21. Un celebre Concorso di Poesia Teatrale

18-4-programma-offerto-alle-muse-italianeDINA TORTOROLI

Lo “scolaro del Parini” e “patriota cisalpino” Francesco Reina, “conservò” il frammento sulla Colonna Infame, perché aveva deciso di raccogliere e pubblicare anche gli scritti inediti del grande poeta (morto nel 1799), come atto di stima e riconoscenza; per dirlo con parole sue: in nome di “quei quindici anni  che usai  con Parini famigliarmente”.

Lo inserì – nel 1801 – alla fine del primo volume di Opere di Giuseppe Parini (pp. 239-240), col titolo Frammenti del Poemetto sulla Colonna Infame e la seguente nota esplicativa: «Colonna ch’esisteva in una Piazza di Milano presso la Chiesa di San Lorenzo, per monumento d’infamia contro alcuni pretesi rei di venefici. Essa fu atterrata, perché non ricordava ai posteri che la barbarie, e l’ignoranza dei tempi, che vi fu collocata. Questi frammenti […] ci fanno ardentemente desiderare l’intero Poemetto, che si è smarrito».

Evidentemente Reina non si era sentito in dovere di  “ben maturare le proprie idee” né di “paragonarle” con quelle espresse dal Parini, e formulava giudizi “vacillanti”. Infatti, definiva “pretesi rei di venefici” i condannati, come se fosse propenso a crederli innocenti, ma poi confessava di “desiderare ardentemente” l’intero Poemetto pariniano, noncurante del fatto che in esso si  prolungava la vita di un tragico errore, dettato dal fanatismo.

Pertanto, l’irrefrenabile dissenso espresso dal Manzoni nei confronti di Reina oltre che nei riguardi dell’ “autore implicito” del Fermo, crea una situazione talmente assurda, che – a parer mio – rende obbligatorio immaginare l’“assente possibile” il cui patrimonio “altro”, ereditato da Giulia Beccaria, doveva essere stato “amorevolmente” imposto al giovane “poeta”, smanioso della gloria, come risarcimento di tante sofferenze patite fin dall’infanzia.

Si trattava di un patrimonio di idee che lo sprovveduto Alessandro non poteva, però, condividere, non avendo vissuto le esperienze del “génie puissant” che le aveva elaborate.

Per rintracciare immancabili (a mio parere) opere superstiti, dovevo lasciarmi guidare dall’orgogliosa dichiarazione imbonatiana (databile intorno al 1786): «d’un siècle perverti j’ai bravé les discours» (La Résignation).

Una conferma del ruolo di educatore dell’Imbonati è offerta dallo studioso Falquet-Planta, che lo accomuna a due insigni “riformatori”, in una lettera al filosofo teramano Melchiorre Delfico, al quale esprime la propria ammirazione, dicendola pari soltanto a quella che provava per altri due pensatori: il milanese Carlo Imbonati e il pedagogista e filosofo svizzero Pestalozzi.

Inoltre, noi sappiamo che già come allievo del “Clementino”, Carlo Imbonati – evidentemente sentendo  “in sé alte cose da rivelarsi”, come se gli fosse “per così dire comandato di fare” (Vedi Fermo e Lucia, p. 320) –  nonostante l’impegno di nove ore di studio quotidiano, aveva condiviso con diciotto compagni innovatori il progetto di una colonia arcadica “stravagante”, e sempre nel collegio Clementino aveva ricevuto una vera e propria “educazione alla teatralità” (considerata oggi una scienza interdisciplinare), che gli aveva permesso di introiettare anche l’esperienza dell’azione nello spazio scenico.

Sappiamo altresì, dal Manzoni, che quell’uomo “virtuoso” riteneva “giovasse altrui” la poesia di Vittorio Alfieri, tragediografo: «E venerando il nome / Fummi di lui, che ne le reggie primo / L’orma stampò de l’italo coturno, / e l’aureo manto lacerando ai grandi / Mostrò lor piaghe, e vendicò gli umili» (In morte di Carlo Imbonati, vv.171-175) .

Carlo Imbonati possedeva, insomma, tutti i requisiti indispensabili, ad esempio, per contribuire alla buona riuscita del rinomato “Concorso drammatico  di Parma”, “Atene d’Italia”.

Improvvisamente mi rendevo conto che il mio andar per archivi mi aveva sempre portato lontano, noncurante della dovizia di documenti che avevo vicino (eccettuato un anno, trascorso in provincia di Novara, io ho sempre abitato a Parma).

Sotto i riflettori ecco dunque il Ducato di Parma, nella seconda metà del Settecento.

Guillaume Du Tillot, abile uomo politico francese, trasferito nel 1749 da Parigi a Parma, come consigliere di Filippo I di Borbone-Parma,  nominato  dal Duca “ministro d’azienda” nel 1756 e “ministro di stato” nel 1759,  perseguì una politica culturale che desse prestigio a quello Stato di esigue proporzioni.

