In carcere: rivolta ed evasione

foto di Gabriella Mongardi

foto di Gabriella Mongardi

ROBERTO SEGRE
Il vice non aveva orario d’ufficio.
Vantaggio o svantaggio?
“Noi non abbiamo orario, dobbiamo sempre essere a disposizione e quindi…”, aveva spiegato ridacchiando il capo al vice quando questi gli aveva chiesto quale fosse l’orario di servizio nel carcere.
Voleva sottintendere che il direttore andava in ufficio quando voleva, non doveva timbrare né rispettare un orario determinato, come gli altri impiegati statali.
La delicatezza del compito richiedeva una costante reperibilità, però il rovescio della medaglia implicava una grande, se non libertà, elasticità d’orario.
Il vice di fatto entrava nel carcere verso le nove (“Prima i detenuti fanno le pulizie, e tu dai soltanto fastidio” gli aveva espressamente detto il capo) fino alle tredici e trenta e poi dalle quattro alle sette del pomeriggio.
Si faceva un punto d’onore di rispettare alla lettera almeno quaranta ore di servizio settimanale, che includevano quattro ore di straordinari retribuiti d’ufficio, fino al sabato pomeriggio, di regola libero.
Ma in più, una domenica si e una no, era di turno cioè reperibile.
Dormiva e restava in città, passeggiava con la moglie nelle vie del centro facendo la spesa nel supermercato aperto anche di domenica mattina, oppure andava a camminare per la campagna dietro al castello dove c’era la prigione.
Talvolta si allontanava in auto per qualche ora, sempre con un briciolo di tensione.
Ma, al ritorno, tutto era tranquillo: il carcere era controllato dagli agenti di custodia (che sarebbero poi diventati polizia penitenziaria, uno dei corpi di polizia dello Stato, che includevano i carabinieri, la guardia di finanza, la polizia di stato, la forestale – poi accorpata ai carabinieri – e anche la guardia costiera).
Senza contare le varie polizie locali, municipali, provinciali e i guardaparco, guardiapesca e guardiacaccia in un’Italia dove tutto era in teoria soggetto ad un’autorità che si arrogava poteri e diritti di controllo, esercitati a seconda della faccia del cliente.
“Quis custodiet custodes?”, ridacchiava il capo che amava infiorare le sue affermazioni di citazioni in latino e proverbi.
Un’abitudine rimastagli di quando era stato cancelliere di tribunale e poi commissario di polizia: di famiglia non agiata si era laureato lavorando e poi, vinti diversi concorsi nello stato, aveva scelto la carriera di direttore dell’amministrazione penitenziaria.
Il capo gli aveva spiegato con entusiasmo il perché:
“Qui stai bene, hai tanti vantaggi, ci conosciamo tutti con i colleghi, i magistrati, le forze dell’ordine, siamo in pochi e poi, hai l’alloggio di servizio (e che alloggio, 200 metri quadrati!), l’auto blu… Noi siamo un corpo a parte, con mansioni speciali. La carriera è rapida. E qui in città sei un’autorità, non te lo scordare… Non hai superiori né capi ufficio, puoi fare quello che vuoi”.
Il vice, laureato da poco, era un teorico: questo era il primo concorso che aveva vinto e che lo interessava, dal punto di vista umano e professionale.
Malgrado il dissenso dei genitori che consideravano la professione meno onorata e più rischiosa di quella di magistrato o avvocato, il vice aveva deciso di assumere subito servizio in galera, anche perché, particolare non da poco, avrebbe potuto abitare da sposato in un appartamento dell’amministrazione, pagando un canone d’affitto minimo.
I vantaggi materiali lo interessavano si, ma meno del lavoro che gli pareva avventuroso, particolare, unico.
Aveva letto molto sul carcere, si era preparato, almeno sui libri, ed era molto motivato.
Quel ruolo gli piaceva, si divertiva in quell’ambiente strano e difficile come se interpretasse una parte in un film.
