Una famiglia ribelle, prima parte

Prea

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GIUSEPPE PRIALE

Mio padre, Giacomo Priale, il calzolaio dei partigiani, nacque nel 1908 a Roccaforte di Mondovì. A 18 anni andò ad abitare nella frazione di Prea, un paese di lingua occitanica nell’ Alta Vall’Ellero, con 50 lire in tasca e gli attrezzi del mestiere imparato da suo padre Giovanni, il quale esigeva che alla sera, dopo una certa ora, tutti dovevano essere in casa, altrimenti i ritardatari avrebbero trovato la porta chiusa, anche con il paletto. Sarebbe rimasto solo aperto il fienile o la stalla del Ricetto (la scelta dipendeva dalla stagione) con 5 mucche guidate, quando andavano al pascolo, dalla matriarca Biancu, la più generosa in latte e giudiziosa nel lavoro al giogo. Immancabili e dure arrivavano, però, le reprimende del nonno, specie il mattino dopo. Il più ribelle ai rigidi regolamenti di famiglia era perlopiù mio padre, che alla fine fu messo di fronte ad una dura scelta imposta in termini perentori dal nonno, convinto assertore dello ius corrigendi del pater familias, in pieno vigore a quei tempi: rispettare le regole o andare a vivere per conto proprio. Mio padre scelse la seconda alternativa. Così con quelle 50 lire (valore di un vitello) prese in affittò una casetta a Prea in via Fontana (davanti all’odierna osteria del Chié), dove aprì la sua botteguccia da calzolaio specializzato in scarpe da montagna, con tomaia color nocciola in pelle rovesciata di vacchetta, bullette appuntite sul tacco e piatte sulla pianta e chiodi larghi con la testa ribattuta per proteggere la punta. Erano le scarpe più adatte per affrontare i ripidi pendii e i percorsi innevati o ghiacciati specie nei trasporti di lebe (tronchi spaccati) o di trusse (antiche rotoballe di fieno) con la lea (slitta). Quando poi arrivò il tempo di fare il militare, zio Tito, suo fratello maggiore, mi raccontò che alla domanda in quale corpo avrebbe preferito essere arruolato, mio padre rispose in Cavalleria, perché suo nonno a 18 anni era andato volontario nel Pinerolo Cavalleria e aveva partecipato il 24 giugno 1866 alla battaglia di Custoza. Ma la vergognosa sconfitta (lui si era salvato in un campo di meliga) pose fine al sogno di una onorevole carriera militare a cavallo. Scaduti, infatti, i canonici 5 anni della prima ferma, se ne ritornò a piedi da Pinerolo a Roccaforte. Qui dovette accontentarsi di un posto da becchino comunale, un impiego poco allegro, ma meno rischioso.