Per riuscire nell’intento di trasformare il Ducato in un centro culturale di livello europeo, Du Tillot scelse uomini di scienza, letterati, filosofi, artisti, provenienti anche da altri Stati, e quale riconoscimento per i suoi servigi, Don Filippo, nel 1764, gli fece ampia donazione delle terre di Felino e San Michele di Tiorre, nominandolo marchese.

Dal 1765 il marchese di Felino si impegnò a proseguire la propria “illuminata” opera riformatrice, divenuta ben più problematica, al servizio di don Ferdinando, figlio e successore di don Filippo, che era morto inaspettatamente ad Alessandria, all’età di quarantacinque anni.

Lo zelante Ministro trovò un valido sostegno nel piemontese Padre Teatino Paolo Maria Paciaudi, direttore della Reale Biblioteca, soprattutto nell’ottenere che il Duca istituisse un Concorso letterario per «rialzare con premi, pubblicazioni e rappresentazioni le sorti del teatro italiano»: un’iniziativa culturale che sottendeva un amalgama di scopi elevati.

Il Programma, elaborato dal Paciaudi, fu impresso dal Bodoni, in un elegante opuscolo in ottavo, presso la Stamperia Reale, per cura del conte comasco Castone Della Torre di Rezzonico.

Oggi quelle interessantissime tredici paginette si possono leggere in  rete (book.google.com > Books, Programma offerto alle muse italiane) ed è facile constatare che l’Imbonati avrà senza dubbio apprezzato sia la premessa del Programma: «egli è certo, che l’Italiano teatro sembra richiedere al dì d’oggi non leggieri cambiamenti» (p. V) sia le riflessioni relative al “genere” Commedia.

Il Paciaudi, infatti, nell’introdurre le “regole” di ammissione, induceva i compositori  a riflettere sulle peculiarità della Commedia: «genere d’azione tanto difficile a condursi a perfezione, quanto è difficile il dipingere la natura nel suo vero aspetto; e tanto utile, quanto è importante il riformare i costumi, e i difetti delle persone, con le quali viviamo» (p. VIII).

Al compositore, insomma, si richiedeva di «esser un osservatore avveduto del cuore, e degli atti dei suoi simili» (p. VIII).

Il Programma non ammetteva trasgressioni: «Le sole Commedie di carattere verranno ammesse. Pare che queste ridur si possano a tre classi; cioè a quelle, che ci dipingono il vizio per renderlo odioso, e che di carattere propriamente si appellano: a quelle che ci mostrano l’uomo nello stato, in cui diviene lo scherzo delle umane vicende, e che dir si vogliono Commedie di situazione; e a quelle finalmente che ci rappresentano le virtù comuni con colori, che di esse innamorano, poste in rischi, o in disgrazie, di cui lo spettatore sembra entrare a parte, e che per l’effetto che producono, Commedie tenere possono denominarsi» (p. IX).

Du Tillot detestava “la trascuratezza” dei teatri italiani e considerava irrinunciabile una “rigorosa disciplina” ( Vedi: HENRI BÉDARIDA, Parma e la Francia 1748-1789, Segea Editrice, 1986, Vol. II, pp. 424-425), pertanto  il Ducato avrebbe dovuto essere dotato di una Compagnia Stabile, formata da attori altamente qualificati, in grado di indurre gli spettatori a considerare il teatro non soltanto un passatempo.

Scriveva pertanto il Paciaudi: «L’esperienza fa vedere che la desiderata perfezion nel Teatro dipende non tanto dalla bontà de’ Drammi, quanto dalla vera, e giudiziosa maniera di animarli, ingegnosamente appellata la magìa delle Scene. L’ignoranza, l’irreflessione, l’insufficienza degli Attori recano sovente freddezza, languore, confusione nel Dramma il più espressivo, il più toccante, il meglio ordinato. Non è stata forse mai imitata la dilicatezza de’ Greci nel fissar le leggi, perché agli Attori delle Tragedie, e delle Commedie si diano le necessarie istruzioni, e si vegli, per così dire, alla teatrale educazione di coloro, che vestir debbono caratteri si diversi. Per ristabilire anche in ciò la gloria del Teatro Italiano S. A. R. manterrà una scelta Società di oneste persone, civilmente educate, le quali rappresenteranno ogni anno la Tragedia, e la Commedia, che saranno state premiate. Verranno gli Autori ammaestrati, e diretti da persona capace d’inspirar loro il giudizio, e il sentimento, che sono i due principj atti a produrre il desiderato successo. Il Direttore prescelto, esperto conoscitore, com’egli sarà, delle bellezze de’ Teatri delle colte Nazioni, si occuperà tutto, onde risulti a quello di Parma anche l’esattezza, e la proprietà convenienti ai due generi di rappresentazione» (pp. X-XI).