Profittando delle possibilità della funzione che esercitava, si era anche procurato il porto d’armi: un revolver americano nichelato di grosso calibro gli pendeva pesantemente da una fondina di cuoio, infastidendolo sotto il braccio sinistro le poche volte che lo portava.
Non sapeva bene nemmeno lui come avrebbe fatto a estrarlo e sparare quando era fuori dal carcere, benché avesse partecipato a qualche esercitazione di tiro con il personale di custodia, il quale aveva in dotazione i MAB, vecchi moschetti automatici della seconda guerra mondiale che talvolta si inceppavano alla prova del fuoco.
Per ora l’unica persona che era riuscito a spaventare era la donna di servizio, che, venuta a pulire la stanza, aveva trovato il revolverone adagiato sul tappeto vicino al letto, dove il vice lo teneva la notte per essere pronto, come Tex di cui era un affezionato lettore, ad aprire “un fuoco d’inferno” contro eventuali assalitori.
Che intensità di fuoco poi, con sei proiettili, mentre le moderne pistole semi-automatiche ne sparavano veloci quindici o sedici, restava da vedere…
Ma a lui piacevano meno le pistole nere e lugubri; il revolver tradizionale del Far West, col manico rivestito di legno e il tamburo luccicante, quello era decorativo!
La signora si era rifiutata d’entrare a pulire la camera fino a che la massiccia arma non fosse stata riposta, il che il vice si era affrettato a fare imbarazzato, con un sorrisetto di scuse.
Ma la portava sovente nella cartella di cuoio nascosta tra le carte con cui saliva in ufficio e in più, secondo i consigli degli istruttori di avere un’arma back-up per ogni evenienza, teneva dietro la cintola in un fodero di pelle scamosciata una vecchia pistolina semi-automatica di piccolo calibro, regalatagli da uno zio ex-ufficiale che se ne voleva sbarazzare.
In carcere era vietato al personale portare armi di qualunque tipo, onde evitare che i detenuti se ne impadronissero.
Gli agenti giravano disarmati all’interno, al più utilizzavano manganelli in caso di disordini.
Solo il personale sul muro di cinta portava il mitra a tracolla, che deponeva in armeria quando smontava dopo le due ore prescritte dal servizio di camminamento di ronda.
All’ingresso della prigione c’era un metal detector attraverso cui dovevano passare tutti i visitatori, compresi gli avvocati, ma il direttore e il personale degli uffici erano tacitamente esentati.
Figurarsi se portavano armi, proprio loro…
E invece…
Il vice aveva letto di guardie e direttori sequestrati da detenuti rivoltosi con coltello alla gola e riteneva, da buon teorico, di aver più possibilità di difesa celando un’arma, nel caso di un’eventuale aggressione in ufficio.
Bisogna vedere se i fatti gli avrebbero dato ragione…
Certo, meglio evitare.
Quel sabato il vice era andato a trovare un amico magistrato, già compagno di corso in facoltà, che abitava a due ore d’auto di distanza.
Avevano passato una serata con altri amici, colleghi e conoscenti, a bere, mangiare e parlare, parlare.
Una simpatica combriccola, da ex studenti; si era divertito e rilassato.
I compagni erano tutti al servizio dello stato: da commissari di polizia, a magistrati, consiglieri di prefettura e lui, vice.
“Dal produttore al consumatore”, avevano ghignato: il commissario li arrestava, il magistrato li giudicava e il direttore li teneva in galera.
“Ah ah ah! Ciclo completo di produzione”.
Andato a letto tardissimo, dopo aver chiacchierato e bevuto a volontà con gli amici, il vice si era fermato la notte a dormire su un materasso provvisorio per terra, ospite nell’appartamentino dell’amico.