Zio Tito, anche lui calzolaio, mi raccontò ancora che in pieno regime fascista era emigrato clandestinamente in Francia, perché il “clima” di Roccaforte non gli faceva più bene e neppure gli andava di fare concorrenza a suo padre, mettendosi per conto suo a fare scarpe da montagna. Meno che meno gli andava di offrire al sabato una giornata di lavoro alla patria, gli ripugnava di far parte di quello Stato per via delle noie avute. Lo zio Fedele, il terzo dei fratelli, invece, meno politicizzato, più incline a fare il contadino anziché l’artigiano, con una punta d’orgoglio mi disse, un giorno dei Santi uscendo dal cimitero, che quei grandi pini là davanti (ora abbattuti forse per cancellare persino l’ombra di un brutto passato) li aveva piantati lui in uno dei sabati fascisti, su sollecitazione, penso, di suo zio paterno Pietro (colonnello in pensione), podestà di Roccaforte e commissario prefettizio durante la Resistenza. Credo che zio Fedele, secondo il suo carattere, sorridesse bonariamente divertito, quando vedeva passare per Via Alpi il plotone di scolaretti in divisa con il moschettino di legno in spalla, impettiti, a passo di marcia e accompagnati dalla maestra al fianco, alla quale magari zio Tito avrà fatto qualche commento antiregime ad alta voce, senza badare troppo alla prudenza. Sicuramente il nonno, seduto al suo taburèt (deschetto di lavoro), non avrà neppure alzato lo sguardo attraverso la portafinestra per ammirare quella ridicola parata militare, preparatoria di ben altre parate militari fin troppo serie. Un’altra cosa che non digeriva zio Tito, era quella che bisognasse avere la tessera del partito fascista per poter accedere alla fornitura di pellame. Perciò doveva sempre rivolgersi al nonno o a mio padre per il suo fabbisogno. Quando un giorno, rovistando fra vecchie carte, trovai una tessera del fascio intestata anche a mio padre, la feci in mille pezzi, quasi volessi cancellare una macchia sul suo passato, senza sapere che quella era solo una tessera di “sopravvivenza”, necessaria al suo lavoro, con il quale doveva mantenere una famiglia di sei persone. Zio Tito, invece, che viveva per conto suo e non aveva messo su famiglia, preferì prendere la tessera della coerenza. Perciò, quando sentì che “l’aria” di Roccaforte diventava sempre più pesante, pensò bene di cambiare ambiente e lasciò l’Italia. Scelse però il posto sbagliato. A Marsiglia l’aria era certamente migliore, ma non gli bastava per vivere. Infatti, in quella città di mare nessuno andava da lui, specializzato in scarpe da montagna, anche se di marca “Imperiàl”, dal soprannome di nonno Giovanni che gli aveva passato il “brevetto”. Si arruolò allora nella Legione Straniera. Finita la prima ferma di cinque anni, sulla quale non volle mai raccontarmi nulla, pensò bene, anzi male, di ritornare in Italia a respirare nuovamente l’aria di casa. Ma alla frontiera fu fermato (sembrava che fossero lì ad aspettare proprio lui), ammanettato e poi mandato al “soggiorno marino” in una delle isole Tremiti a fare compagnia a personaggi più importanti di lui, ostili al Regime quanto lui, ai quali aggiustava le scarpe, il più delle volte gratuitamente. Finito il “soggiorno” coatto, dopo la Resistenza ritornò a Roccaforte a respirare, finalmente a pieni polmoni, aria di casa. Quando venne a sapere (non so se da fonte sicura) che gli ex confinati politici avevano ricevuto dal nuovo Regime democratico un vitalizio o indennizzo, scrisse al presidente della Repubblica Giuseppe Saragat, chiedendo un risarcimento per il confino patito o almeno per le risuolature non pagate. Non ebbe risposta.

Zio Mario, il quarto dei figli maschi di casa Priale, non volle imparare a fare le scarpe, ma qualcuno le fece a lui. Laureatosi in filosofia e storia, ma non in (giuris)prudenza, durante una lezione di storia parlò male di Mussolini e del suo Regime. Perse il posto. Per sbarcare il lunario, andò a fare il manovale in posti dove non lo conosceva nessuno. Ritornato all’insegnamento in tempi migliori, si limitò a insegnare la storia solo di vicende passate, lasciando da parte commenti e giudizi personali su quelle presenti nel rispetto della libertà di coscienza degli alunni e in nome della prudenza, una delle quattro virtù cardinali, valida sempre e per tutti.

Zio Fedele, mio tutore, non ebbe noie dal Fascismo, ma dalla Resistenza. Ritornato sano e salvo per miracolo (forse perché lo aspettava un triste compito) dall’isola di Rodi bombardata a tappeto dagli Alleati, dopo l’8 settembre ’43 scelse di rispettare il giuramento fatto alla patria nell’Arma dell’Aeronautica di stanza a Mondovì. Lo vidi per la prima volta una tristissima sera di dicembre del ‘44 alla luce fioca del coprifuoco nel vano della portafinestra già con gli scuri. Indossava una giubba con il colletto in pelliccia d’agnello. Ricordo che il nonno angosciato, senza neanche farlo entrare in casa, gli disse di andare subito ad attaccare Biancu al carro, perché doveva andare a prendere suo fratello Giacomo, che giaceva cadavere nella chiesa parrocchiale di Miroglio, dove era stato portato dai partigiani o da qualche suo conoscente, dato che mio padre saltuariamente teneva anche bottega in quel paese dell’Alta Val Maudagna. Il 12 dicembre era caduto durante uno scontro a fuoco tra nazifascisti e partigiani, ai quali si era unito qualche giorno prima, perché non voleva subire un’altra condanna al palo, in quanto segnalato come fiancheggiatore dei partigiani, che sovente venivano a casa nostra a farsi aggiustare le scarpe e a sentire Radio Londra dal nostro apparecchio. Solo di recente il signor Aldo Ponzo mi ha indicato il punto preciso dove fu ucciso a pochi metri dalla sua abitazione, un tempo ristorante “Fior di Roccia”. Quel punto, rimasto a me ignoto per settant’anni, probabilmente, “per scadenza dei termini”, non verrà mai segnato da una croce per ricordare un passato sempre più passato. A me e alle mie due sorelle basta quella che abbiamo dentro e che durerà fino a che l’orologio della nostra vita si fermerà. Quando a volte sento evocare la Resistenza con “Bella ciao”, questo canto allegro e ritmato anche con il battito delle mani non riesce però a scacciare dalla mia mente i fantasmi lasciati da una guerra, in cui nella seconda parte l’odio ideologico, le rivalità politiche e personali sovente ebbero il sopravvento su valori superiori, come quelli di giustizia e libertà, i due emblemi di quel Partito d’Azione, prematuramente estinto, fondato nel ‘42, insieme ad altri, da Ferruccio Parri, personaggio di spicco della Resistenza, ma troppo galantuomo per fare politica. Come mai quel partito si estinse così presto? Perché, se la giustizia è uguale per tutti (com’è scritto nelle aule dei tribunali), non sempre lo è per i giudici che la esercitano. Perché la giustizia sociale, predicata da tutti i politici, quasi mai è attuata quando poi questi vanno al governo.
Perché la libertà, tutti la vogliono per se stessi, ma meno per gli altri. Perché la libertà, quando c’è, non è apprezzata abbastanza, mentre quando non c’è, è rimpianta ed invocata. Come fanno quei figli ingrati che piangono e invocano la mamma appena è morta, mentre da viva non sapevano neanche d’averla. Come fanno quei passanti distratti che si accorgono della presenza di un albero solo quando giace inerte al suolo: sentono l’assenza ma non la presenza, sentono il vuoto ma non la pienezza dell’esistenza. E’ così che a volte l’annuncio del decesso di una persona equivale ad un atto postumo della sua presenza in vita.