Infine, i due ideatori della riforma teatrale avrebbero voluto assicurare il corretto svolgimento del concorso: «A fine che queste produzioni teatrali siano giudicate con cognizione di causa, e sicurezza, e senza parzialità, ha S. A. R. deputati  sette illustri soggetti, a’ quali spetterà il leggere, ed esaminare ciascheduna Tragedia, e Commedia spedita, e decidere unitamente del merito di esse. Uomini per condizione, per probità e per intelligenza maggiori d’ogni eccezione, non lasceranno luogo a verun sospetto ne’ loro giudizj. Chiunque vorrà concorrere, dovrà mandare il componimento bene scritto, contrassegnato di una sentenza, o di un verso, e senza il suo nome, il quale sarà posto in lettera suggellata, che accompagni l’invoglio. Questa non si aprirà, se non dopo la lettura dell’Opera, e pronunziato che ne sia il giudizio, per riconoscere a chi spetti il premio, e darne avviso all’Autore. […] Lo spazio, che si prefigge agli Autori per concorrere è di un anno, che comincerà dal giorno 30. Maggio 1770. sacro a S. Ferdinando. I Poeti Italiani, desiderosi d’acquistar nome in questa occasione, potranno dirigere i loro componimenti all’Abate Giuseppe Pezzana, nominato Segretario dell’Accademica Deputazione, dalla quale verranno pagate tutte le spese della Posta, sicchè niun aggravio abbiano a risentirne i Concorrenti» (pp. XII-XIII).

Secondo una “Nota”, conservata nell’Archivio di Stato, i giudici erano: «i Signori Conte Jacopo Antonio Sanvitale, Conte Aurelio Bernieri, Marchese Prospero Manara, Conte Guidascanio Scutellari, P.D. Francesco Venini,  Abate Millot, Conte Gastone Rezzonico, Sig. Le Suire, P. Giuseppe Pagnini». L’elenco, datato «Colorno, 25 Luglio 1770», è approvato dal Duca: «Approvo la scelta e ne ordino la nominazione. Ferdinando» (Archivio di Stato di Parma, Fondo Teatri e spettacoli Borbonici, busta 5).

Da Angelo Pezzana, figlio di Giuseppe, si sa che tutti i documenti relativi al Concorso, compresi i registri della Deputazione, furono depositati nella “Reale Biblioteca”. Oggi, però, presso quella Biblioteca (che dal 1815 ha preso il nome di “Palatina”, in quanto Sacra ad Apollo Palatino) i registri sono introvabili; tragedie e commedie superstiti sono conservati nel fondo manoscritti parmensi.

Nella monografia Parma e la Francia, Bédarida afferma: «La Biblioteca di Parma conserva venticinque tragedie e ottanta commedie sottoposte alla Deputazione; molte sono andate perdute» (p. 441), ma io devo chiarire che  il suo testo originale (Parme et la France de 1748 à 1789) fu pubblicato a Parigi nel 1928 e da allora le perdite sono, purtroppo, aumentate.

 Di nessun componimento si hanno i giudizi di tutti i Deputati; per lo più sono conservati alcuni foglietti, con il titolo dell’opera esaminata, la data, la firma del lettore e più o meno sbrigative considerazioni. Non tutte sono corredate  dalla lettera di accompagnamento, in cui doveva essere svelato il nome dell’autore; invece si conservano lettere da cui apprendiamo che gli autori celebri si consideravano dispensati dall’anonimato.

Già nel 1772 si era reso necessario un Avviso pubblico, per giustificare la «dilazione del primo Giudicio, nata da insormontabili difficoltà», e altre gravi irregolarità sono documentate da alcune  missive, conservate nell’Archivio di Stato ( Fondo Teatri e spettacoli Borbonici, busta 2).

Secondo i contemporanei, le “cabale dei concorrenti” non permisero ai giudici di “avere riguardo al solo merito”: insormontabili difficoltà, che fecero fallire l’esperimento che stava a cuore al Du Tillot.

Un secolo dopo, lo ribadisce Ernesto Masi nel saggio La vita, i tempi, gli amici di Francesco  Albergati / Commediografo del secolo XVIII (Bologna, Zanichelli, 1888): «A breve andare, la sincerità del Concorso mancò, e il premio, mescolandosene la Corte del Duca, fu conceduto ai più briganti anziché ai più meritevoli».

La responsabilità dei giudici pare sia sottesa anche in quanto è detto, sul Concorso di Parma, nella rassegna Chefs d’oeuvres des Théatres étrangers, del “Journal des Savans”, anno 1823: «Plusieurs poètes furent successivement couronnés […] mais on ne peut pas dire  que l’eclat de ces succès ait eu aucune influence sur l’amélioration de l’art dramatique en Italie; j’ose même croire que cette manière d’exciter l’emulation litteraire n’est guère, propre à produire des ouvrages distingués».

In effetti, non basta produrre un’opera pregevole, perché essa possa diventare utile.

Nel 1779, un ouvrage distingué era stato inviato al Concorso di Parma: una commedia, intitolata La Bastiglia (Biblioteca Palatina, ms. par., Drammatica, 805), che avrebbe veramente potuto dare l’avvio a impegnative proposte di temi, di conoscenze, di idee, ma fu vittima della stroncatura dell’Abate Pagnini, il più influente giudice dell’ Accademica Deputazione.