Klimt in altra luce

CARLO CARLUCCI

I tre quadri rigorosamente 110 per 110, due vedute Malcesine e Cassone e uno splendido prato invaso dai fiori e da un esaltato verde estivo, furono dipinti da Klimt durante il suo soggiorno gardesano a villa Gruber (oggi Bellevue San Lorenzo) a pochi chilometri da Malcesine.
Che anche lo Italienishe garten avesse come locus villa Gruber è confermato da un piccolissimo dettaglio: in alto, a sinistra del quadro dominato dalla serena, felice, traboccante invasione dei colori dell’estate italiana si apre uno spiraglio, meglio un indizio assolutamente inequivocabile, l’azzurro intenso, marino e mediterraneo con un frammento della parete rocciosa calcarea e a perpendicolo della sponda bresciana (frutto dell’erosione del ghiacciaio). Il più grande lago d’Italia deve a questo la sua origine ovvero lo scavo in profondità (il lago a quest’altezza supera i trecento metri dal fondo) e il fiume sotterraneo creato dalla pressione della massa di ghiaccio sovrastante si trovò, al momento del ritiro dei ghiacci, come naturale sbarramento l’imponente massa di detriti che poi, assestandosi dette origine alle splendide colline moreniche delle due sponde veronese e bresciana (patria del Bardolino, del Valpolicella, del Bianco di Custoza…).

Il rilascio del calore accumulato nel corso dell’estate da quest’enorme massa d’acqua ha dato luogo a un microclima unico. Ricordo, ma erano altri tempi, ben prima dell’impazzimento (antropico) attuale del clima, quando, lasciato alle spalle nell’incipit della primavera il nevoso e desolante inverno delle valli del Trentino, si arrivava improvvisamente a quelle acque di un azzurro intenso, a quell’esplosione della luce mediterranea che cancellava nella sua calda, luminosa felicità il protratto cupo dell’inverno trentino.

Trito e forse banale dirlo, ma in prossimità del basso lago ebbero i natali sia il Virgilio delle Georgiche, sia Catullo.

Ricordo ancora nei primissimi anni cinquanta, lungo la sponda bresciana, i venditori a grappoli di quattro profumatissimi agrumi, due limoni e due aranci che provenivano dalle spettacolari, digradanti serre a vetri ove maturavano i preziosissimi anti scorbuto agrumi.
Villa Gruber assieme a villa Colonne o villa Òlzelt-Newin col suo aspetto di Partenone lacustre e villa Zehme occupano l’incantevole località denominata Cornesel, una lingua di terra invasa dagli olivi che, nel versante Sud, si apre in un golfo chiamato Val di Sogno. Sulla punta estrema di Val di Sogno contigua all’isola dell’Olivo la proprietaria di villa Zehme, un’attrice tedesca di una certa fama aveva commissionato ad Arnold Schönberg la composizione Pierrot Lunaire, destinata a diventare uno dei capisaldi della musica dodecafonica. Verso la fine dell’ottocento e primi del secolo, anni febbrili, intensi, anni di progetti, di speranze verso un avvenire che si credeva sicuro, esponenti altolocati oltreché illuminati della grande borghesia austro germanica sceglievano come buen retiro quest’angolo splendido e incontaminato del Garda. Ben prima di loro naturalmente, verso il 1400, alcune famiglie nobili di Verona avevano aperto la strada verso la perla del lago.
Negli anni della guerra prima guerra mondiale queste splendide dimore austroungariche vennero confiscate dal governo italiano e i sogni illuminati di quei cittadini dell’impero asburgico spenti.
Klimt in luogo delle consuete lunghe vacanze sull’Attersee nelle quali si dedicava alla pittura all’aperto, tra il 31 luglio e il 10 settembre 1913 assieme alla famiglia Flöge scelse di soggiornare alla villa Gruber (oggi appunto Bellevue San Lorenzo) condottovi probabilmente dal giro delle conoscenze viennesi.