Ancor oggi c’è la tendenza a mettere in risalto la parte più pulita e nobile della Resistenza, tacendo o lasciando in ombra la parte meno pulita e meno nobile. Così si parla sottovoce o si tace sulle rivalità tra brigate partigiane di destra e di sinistra, che in Friuli e Venezia Giulia arrivarono anche allo scontro armato o all’imboscata, come quella attuata da alcuni partigiani titini di sinistra della Divisione Natisone, che nel febbraio del ‘45 a Perzus trucidarono proditoriamente 17 partigiani di destra della Brigata Osoppo. Per fortuna da noi le due fazioni interne della Resistenza non arrivarono mai allo scontro armato, anche se la convivenza e la collaborazione tra loro non sempre fu facile. Però le rappresaglie, le imboscate, le crudeltà gratuite, le vendette tra nazifascisti e partigiani furono numerose, sulle quali è meglio stendere un pietoso velo di pietra, specialmente sullo scempio di Piazzale Loreto a Milano, commesso il 29 aprile del ’45 sui cadaveri di Mussolini, Claretta Petacci e altri tre gerarchi fascisti. Tuttavia, attraverso questo velo, riesco ancora a vedere cosa successe a zio Fedele che, pur non avendo preso la via dei monti dopo l’8 settembre, fu costretto a prenderla in una tragica notte di dicembre del ‘44 per andare a recuperare la salma di suo fratello. Alle porte di Miroglio dovette affrontare in divisa militare, che nella concitazione del momento non aveva dismesso, un posto di blocco dei partigiani, ritornati a presidiare l’Alta Val Maudagna, dopo il massiccio rastrellamento fatto nei giorni precedenti in Valle Pesio e Vall’ Ellero dai nazifascisti. Partigiani che forse avevano frequentato casa nostra a Prea e che magari avevano visto cadere mio padre ai Bergamini, ma ostili allo zio per quella divisa (non nera) che ancora indossava. Poco mancò che in quella notte due fratelli, separati dalla guerra e dalla Resistenza, si trovassero uniti nella morte per ragioni opposte e che la povera mucca finisse in una macelleria “convenzionata”.

Molti anni dopo, zio Fedele (io ero con lui) riconobbe uno di quei partigiani che volevano eliminarlo senza sentire ragioni. Lo riconobbe anche per la barba, che forse portava ancora come ricordo dei tempi eroici e da esibire nelle manifestazioni resistenziali. Lo prese per gli stracci e lo coprì d’insulti (per fortuna non di botte) in mezzo alla gente, che era venuta per il mercato del sabato e non per assistere ad una rissa scoppiata forse per un debito lasciato insoluto o per il furto del portafoglio o per l’imbroglio delle tre carte. Chiuso l’incidente, sbollita l’ira repressa per tanto tempo, lo zio mi spiegò qual era il debito rimasto scoperto e non più esigibile per “scadenza dei termini di legge”, come per tanti altri più o meno pesanti rimasti in sospeso e poi condonati da quello smemorato galantuomo del tempo.