Al mattino, accesa la radio, la prima notizia dell’annunciatore era stata:
“Rivolta nel carcere di…”
Subito, distratto, il vice non aveva capito: era un periodo di rivolte, evasioni, sommovimenti. Ce n’erano tutti i giorni.
Ma l’amico gli aveva chiesto:
“Di’ un po’, non è quella la tua galera?”
“Ah si, in effetti”.
E, ascoltate altre sempre più gravi informazioni al notiziario seguente (rivolta, sequestri di guardie, evasioni), salutato precipitosamente l’amico, si era lanciato in auto per rientrare, ansioso, senza neanche fare colazione.
Arrivato aveva trovato una situazione da guerra.
Il carcere circondato dai carabinieri, che non volevano neanche lasciarlo passare. Polizia dappertutto con i mitra spianati.
Guardie municipali che sbarravano la circolazione con griglie metalliche.
Sirene di auto con autorità varie che affluivano tutte insieme al carcere.
Salito finalmente in ufficio, aveva incontrato il suo capo, allora in servizio, seduto con aria preoccupata alla scrivania, circondato come un sorvegliato speciale da magistrati, ufficiali dei carabinieri, poliziotti affannati, mentre il telefono non la smetteva di suonare.
Già un carabiniere occupava il centralino telefonando senza interruzione.
“Lasciate libera la linea per noi, dobbiamo telefonare”, gli chiese e poi ordinò più volte il vice, ma senza esito.
L’appuntato pareva non sentire ordini che non provenissero dai suoi superiori.
I soliti conflitti di competenza tra sbirri.
Finché il vice spazientito non andò alla linea diretta nell’ufficio di direzione, ma anche questa era occupata dal procuratore della Repubblica che chiamava Roma, attendendo istruzioni dal ministero.
Fu poi pregato senza tanti complimenti di uscire dall’ufficio, affollato di autorità, e si sedette sul davanzale della finestra accanto ad un alto ufficiale dei carabinieri in divisa, anche lui estromesso dalla stanza dei bottoni, che dondolava nel vuoto le gambe.
Il maresciallo, in attesa di ordini, portò loro un caffè, gentile e ossequioso, e fece un riassunto della situazione.
All’apertura delle celle, un gruppo di detenuti “politicizzati” aveva sequestrato delle guardie, poi due detenuti, arrampicatisi sul muro di cinta, dopo uno scontro a fuoco con le guardie, erano riusciti a calarsi giù ed evadere.
Il primo era stato subito ripreso, una gamba acciaccata dal salto, l’altro, scavalcato un muretto, si era lasciato cadere nel giardino della villa limitrofa alla piazza del carcere, e ora teneva in ostaggio una famiglia intera, padre, madre e due figli, rivoltella in pugno.
Era stato ferito di striscio nello scontro a fuoco con le guardie da un colpo di mitra alla bocca che sanguinava, e parlava stentato, ma continuamente, al telefono addirittura con chissà quale ministro a Roma, dettando condizioni.
Nel carcere, i detenuti aveva occupato le sezioni, mentre le guardie si erano messe in salvo, eccetto due rimaste in ostaggio.
Il muro di cinta era stato occupato da agenti armati che tenevano sotto tiro tutti gli angoli.
I detenuti avevano consegnato un comunicato: chiedevano il trasferimento di alcuni loro compagni a carceri vicine alla famiglia, alla presenza di giornalisti e avvocati che garantissero da rappresaglie quando si fossero arresi rilasciando gli ostaggi, ciò che avevano intenzione di fare, purché fosse pubblicato dai media un comunicato di lotta politica.
Il loro infatti voleva essere un gesto politico, una dimostrazione che potevano agire ovunque, in carcere e fuori, con l’appoggio del proletariato esterno e nessuno li avrebbe fermati.
Si aperse la porta dell’ufficio di direzione.
Il vice che aspettava fuori fu mandato dal capo a parlamentare nel cortile dove, separati da un gran cancello di acciaio a sbarre, stavano i rappresentanti dei rivoltosi, vestiti di tute sportive, scarmigliati e agitati.
