L’Ardèche, un viaggio vicino e lontano

168-canyon-dellardecheGABRIELLA MONGARDI

L’Ardèche, affluente di destra del Rodano, in Provenza, è una meta abbastanza vicina, almeno per chi abita nel Piemonte sudoccidentale, ma permette di compiere un viaggio molto, molto lontano nel tempo, attraverso le ere geologiche e le tappe della preistoria, arrivando fino a 40 milioni di anni fa, quando dall’Oceano primordiale sono emerse le terre, e quella che era una barriera corallina è diventato il plateau che oggi vediamo, per effetto dell’azione erosiva dei fiumi. Sei milioni di anni fa, infatti, il livello del mare si è drasticamente abbassato e l’Ardèche ha scavato furiosamente l’altopiano calcareo: il risultato sono compatte pareti rocciose circondate dalla garigue di roverelle, lecci, aceri, e grotte, tantissime grotte – per la gioia non solo degli speleologi, ma anche dei turisti: molte di esse sono infatti aperte al pubblico, come L’Aven d’Orgnac o… “replicate”, come la Caverne Chauvet.

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Sono settecento gli scalini che si discendono per visitare l’Aven d’Orgnac, o meglio la grotta che nel 1935 Robert de Joly ha scoperto calandosi dall’aven, l’inghiottitoio posto sul “soffitto” da cui entra l’unica luce naturale, sufficiente perché sul cono detritico sottostante cresca qualche ciuffo d’erba e la grotta sia abitata da diverse specie animali, tra cui pipistrelli, crostacei, insetti etc.
I settecento scalini ci portano a 120 metri di profondità e a 6 milioni di anni fa, quando il fiume che scorreva sul fondo della grotta ha scavato una galleria nella roccia calcarea. La galleria si estende per circa 4 km. ed è suddivisa in tre sezioni: una aperta al grande pubblico, l’altra riservata agli speleologi, la terza chiusa a tutti.
Appena entrati, si vedono delle stalagmiti molto originali: le «pile di piatti». Presenti soltanto al di sotto dei soffitti più alti e vicino alle zone di ingresso, hanno una forma particolare derivante dal crollo violento di una goccia d’acqua sulla punta della stalagmite (effetto splash). A fianco delle pile di piatti si sono formate stalagmiti di tipo diverso: le «palme». Tra queste, la «pigna», con i suoi 11 metri di altezza, è diventata il simbolo di Orgnac. Anche le palme si sono formate sotto soffitti alti, ma probabilmente con una quantità d’acqua maggiore. A pochi metri dalla parete, un muro di stalattiti ha raggiunto le stalagmiti situate al di sopra, formando le cosiddette «canne d’organo»: tra di esse è collocata l’urna con le ceneri di Robert de Joly. Più in basso si ammirano invece dei «drappeggi» finissimi, traslucidi, le cui tinte variano dall’ocra al nero per la presenza di argille, ossidi di ferro, materiali organici intrappolati nelle cristallizzazioni e, poiché la galleria non ha subito sprofondamenti, si ritrovano le testimonianze della storia antica della grotta: le volte sono ancora integre e sulle pareti restano magnifiche tracce di corrosione.

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Se l’impervio ingresso naturale di questa grotta ne ha impedito l’accesso agli uomini della preistoria, non così è avvenuto nella grotta Chauvet, “servita” per così dire da una comoda cengia che taglia le pareti verticali del Cirque d’Estre, di fronte al Pont d’Arc, a pochi chilometri da Orgnac, sull’altra sponda dell’Ardèche. La grotta è stata frequentata da homo sapiens da 36.000 a 21.000 anni fa, quando una frana ne ha ostruito l’ingresso naturale: solo nel 1994 è stata riscoperta dagli speleologi, che vi sono entrati dall’alto, sentendo un soffio d’aria uscire dalla terra. Immaginiamo il loro stupore di fronte a quello che hanno trovato, di interesse non solo geologico, speleologico, scientifico, ma anche artistico: le pareti della grotta sono infatti ricoperte di disegni fatti in epoche diverse e con tecniche diverse dagli uomini del paleolitico medio.
Un ambiente simile non poteva certo essere aperto al grande pubblico: perciò la grotta, vent’anni dopo, è stata perfettamente “riprodotta” sull’altipiano a Vallon Pont d’Arc, in modo che chiunque possa contemplare le straordinarie pitture parietali lasciate dai nostri antenati, più antiche di quelle di Lascaux e di Altamira, eppure molto più “moderne” per dinamismo e naturalismo: siamo alle origini della narrazione grafica e addirittura cinematografica, una vera rivoluzione nella storia dell’arte umana. Si tratta prevalentemente di animali: dal gufo ai cavalli, dai rinoceronti ai leoni ai bisonti, dall’orso alla pantera delle nevi, tratteggiati ora a carboncino ora in ocra ora quasi in bassorilievo sull’argilla, sfruttando le sinuosità della parete rocciosa e i giochi di luce delle torce per creare quasi un effetto prospettico. (Alcune foto sono disponibili QUI.) 

Non sappiamo con quali fini siano stati fatti questi disegni, se con intenzioni magico-religiose o più latamente simboliche: ma viene il dubbio che al di sotto ci sia anche il piacere “primitivo”, ma universale, di esprimere se stessi, il proprio talento artistico, la propria ammirazione di fronte al mondo che li circondava. E i visitatori non sanno se ammirare di più l’arte preistorica o la tecnica moderna, che con acciaio, cementi e resine ha perfettamente “imitato la natura”… e la preistoria.