Nel pieno della notte, mentre dormivo, io non potei sentire l’urlo straziante di una mamma alla vista del figlio disteso su un carro agricolo, col cranio bucato dal colpo di grazia alla nuca, inferto non si saprà mai se per pietà dai partigiani o per odio dai nazifascisti. Quell’urlo sicuramente fu sentito da qualche vicino, che forse preferì il caldo del letto al freddo di quella notte dicembre o che non se la sentì di assistere allo strazio di una madre che vide partire il figlio da casa a 18 anni con 50 lire in tasca e ritornarvi dopo altri 18 con un foro in testa. Solamente Biancu, muta testimone, non perse la testa in quella tragica notte, perché calma e saggia, come la cavallina storna di Pascoli, portò a casa colui che non poteva più tornare da solo e neanche in vita, mentre le sue compagne, ignare di tutto, dormivano tranquille al caldo nella stalla del Ricetto.

Quando, molti anni dopo, chiesi alla nonna perché aveva una gamba sempre molto gonfia, mi rispose che quel colpo di grazia aveva raggiunto anche il suo cuore, le aveva danneggiato l’arteria aorta e l’afflusso del sangue alla gamba, procurandole continue sofferenze, diventate atroci negli ultimi suoi giorni di vita. Nonna Caterina era una persona piuttosto taciturna, molto paziente e discreta, ma sapeva dire sempre la parola giusta e buona quando occorreva. I suoi crucci e il suo malanno preferiva tenerli per sé, però era sempre pronta ad alleviare quelli degli altri, lei che si riteneva una sopravvissuta dopo quel colpo al cuore. A volte sapeva usare in modo serioso l’ironia di fronte a qualche disguido o difficoltà propria o altrui. La ricordo seduta davanti ad un focherello acceso in un angolo riparato del cortile, intenta a tostare della segala in una specie di padella chiusa, simile ad un macinino da caffè. Ogni tanto alimentava la fiamma con i tutoli delle pannocchie di granoturco, con le cui effimere braci, dentro un recipiente di coccio, d ‘inverno scaldava il letto grande dove io e mio fratello dormivamo, sempre in gara a occupare il posto più caldo, prima di addormentarci vicini. Ogni tanto, girando lentamente la manovella, diceva come a se stessa “L’Italia fa da sé”: le parole d’ordine chissà quante volte sentite durante il periodo fascista dell’autarchia, dovuta all’embargo imposto dal Consiglio della Società delle Nazioni dopo l’aggressione all’Etiopia nel 1935. La nonna con quel ritornello voleva affermare che l’autarchia continuava ancora per i meno ricchi. Tostava, oltre alla segala, grano, orzo e radici essiccate di cicoria in sostituzione del vero caffè, considerato a quei tempi come una medicina. Mi viene ogni tanto in mente il gusto tutto particolare, non più riproducibile, del latte appena munto macchiato con quei surrogati, che il ricordo rende ancora più buoni d’una volta. Quando veniva buio, per risparmiare energia elettrica, il nonno non accendeva la lampada centrale che illuminava la grande bottega, ma solo quella più piccola che scendeva sopra il deschetto da lavoro. Di giorno, invece, gli bastava la luce naturale che entrava dalla portafinestra, che fungeva da ingresso principale e gli permetteva, tirandosi su per dare un po’ di sollievo alla schiena e ai polmoni, di vedere chi passava per Via Alpi, a volte già riconosciuto dalla camminata sulla galatà, fatta con le gale, i ciottoli ovali che coprivano il fondo della via, finiti in seguito sotto un nero strato di bitume. Ogni tanto, quando l’asfalto si sfalda, occhieggiano ancora per un po’, quasi volessero vedere le cose come vanno al giorno d’oggi, fino a che non arriva inesorabile una palata d’asfalto ad accecarli, ricacciandoli nel loro duro passato di galatà, su cui hanno risuonato le marce leggere di bambini in divisa e moschetto in spalla, ma anche quelle pesanti dei nazifascisti che risalivano la Valle per ripulirla dai banditen (per i nazi), dai ribelli (per i fascisti).