Con lui andarono lo psichiatra del carcere e un agente, fratello di uno dei sequestrati.
Furono accolti bene, l’agente fu rassicurato da un portavoce barbuto dei detenuti: non sarebbe accaduto nulla di male al fratello, il vice fu chiamato “democratico”, in quanto, giovane barbuto anche lui e con mentalità meno conservatrice dei vecchi sbirri tradizionali, permetteva facilmente il dialogo senza sfoggio di sussiego né autoritarismi.
Gli venne passato tra le sbarre un foglio con le richieste e le condizioni di rilascio degli ostaggi, il famoso comunicato scritto a mano.
Il medico osservava tutto con i suoi occhi acuti dietro gli occhiali, in silenzio; disse poi che gli sembrava che i rivoltosi non fossero pericolosi, ma che cercassero un riconoscimento, anche minimo, delle loro richieste.
Tornarono di sopra, tra magistrati anziani che avevano assunto la direzione delle operazioni (c’erano reati in corso, la responsabilità spettava al procuratore della Repubblica, che però voleva l’avallo del procuratore generale, e questi di Roma) ma non sapevano come fare, e carabinieri che da militari premevano per un intervento armato onde evitare la diffusione del cattivo esempio se si fosse acconsentito a trattative con i rivoltosi.
Il direttore taceva pensieroso.
Il vice si ricordò che affermava sempre:
“Faglielo dire a lorooo…”, cioè a quelli che volevano comandare, quasi tutti, e non sapevano nulla.
Mai prendere decisioni direttamente, bensì prospettare, spiegare, convincere e poi lasciar decidere ai superiori, ovviamente nel senso voluto.
Quelle erano le astuzie del vecchio volpone di capo, apprese sul campo.
Il foglio ciancicato dei detenuti fu letto ad alta voce dal procuratore e discusso.
Il questore suggerì di intavolare trattative per evitare spargimento di sangue: nel frattempo si sarebbe visto, il tempo lavorava a loro favore.
Il comandante dei carabinieri propendeva invece per una soluzione di forza, spiegando come intendeva intervenire, con tattica d’assalto, per far vedere che lo stato era forte e capace di stroncare tali tentativi.
“Ma no. Bisogna aspettare, avere pazienza, stancarli…”, disse il procuratore, uomo più di carte che di azione.
Il direttore fu d’accordo: se la situazione fosse precipitata, lui sapeva che sarebbe rimasto il solo ad affrontarne le conseguenze, mentre gli altri si sarebbero defilati.
La responsabilità era sua.
Il vice fece per aprire bocca e suggerire di andare ancora a parlamentare, ma fu di nuovo invitato bruscamente a uscire dall’ufficio.
Rimasero rinchiusi in segreto nella stanza dei bottoni solo il direttore capo e i magistrati della procura e procura generale a parlottare.
Il questore dovette tornare nel suo ufficio, lasciando gran parte della squadra mobile sul posto.
Intanto si venne a sapere che il detenuto che teneva in ostaggio la famiglia nella villa esterna al carcere parlava da ore al telefono direttamente con il ministro dell’interno.
Fu confermato da Roma. Cosa si dicevano?
In attesa, negli uffici del carcere, tutti fumavano e bevevano tazzine di caffè, nervosi.
Cosa fare?
Un’azione improvvisa, una sortita?
Ma con gli ostaggi come regolarsi?
Si ricordavano che, poco tempo prima, un’irruzione armata in un carcere non lontano contro i rivoltosi aveva causato diversi feriti e morti, tra cui un ostaggio.
E si voleva evitare un bagno di sangue.
Ma anche non accondiscendere al ricatto.
I magistrati aspettavano le decisioni del ministro da Roma, cosi il direttore, e intanto il tempo passava lentamente.
