ’34, e di là iniziò il viaggio nell’entroterra arabo.

Fu un viaggio nel medioevo, sotto molti punti di vista. Presi morbillo, bronchite e numerose malattie sconosciute, ma continuai a viaggiare. Avevo saputo che un esploratore tedesco condivideva la mia stessa cerca e tentai una via veloce per arrivare prima di lui. Fui colta da un attacco di angina pectoris e salvata dall’intervento di un farmacista di Aden, mandato a chiamare dai Sayyid, i notabili del villaggio. Un bombardiere della RAF mi venne a prendere e la mia avventura terminò. Seguii le peregrinazioni del tedesco attraverso i racconti dei miei conoscenti, anche dopo essere partita dall’Arabia: neppure lui è riuscito a trovare le antiche rovine di Saba. Arrivò fino alla periferia della città che avevamo identificato come possibile sito, ma non lo fecero entrare all’interno delle mura. Qualcun altro ci arrivò poco dopo, in auto, figuriamoci! Però quella cerca fu sempre legata al mio nome e il libro in cui raccontai il viaggio diventò un bestseller, letto anche dalla regina Madre.

Foto di Fiorenzo Calosso

Foto di Fiorenzo Calosso

Com’era viaggiare in zone desertiche?
Noi occidentali non siamo mai preparati al caldo e alla mancanza d’acqua. Condizione fondamentale è rispettare i costumi e le gerarchie locali, ed essere consapevoli delle tensioni tribali. La cosa che più ho amato era il silenzio della notte, dove non vi è nulla se non il vento, quando soffia.

Il viaggio poi diventa routine, «imprevedibile nei suoi piccoli eventi, immutabile nelle sue grandi linee. Le sorprese di ogni giorno si fondevano in una struttura costante impostata dalle necessità fisiche, che obbligano le persone a percorrere gli stessi sentieri un secolo dopo l’altro. Di questo è costituito il fascino dei viaggi in terreno aperto». (1)

Parafrasando Così parlò Zarathustra, il segreto del deserto è proprio la libertà di pesare i nostri valori, nel distacco che ci offre la solitudine, e di tornare «con passo più fermo nel comune mondo degli uomini».(1)

Quando i mezzi di trasporto saranno così perfetti che i nostri viaggi non verranno più regolati dalle leggi fisiche, «allora il nostro vagare avrà perduto quella deliziosa sensazione di essere tutt’uno con animali, piante e pietre, tutt’uno nella morsa della medesima coercizione».(1)

Foto di Fiorenzo Calosso

Foto di Fiorenzo Calosso

Ha viaggiato anche con compagni occidentali?
Tre donne in Arabia, le tre sciocche vergini… lasciamo perdere. Non sono riuscita a mescolarmi con le due archeologhe inglesi, le cui ricerche sono a tutt’oggi importantissime.

Non mi dica che era vergine?
Di quelle cose non si parlava. Mi sono innamorata, qualche volta penso anche di essere stata corrisposta, ma sempre ho ricevuto delusioni da non credere. Ho comunque goduto di una immensa libertà, ma spesso mi sono chiesta se viaggiavo per allontanarmi dalle relazioni troppo coinvolgenti.

A 54 anni mi sono sposata con Stewart Perowne, lui ne aveva 46 e condivideva i miei interessi nel mondo arabo. Ci conoscevamo da anni ed avevamo lavorato insieme in Medio Oriente. Era gay, ma feci finta di non saperlo.