Dopo la guerra il nonno divenne assiduo lettore de L’Unità (forse l’unica copia che arrivava a Roccaforte), incurante di togliere ogni mattina una bella fetta di tempo al suo lavoro. Con il giornale disteso sul deschetto, leggeva quasi col naso per l’impegno più che per la vista. Ogni tanto ad alta voce leggeva anche qualche brano importante per la nonna, che alla vecchia e rumorosa Singer da calzolaio cuciva le tomaie di vacchetta, senza però dar segni d’aver sentito i messaggi “evangelici” provenienti dalla chiesa madre del Cremlino, presa com’era dal suo lavoro e dai suoi pensieri, che non erano certo quelli del nonno. A lui quella lettura giornaliera serviva a fargli sognare la venuta anche in Italia di un “nuovo messia” proveniente dall’Oriente come il nuovo “sol dell’avvenir”, non più vestito di nero ma di rosso, armato di falce e martello per instaurare un nuovo ordine politico e sociale, basato finalmente sulla giustizia e sulla libertà, dopo il fallimento del Partito d’Azione di Ferruccio Parri. Il nuovo messia avrebbe dovuto essere il torinese Palmiro Togliatti, tornato dalla Russia dove aveva soggiornato a lungo per frequentare un impegnativo corso di formazione tenuto da un certo Josif Vissarianovich Dzugasvili, più conosciuto come Stalin (uomo d’acciaio), il cui soprannome doveva essere una garanzia, per qualità e durata, di quel nuovo paradiso terrestre protetto, dopo il 1946, anche da una ideale “Cortina di ferro” (ma non di acciaio), che però non resistette alla ruggine del tempo e alle intemperie del materialismo antropologico, che considera l’uomo solo un prodotto di ciò che mangia, dimenticando che una sola mela già aveva provocato all’uomo infiniti guai. Comunque il nonno credeva ciecamente nel compagno Palmiro, autodefinitosi il Migliore durante un congresso del P.C.I. con queste precise parole: “E’ per me motivo di particolare orgoglio aver rinunciato alla cittadinanza italiana, perché come italiano mi sento un miserabile mandolinista e nulla più. Come cittadino sovietico mi sento di valere dieci volte di più del migliore italiano”. Così già impregnato del culto della personalità, il Migliore avrebbe sicuramente fatto impallidire l’immagine di Narciso riflessa nell’acqua. Ma anche l’homo sovieticus fece la stessa misera fine del mitologico personaggio, mentre sono rimasti con un palmo di naso a guardare la luna riflessa nello “stagno” sovietico tutti quei poveri che il socialismo, per eccesso d’amore, aveva moltiplicato a dismisura. Ma il nonno credeva nel nuovo “verbo”, credeva nella palingenesi sovietica. Smise anche di andare in chiesa, non per coerenza ideologica, ma perché una domenica alla messa granda il parroco durante la predica si era messo a spiegare, quasi volesse rivolgersi a lui, che il credo cattolico era incompatibile con quello comunista, che Cristo e Marx non potevano diventare compagni in nome dell’uguaglianza. Perciò, il Sant’Uffizio aveva scomunicato i comunisti con decreto del 1° luglio 1949 (lasciato poi decadere dal Concilio Vaticano II). Offeso nel suo super-io e nel suo credo politico, che secondo lui poteva andare d’accordo con quello cristiano, il nonno si alzò in piedi a controbattere, non so con quali parole, le argomentazioni del povero prete. Questi allora, saggiamente, scese dal pulpito e il nonno uscì dalla chiesa (non dal cristianesimo) fra lo sconcerto generale. Vi ritornò solo da morto, non perché ve lo portarono come era consuetudine, ma per volere del parroco, il quale da buon pastore qual era, andò molte volte a cercare la pecorella smarrita. Alla fine la ritrovò ancora impigliata nei rovi dell’ideologia comunista, ma già malconcia in salute. La riportò all’ovile e poi l’accompagnò al cimitero con la croce in testa invece della bandiera rossa, come si usava da altre parti. Il nonno finì la sua vita col canto del Requiem, non con l’inno di Bandiera rossa, che lui a volte canticchiava mentre batteva il martello sul cuoio disteso sulla pietra piatta di duro basalto tenuta sulle ginocchia, mentre zio Fedele, forse, faceva andare la falce in qualche podere, cantando “La vita bella dell’aviator” accompagnandosi col suono prodotto dalla cote passata sul ferro d’argento, contento di essere un piccolo culaco piemontese, proprietario di alcuni poderi e di due castagneti, piuttosto che un sovcoviano russo senza terra. Fu così che la morte risparmiò al nonno di vedere il dissolvimento della cortina di ferro, la caduta del muro di Berlino, il pianto di Achille Occhetto in televisione, la chiusura del suo giornale e la disgregazione del secondo “paradiso terrestre”, troppo terrestre, perché costruito sulla terra confiscata ai contadini, i Culachi legittimi proprietari, massacrati a milioni, perché difendevano il diritto di proprietà, un diritto inalienabile, perché connaturato nell’uomo.

(La seconda parte si trova qui)

Lapide commemorativa posta sulla chiesetta del Pellone

Lapide commemorativa posta sulla chiesetta del Pellone