Tutte le guardie disponibili erano schierate nel cortile e intorno al muro di cinta, impugnando i fucili.
Fuori, drappelli di carabinieri e poliziotti circondavano la struttura e la casa dei sequestrati dal detenuto evaso.
Era un affollarsi di divise nere, blu e grigie, di auto di servizio con lampeggianti, di spettatori curiosi e giornalisti che intervistavano chiunque passasse, alla ricerca di testimonianze, di informazioni, di un colpo grosso.
Lo psichiatra del carcere segnalò al vice:
“Tu ti diverti…”.
Era quasi vero, il vice si sentiva come se interpretasse un film, un film d’avventura.
Mentre il suo capo era teso e preoccupato, con il viso pieno di rughe e i personaggi che lo attorniavano avevano espressioni scure e gravi, come i loro abiti e cravatte, il vice vedeva l’aspetto emozionante della situazione, che sarebbe finita bene, lo sentiva, come in un libro di Salgari.
Il flemmatico Yanez… e intanto si tastava la pistolina, inutilizzata e inutile, nella fondina infilata nella cintura dei calzoni dietro la giacca, che gli era rimasta addosso.
Quello che irritava di più, oltre al protagonismo delle autorità che non c’entravano e davano soltanto fastidio, impedendo una linea di condotta chiara e lineare, interferendo, disturbando, distraendo, confondendo, era lo scorrere del tempo uguale e monotono, senza progressi, la staticità fiacca dell’attesa.
Bisognava mantenersi lucidi in quel bailamme, non cedere alle pressioni, condurre la situazione correttamente verso il fine che tutti, detenuti e autorità desideravano: la resa onorevole, il rilascio degli ostaggi incolumi, dentro e fuori dal carcere, il trasferimento dei rivoltosi, senza reazioni violente di vendetta.
Non era facile, e poi non si poteva mangiare, né riposarsi: soltanto caffè e qualche panino stantio nel cellophane, rimediato dalla mensa agenti dove ormai non c’era più nessuno: tutte le guardie erano state dislocate, armate e pronte ad entrare in azione, dentro e fuori il carcere.
Venne fuori un secondo comunicato dai rivoltosi, frutto delle laboriose e non sempre concordanti comunicazioni tra il detenuto fuori che, ferito, teneva una famiglia in ostaggio e i detenuti dentro con altri due ostaggi, nonché delle telefonate con Roma, in cui si precisarono le richieste.
Ma la soluzione saltò fuori nella notte, come un coniglio dal cappello del prestigiatore, o come un “deus ex machina” (citazione del capo): un deputato del parlamento, forse ansioso di pubblicità o forse dotato di spirito di sacrificio, si offrì come ostaggio ai detenuti, in cambio della liberazione dei due agenti.
Il detenuto fuori, ormai spossato per la ferita, avrebbe liberato la famiglia sequestrata, in cambio di cure mediche e del trasferimento degli altri rivoltosi a istituti di pena da loro espressamente designati, senza rappresaglie e con diffusione alla stampa e ai media di un comunicato politico.
Avvocati e giornalisti avrebbero garantito l’accordo, al vice toccava organizzare le varie operazioni: alle dieci di sera il capo, stanchissimo, gli diede istruzioni e gli lasciò il comando, con l’espresso accordo dei magistrati che se ne tornarono anche loro a casa nelle auto blu.
Rimasero a eseguire le operazioni il vice con i militari, e il deputato ostaggio volontario accolto con sorrisi e strette di mano dai rivoltosi che gli fecero il caffè, rilasciando poi poco dopo i due agenti, provati ma in buone condizioni.
Quanto alla famiglia di fuori, il detenuto che li aveva sequestrati li salutò quasi con affetto e si abbandonò esausto sulla lettiga che lo portò sanguinante in ospedale, tra nugoli di agenti di scorta e reporter che inseguivano.