A qualche centinaio di metri in linea d’aria, trovandomi a soggiornare solo soletto nella casa di famiglia, in Val di Sogno per l’appunto, avevo per la prima volta tutto il tempo di perdermi in liberi pensieri. Oramai pensionato e potendo disporre di un deus ex machina come il pc dotato di internet, mi metto a cercare di capire da dove Klimt aveva potuto realizzare (col cannocchiale a treppiede) le vedute di Malcesine e Cassone. E poiché mi era stata fornita, sempre via internet, l’immagine della lapide apposta all’albergo Morandi di Tremosine circa il supposto soggiorno del pittore, con una dettagliata carta del lago mi metto a tracciare tutte le possibili angolature scartando subito l’ipotesi che Klimt sarebbe a sceso da Tremosine a Campione, cannocchiale e tutto (da Campione che fronteggia Cassone la chiesa sarebbe apparsa frontalmente e non sul fianco destro!).

Insomma nel mio ingenuo affidarmi alle tante baggianate suggerite da articoli spuri reperiti sulla rete, a poco a poco si restringeva lo spettro delle mie ricerche. A nulla naturalmente serviva rivolgermi ai rivieraschi vuoi di Cassone, vuoi di Malcesine, al più mi veniva ripetuto che probabilmente le due vedute erano state dipinte da una barca. A tagliare la testa al toro fu una persona amica da Tremosine, Claudio Morandi (omonimo dell’albergo famoso). Questi, con l’aiuto di un amico in possesso di un potente binocolo, giunse a scattare una quindicina di foto che dimostrarono inequivocabilmente come i quadri non potevano essere stati dipinti da Tremosine: la Kirche in Cassone esibiva per intero anche se di sguincio la sua facciata e Malcesine presa frontalmente mostrava il castello assolutamente dislocato di due-trecento metri rispetto alle case prospicenti il porto. Il primo ad esserne sorpreso e anche deluso fu il Morandi dal momento che il soggiorno di Klimt a Tremosine era un po’ la gloria locale (ed io involontariamente l’avevo condotto alla deludente constatazione).

Ma allora? Nel corso di queste alternanze, di questi interrogativi stavo portando al piccolo ma indicibilmente bello museo del Lago di Cassone la falce e un antico rastrello in legno appartenuti a un  amico, Giuseppe Zanetti il quale aveva resistito impavido nella sua casupola arroccata sulla Val di Sogno, avendo per sola compagnia una grande capra bianca, superstite di una razza rigorosamente autoctona ed estinta e a sua volta lui stesso unico superstite incontaminato dell’antico dialetto di Malcesine e del mondo agropastorale del Monte Baldo. Giuseppe fece mettere la luce in casa sul finire del secolo e ai tecnici dell’Enel che si erano nuovamente arrampicati fin lassù per chiedergli come mai, dopo aver brigato per allacciarsi in simile contesto, privo di strade di accesso, presentasse poi un consumo quasi pari a zero. La risposta laconica e anche ironica fu che la luce elettrica gli serviva per accendere onde trovare i fiammiferi con cui poter accendere la classica candela. Giuseppe era superstite in tutto compreso dei Campi di sterminio in Germania dove era stato internato. E anno dopo anno aveva visto trascolorare, cementificare, frastornare la sua Val di Sogno. La sua casupola con l’annessa stalla è ancora li, col tetto mezzo sfondato a sovrastare l’assedio delle tante costruzioni sottostanti. I suoi olivi altissimi sul pendio scosceso, i suoi prati klimtiani (erano proprio sulla dirittura del cannocchiale volto alla chiesa di Cassone), la sua poverissima stein berg ovvero alloggio in pietra ovvero stamberga è ancora li, il tutto recintato dall’immobiliarista di turno pronto a costruire e a cancellare quelle ultime vestigia del Baldo pastorale.