Ero innamorata dell’amore. «L’amore arriva nelle nostre vite e ne condivide tribolazioni e inciampi, e si veste, se saggio, della memoria di altri tempi, quando tutto era divino. L’intera impresa umana consiste nel mantenere intatti almeno gli ornamenti esteriori di questa prima visitazione: come il cavallo senza fantino, o l’armatura vuota, vengono trasportati attraverso la lenta processione funeraria della vita che viene dopo la partenza dell’Amore».(2)

Foto di Fiorenzo Calosso

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Cambiamo argomento. Si profilava un’altra guerra.
Allo scoppiare della Seconda Guerra Mondiale venni impiegata dal Ministero dell’Informazione britannico come esperta del mondo arabo, che non si sapeva se fosse rimasto neutrale. Mi inviarono in una missione per persuadere gli Arabi a sostenere gli Alleati, che mi portò ad attraversare nove frontiere. Al Cairo promossi l’idea di istituire una Fratellanza di Libertà sulla falsariga della Fratellanza musulmana (un’organizzazione pan-araba i cui membri erano fedeli all’Islam e si dedicavano a sradicare la corruzione e la dominazione straniera). Lo scopo era di includere tutti i gruppi religiosi e le classi sociali e promuovere un sistema secondo linee secolari e democratiche da attuare alla fine della guerra. Iniziai con i contatti personali ed addestrai le persone che lavoravano con me a discutere di qualsiasi questione. Vivevo comodamente in un appartamento ben arredato ma sognavo un viaggio in cammello. Ho incontrato ambasciatori, primi ministri, generali e gente comune, fellain dei villaggi. Ho esportato poi il progetto in Iraq, un paese di importanza strategica per Hitler con forti sentimenti anti-britannici, dove arrivai nel bel mezzo di un colpo di stato. Ci barricammo nell’ambasciata britannica mentre gli aerei della RAF si preparavano a bombardare i ribelli. Vista la mia conoscenza di numerosi dialetti arabi e il mio sangue freddo fui incaricata di mantenere i contatti con l’esterno.

Foto di Fiorenzo Calosso

Foto di Fiorenzo Calosso

La guerra era ormai in Medio Oriente. A Baghdad ricevetti una carica all’ambasciata e ripresi la mia attività di Fratellanza. Purtroppo il mio essere anticonvenzionale, e anche un po’ freak e bossy, voglio dire eccentrica e dominante, mi procurarono non pochi nemici. Io lavoravo con impegno disumano, incontravo gli Iracheni, potenti o bifolchi, nei palazzi o in mezzo alla polvere e al caldo. Tutti chiedevano la mia opinione: i burocrati britannici e i ministri iracheni del regno Hascemita appena istituito.

Durante tutta la guerra non feci altro che viaggiare, non solo in Medio Oriente, ma in India e negli Stati Uniti, dove partecipai al dibattito sulla questione palestinese. Discutevo contro la causa sionista e mi trovavo sempre di fronte ad oppositori. Beh, si sa come andò a finire.

Dove si trasferì dopo?
A Londra, sotto le bombe del 1944. Quando la guerra finì ero di nuovo in India e poi in Italia, ad Asolo, a lavorare per il Governo Militare Alleato. Poi Stewart mi chiese di sposarlo, cogliendomi di sorpresa, e di andare con lui ad Antigua, nei Caraibi, dove aveva ottenuto un posto nell’amministrazione pubblica. La convivenza durò pochi mesi, poi tornai ad Asolo.  Ci scrivevamo e incontravamo di tanto in tanto. È morto quattro anni prima di me.

Ho continuato a viaggiare: Turchia, Cipro, Anatolia, Macedonia, Afganistan  e molti dei luoghi dove ero già stata. Facevo visita ad amici, studiavo lingue e scrivevo. Trenta libri, non sempre di successo perché non erano libri facili. Negli ultimi anni della mia vita sono state pubblicate tutte le mie lettere.

Il mondo stava cambiando. I viaggiatori diventavano turisti. Ero circondata da automobili. Ho viaggiato a modo mio fino all’età di novant’anni; ad 88 sono andata a dorso di mulo attraverso l’Himalaya fino al confine tibetano, sperando di poter morire lassù. Ma «aspettare la morte è come essere a bordo di un vecchio treno a vapore; tutti i tuoi amici sono sulla banchina e ti salutano, e il maledetto treno non parte mai». (3)

Foto di Fiorenzo Calosso

Foto di Fiorenzo Calosso

È stata chiamata in vari modi: Dama dell’Ordine dell’Impero Britannico, Sorella Comandante del Venerabile ordine di San Giovanni di Gerusalemme, «regina nomade» secondo un giornale italiano,  «l’ultimo dei viaggiatori romantici» secondo The Times di Londra, «viaggiatore di consumata abilità» secondo The New York Times. Lei come considerava se stessa?
Un pellegrino e un semplice ospite in questo mondo.