La famiglia era in piena sindrome di Stoccolma – cioè quello stato psicologico in cui la vittima di sequestro di persona sviluppa un rapporto di complicità, se non di amicizia, con il rapitore.
I genitori dichiararono infatti ai giornalisti, accorsi con telecamere, macchine foto e microfoni, che il sequestratore era stato gentile, si era scusato e anzi aveva farfugliato, con la bocca gonfia dov’era infisso un proiettile calibro 9 sparato dalle guardie, al figlioletto dei sequestrati che lo fissava attonito di non preoccuparsi, di studiare per non diventare come lui.
Era stato quasi sempre al telefono con Roma, il detenuto, e infatti alla famiglia arrivò in seguito una bolletta telefonica spropositata, che il ministero si rifiutò di pagare o di rimborsare almeno in parte, poiché non era una chiamata “istituzionale”.
Questo lo seppe poi il vice che istruì la pratica di rimborso, su richiesta del sequestrato, trasmessa a Roma con ampio parere favorevole.
Ma ora il vice si trovò alle prese con l’organizzazione di tutte le traduzioni dei detenuti in altre carceri, con la perquisizione generale dell’istituto di pena, con i verbali di testimonianze di agenti e degli stessi detenuti, coordinando le guardie carcerarie, i carabinieri e gli agenti di custodia in una serie di lunghe operazioni che occuparono tutta la notte.
Il deputato offertosi volontario prigioniero se ne tornò a casa libero e felice, con la gratitudine dei detenuti e dei liberi, e un’accresciuta popolarità.
Il merito era anche suo.
Tutto si svolse poi liscio come l’olio.
I detenuti ammanettati ma con aria da vincitori passarono incolumi tra le file di agenti armati (il vice stesso e un amico commissario di polizia vigilarono a che nessuno li toccasse, poiché alcuni agenti tesi e inferociti avrebbero voluto impartire loro una lezione con i fiocchi).
Infine tra avvocati e giornalisti, nonché familiari, mogli e parenti che li attendevano all’esterno, i ribelli entrarono incatenati nei furgoni per il trasferimento nelle sedi richieste.
“Buon viaggio, e a non rivederci”, augurò il commissario, “Ma li rivedremo. Quelli fanno il giro delle carceri e tra sei mesi te li ritrovi da queste parti”.
All’ora di colazione, con l’ennesimo caffè che gli irritò l’intestino, la bocca amara di tabacco e la testa dolente, il vice dovette ancora rilasciare dichiarazioni alla stampa, poi alla radio e al telegiornale, nonché rassicurare i magistrati che tutto era, almeno per il momento, finito.
I cronisti lo complimentarono per l’esito positivo della vicenda che avrebbe potuto concludersi con morti e feriti, gli diedero pacche sulle spalle, e lo lasciarono solo nel grande ufficio che conservava ancora l’odore delle varie autorità che lo avevano occupato, i posa cenere traboccanti di mozziconi e i vassoi del cibo e dei caffè, in attesa dei detenuti incaricati delle pulizie.
Fu solo alle undici del mattino che il vice tornò a casa, dopo che il suo capo venne a rilevarlo e rispose ansioso lungamente al telefono a sua Eccellenza che voleva chiarimenti.
“Ma si, ma si, Eccellenza, ora è tutto in ordine, stia tranquillo, ossequi Eccellenza…”, articolò in fretta il capo deponendo il ricevitore, sudato, colpendosi il gomito interno con l’altra mano in segno di derisione all’indirizzo di sua Eccellenza (“Tié! Vaffa…”) e, rivolgendosi a se stesso più che al vice aggiunse:
“Che voleva chillu? Niente… Ora sta tutto a posto…Fino alla prossima volta…”
“Ma nel dopoguerra il titolo di Eccellenza non era stato abolito?”, si chiedeva intanto il vice, che era fresco di studi giuridici.

(da: ROBERTO SEGRE,Tredici indagini del vicedirettore, 2020)