Nel consegnare i suoi due manufatti agricoli (il museo è aperto d’inverno solo la domenica) occhieggio in una bacheca il libro di Paolo Boccafoglio, che prendendo spunto da quegli unici quadri in luce mediterranea dipinti da Klimt apriva uno straordinario affresco sulle vicende tragiche delle grandi famiglie ebraiche che de facto. oltre a competere con le altre grandi casate austroungariche nel campo dell’industria, dei commerci, alimentavano senza soluzione di continuità la cosiddetta intellighenzia del grande impero cosmopolita. Boccafoglio, con acuta sensibilità, riporta la dolente confessione dello Zweig, sfuggito ai nazisti e riparato in America Latina (e successivamente si suicida con la moglie) che non era il denaro il fine ultimo dell’ebreo, il denaro era semplicemente un mezzo (non certo il fine!) che poteva permettere poi ai figli più degni e meritevoli di eccellere nelle professioni più nobili della carriera universitaria, del sapere, delle arti ecc.

Ma oramai il clima di odio, in parte anche frutto di un senso di inferiorità degli austroungarici di fronte alla diffusa intelligenza, alla sensibilità e cultura nel senso profondo e più lato di un popolo improvvisamente senza più patria alcuna, stava divampando e su questo odio Hitler&Co. avrebbero approntato di gran lunga il più grande orrore della storia umana.
Godeva in quei primi anni del secolo Klimt di una condizione di sostanziale privilegio: era il pittore più ammirato e pagato di quella Vienna non tanto felix e sulla quale si stavano addensando ombre funeste. Il figlio di Francesco Giuseppe, l’arciduca Rodolfo si era suicidato con la sua amante come un qualsiasi garzone di macellaio, così lo sprezzante commento del padre. E Rodolfo notoriamente era proclive alle amicizie un po’ degeneri con artisti, intellettuali, intenditori di arte, trovando anzi il suo humus naturale presso la intellighenzia borghese ed ebraica.

In occasione della ricorrenza del VII anniversario della Secessione Viennese e delle grandi celebrazioni del 1900 il Ministero dell’Istruzione aveva commissionato al pittore tre figure allegoriche del progresso delle scienze umane (la Filosofia, la Giurisprudenza e la Medicina), da realizzarsi i tre grandi pannelli per l’Aula Magna dell’Università. Tali figure dovevano mostrare la fede nel sicuro e felice avvenire dei popoli dell’Impero e dell’umanità in genere (celebrazioni riecheggiate nella sublime ironia dell’Azione Parallela di musiliana memoria). Alla presentazione pubblica del primo pannello simboleggiante la Filosofia si scatenarono le violente reazioni e del senato accademico e della stampa dal momento che la figurazione klimtiana si rivelava poco consona o in linea con il radioso avvenire dell’Austria felix. Solo otto docenti, tra i quali lo Zukerkandl e il Gruber si alzarono a difendere l’operato di Klimt.

Al montare delle critiche e reazioni il pittore reagì prontamente restituendo all’Università il cospicuo anticipo sulle due restanti figure allegoriche. La chiusura de facto dei suoi rapporti col mondo dell’ufficialità lo orientò verso il canale dei committenti privati, i grandi collezionisti e mecenati appartenenti per lo più alla borghesia ebraica (vedi la grande famiglia degli Zukerkandl. A questi clienti e committenti che non ponevano preclusioni Klimt si affidò affrancato da lacci e pastoie. Le sue quotazioni del resto erano in costante ascesa, essendo crescente la domanda e limitata l’offerta data la sua maniera di lavorare lenta, riflessa, coscienziosa, minuziosa, attenta ai particolari (Picasso ancora non aveva sovvertito le regole del mercato dell’arte …).
Duecentomila erano gli ebrei in una Vienna che allora contava un milione e ottocentomila abitanti. Al termine del secondo conflitto mondiale di quei duecentomila ne erano rimasti sì e no cinquemila, tutti o quasi inghiottiti dai campi di sterminio nazisti.

I mercanti d’arte si erano visti, dopo l’annessione hitleriana e le leggi razziali, inondare il mercato dalle opere d’arte razziate nelle case degli ebrei e a prezzi estremamente favorevoli (le opere di Klimt erano il top del top). Così la suddetta annessione alla Germania non fu per niente qualcosa di traumatico anzi, basta andare a vedere le foto della piazza di Vienna gremitissima di pubblico entusiasta al primo discorso di Hitler che inaugurava l’Anschlüss.