Un’ospite con una vita lunga cento anni piena di viaggi, incontri, scoperte…
… E malattie, operazioni, incidenti, povertà nera, un’infanzia e adolescenza di infelicità e vergogna, sofferenza. Avevo una salute debole ed ero sempre ammalata; i medici avevano detto che non avrei mai potuto camminare a lungo. Ho rischiato di morire la prima volta a 13 anni nella fabbrica di Dronero (quell’incidente mi ha lasciata col volto sfigurato). Ho mancato di poco la morte sulle Alpi e nel Hadramaut in Yemen. Quelle esperienze sono state formative. «La visione della morte dà vita e bellezza a questo mondo … fortunati coloro che la vedono presto così che possono godere di un senso delle proporzioni per il resto dei loro giorni». (2)

Foto di Fiorenzo Calosso

Foto di Fiorenzo Calosso

Di recente è stato tradotto Lettere dalla Siria, e in Italia s’è di nuovo parlato di lei. Di lei ho parlato anch’io, anzi mi sono ispirata ai suoi viaggio per scrivere due poesie della mia raccolta Passaggio in Arabia. Ho dedicato questo libro a viaggiatori come lei e Wilfred Thesinger. E con queste poesie la saluto caramente:

La malattia di Freya Stark in Hadramaut
Battono le ore come onde
che si frangono in lontananza
Una luce tranquilla
rischiara lo spazio ora vuoto
l’intervallo muto
dove si stende la mappa della mia vita
Momenti tornano scordati
profumi di limoni e frangipani,
il desiderio di peccati da azzardare
indiscrete parole da sussurrare:
abisso di nostalgia
Dovrò rispondere davvero
agli angeli doganieri?
Ora pare che arrivino
mentre perdo i pensieri
e farfalle s’affollano
L’ora cialtrona e discreta
mi sfiora la mano
L’ora quieta
quasi lieta
se ne muore

***

Il segreto del deserto
Come l’aprirsi
della coda di un pavone
la notte riempie il cielo
e il lucore del tramonto alla fine
conduce un’eco di meditazione
dove i sogni sussurrano
alla frontiera tra sonno e silenzio
Transitori gli sforzi
dell’uomo si rivelano
e la sua esistenza
Immoto il mistero
tutto governa e guida
tutto comprende
sotto lo sguardo visibile del Tempo

I corsivi sono tratti da “Le porte dell’Arabia felice” di Freya Stark.

lettere-dalla-siria-136973

Freya Madeleine Stark,
Parigi 31.01.1893 - Asolo 9.05.1993

Note
(1) The Southern Gates of Arabia
(2) Perseus in the Wind
(3) Passionate Nomad

Bibliografia
Freya Stark, Le porte dell’Arabia Felice, Milano 1986
Freya Stark, Lettere dalla Siria, Milano 2014
Freya Stark, Perseus in the Wind, Londra 1948
Freya Stark, Le Valli degli Assassini, Parma 2003
Copertina di Passionate Nomad, biografia di Freya Stark di Jane F. GeniesseJane Fletcher Geniesse, Passionate Nomad, The Life of Freya Stark, New York 1999
Silvia Pio, Passaggio in Arabia, Lucca 2012

Margutte ha pubblicato un articolo di Freya Stark qui

Il disegno è di Franco Blandino.

Si ringrazia il fotografo Fiorenzo Calosso per le fotografie inserite nell’articolo, scattate in Oman nel 2013.

(Pubblicato originariamente il 5 maggio 2014)