Fu in questi frangenti che le due vedute italiane, Cassone e Malcesine, prelevate dalle case devastate degli Zukerkandl e Lerderer scomparvero. Il Kirke in Cassone fu poi fortunosamente e faticosamente recuperato da un erede sopravvissuto, un certo Jorisch la cui madre Mathilde e nonna Amalie Zukerkandl erano scomparse in un campo di sterminio. Quanto al quadro di Malcesine ufficialmente sarebbe andato distrutto nell’incendio del castello, dove erano state ammassate molte opere d’arte, tuttavia qualcosa induce a credere che questo paesaggio sia invece nascosto e al riparo nelle mani del fariseo di turno.

I mercanti d’arte austriaci trassero profitto dalla liberazione da parte delle truppe angloamericane per atteggiarsi a vittime di quel nazismo che invece fu dagli austriaci acclamato e osannato e che poi, con le leggi razziali, aveva permesso loro di arricchirsi impunemente.

A noi piace pensare che i due paesaggi, tre anzi col prato fiorito o Italienische Gartenlandschaft siano i tre dipinti en plein air più felici sui settanta circa dipinti da Klimt. La congiuntura fu delle migliori, il Dos de Fer con Villa Gruber che sovrasta Villa Colonne e Villa Zehme in uno scenario grandioso era si terra italiana, ma quell’angolo di paradiso poteva dirsi austroungarico dal momento che tutto quel delizioso promontorio sul lago, isolato da Malcesine, era proprietà di famiglie del contiguo impero e quindi (psicologicamente almeno) sorta di heimat, senza scompensi, senza la sensazione adattare a un ambiente straniero e dove quindi la vena dell’artista (fortemente radicato nella sua Vienna, col suo cibo e così via) si poteva liberare all’affasciante nuovo in completa e felice libertà.

Nelle due vedute paesaggistiche, il cielo è assente e il lago appare come striscia d’acqua con i riflessi alla base. Si tratta di due visioni assolutamente contrapposte: Malcesine felice, multicolore, veneziana per i colori resi coi bianchi, gialli, col rosso appena accentuato dei tetti e l’indefinibile (ma ancor oggi perdurante) atmosfera che aleggia su Cassone.

Oggi con i colori moderni, i cosi detti colori mangia luce come li definisce il pittore Renzo Dotti, i colori acrilici in luogo della calce stemperata  e tinteggiata con gli ossidi, Malcesine ridipinta a nuovo (come quasi tutte le altre città, Firenze in primis) appare coloristicamente brutalizzata e non sarebbe più in grado forse di catturare lo sguardo del magico cannocchiale klimtiano. Cassone invece, quando si rovesci la prospettiva verso sud, con il volume monumentale della kirche sagomato dai grandi cipressi e dominante nella parta alta del quadro e le sparute, raggruppate grigie case sottostanti (e il tutto ravvivato dalle chiome tondeggianti degli alberi) è immerso in atmosfera e colori che sono rimasti ancor oggi gli stessi o quasi: la quiete rarefatta di un verde ombra, il tipicamente lacustre grigio delle emergenti facciate con due tetti che appena esibiscono l’arancione delle tegole. La massa volumetrica della chiesa, assolutamente spropositata rispetto alla dimensione del minuto villaggio, appare in se e per se imponente, misteriosa, totemica.
Oggi sul già fu Dos de Fer è cresciuta una selva intricata e ininterrotta di ville e villette di cemento e pietre dove si salva appena il residence Bellevue S. Lorenzo (ex Villa Gruber) unicamente perché prospicente il vuoto sottostante creato dal taglio della gardesana. E per quanto riguarda il raggio sul quale si proiettava il cannocchiale klimtiano, proiezione che attraversava il fianco del Monte Baldo lambente il lago, uniformemente coperto da olivi per giungere a Cassone, oggi è un’appiattita e ininterrotta selva di case, ville e villette, visione non certo amena e non più in grado di isolare nel verde che non c’è più la kirche, come sorta di ara votiva in certo modo sagomata dai suoi cipressi in preghiera.

L’appiattimento prospettico che appare vistoso nel fitto e intricato agglomerato urbano di Malcesine è attenuato nella veduta di Cassone per via dei successivi piani chiesa-cipressi-case del villaggio con l’inframezzo degli alberi tondeggianti.

Klimt così risoluto nel rifiutare qualsiasi commistione fra dati biografici e arte… tutto quello che avevo da dire come artista è nei miei quadri e lì va ricercato… è stato e ancora è oggetto di capziose indagini biografiche con film, più o meno decorosi, e gli attori di turno a ripetere e a mimare, come regista comanda quei gesti… il mirino quadrato portato dalla mano all’occhio per studiare le possibili inquadrature, le modelle nude e languide, vuoi sul letto, vuoi appese su delle altalene che scendono dal soffitto…, i caffè e i ristoranti della Vienna asburgica frizzanti di sapide conversazioni, l’Austria fintamente felix nell’ultima belle époque.

Di uno di questi registi successivamente naturalizzato francese, il cileno Raul Ruiz, fui amico a Parigi negli anni a ridosso del golpe di Pinochet. Ruiz si era guadagnato fama con i suoi primi film in particolare con Tres tristes tigres. Geniale, colto, brillante, mai scontato, anche troppo! Ci scrivemmo e poi ci perdemmo di vista. È scomparso pochi anni fa lasciando una vasta filmografia. E ripensavo a Klimt così schivo e deciso per quanto riguardava il ‘personale’ semplicemente perché quando il pittore esce dal quadro che sta dipingendo (solo Velazquez ebbe la geniale intuizione di eternarsi dentro il quadro Las Meninas al Museo del Prado) ovvero quando stacca e finalmente depone pennello e tavolozza, quasi in automatico, tanto è fragile e labile la natura umana, ridiventa uomo come tutti gli altri. Lui, Klimt, da persona geniale qual’era, era il primo a riconoscersi in questa sorta di doppio stato (e anche Pavese alla vigilia del suo suicidio aveva lasciato scritto su una copia del suo ultimo libro: … e non fate troppi pettegolezzi…).

Più incisivo allora, anche se apparentemente incongruo, Paolo Boccafoglio nel suo libro Klimt e il Lago di Garda esaurito in poche pagine l’argomento di cui al titolo si vede assorbito per il resto della sua narratio dalle vicende delle grandi famiglie ebraiche, ma non borghesi – come invece i gentili, cioè gli austriaci cristiani - nell’anima. Fu da queste persone soprattutto che il pittore ebbe appoggio, sostegno, amicizia, affetti duraturi.

La narrazione del Boccafoglio ci permette di seguire le vicende di questi collezionisti illuminati e delle loro famiglie il cui destino innominabile appare segnato e prefigurato da certe figure femminili, vuoi in atteggiamenti evanescenti, vuoi nei lor sguardi sperduti dentro quel lontano terribile futuro che le avrebbe inghiottite.

Per concludere, ritornando alla questione in sospeso, a Tremosine il pittore, che comunque non dipinse da quella prospettiva i suoi tre 110×110, ci andò o non ci andò? Il Boccafoglio adombra che forse ci fu una gita al porto di Tremosine e poi su per la recentemente inaugurata strada (maggio 1913). Claudio Morandi mi ha fatto pervenire un documento nel quale una galleria d’arte di Vienna la Kleine Galerie perentoriamente confermava al prof. Morandi dell’albergo omonimo che Klimt nel maggio 1913 (quando veniva inaugurata la spettacolare strada che saliva per orridi e strapiombi) aveva soggiornato per due settimane a Tremosine. Probabilmente fu in base a tale asserzione che nel 2004 fu fatta apporre la targa sull’edificio dell’albergo ora dismesso. Ed é proprio in occasione della messa in vendita in questi giorni dell’edificio dell’ex albergo che Il giornale di Brescia ha rispolverato la vecchia storia. Ho richiesto via mail una conferma circa il soggiorno di Klimt in quel di Tremosine alla Kleine Galerie, ma sono sempre in attesa di una risposta.

 

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