Fine di una recita e altre poesie

cof

MAURO CORTICELLI

Fine di una recita

Spoglia le labbra dal rosso addobbo,
strappa le ciglia dal nero fasto,
atterra il costume di scena.

Ambizioni e volontà il tempo allenta,
distanzia la realtà dal sogno.
Remoti gli applausi, remoti i bagliori, remoto il teatro.
Ora il dramma, il tuo pensiero ritrova.

La facile finzione rimpiangi?
Ora non resta che recitare te stesso.
Tuo è il copione, tua la scena, tu il protagonista.
Schiarisce lento il dramma, delinea gli esiti.
Più certo il destino, più insicura la recita.

*

Inverso

Oggi è così, resto dentro di me.
Mi rifugio, mi proteggo, mi ingrotto.
Oggi non è tempo, non sono tempi.
Resto con i miei pensieri.

Me la vedo con Nietzsche, Gadda, Pavese,
ragiono insieme a loro
lungo i fossi che nutrono ciliegi
in croce, costretti in filari convergenti.

Tengo gli occhi sui calanchi bianchi,
sugli alti pioppi della riva,
sulla salda torre di Festà.

L’anima appena protetta dal calore di un pensiero,
nella luce della prima stella, si placa.

*

Accontentarsi

Ci si accontenta di stentati anfratti di quiete.
Brevissime, rade, lucide percezioni.
Attimi senza tempo, lampi fugaci.

Poi la mente torna al banale,
strappata dal sogno, costretta al reale.
Ossido ferroso e greve magnete.
Forza stregata di invisibili campi,
ad indurre estenuanti inciampi.

Farsi deserto bisogna, ridursi a granello,
lasciare gli altri a recitare parti.
Innalzare vaste barriere interiori,
per sopravvivere, almeno un po’.

Ci si accontenta solo di esistere, spesso.

*

Ci vuole coraggio

Strapparsi dalla pelle il caldo avvolgente del camino, decidersi a muovere nel gelido silenzio.
Aprire un varco profondo nel soffocante muro, senza eco, senza colore.
Ci vuole coraggio.

Lacerare amicizie e affetti, in un saluto che sprofonda l’anima fino in fondo.
Violare regole cristallizzate di una vita trasformata in abitudine.
Rimettersi a giocare con sé stessi, fuori dal tempo, fuori dalla realtà.
Ci vuole coraggio.

Recuperare il cavallo a dondolo, partire per viaggi senza tempo, attraverso montagne incantate, foreste contorte.
Buttarsi a capofitto in spazi senza dimensioni, senza misure, senza fisica.
Ci vuole coraggio.

Rischiare di smarrirsi tra flutti dell’anima, nessuna boa sul mare oscuro dell’angoscia, nessun facile approdo.

*

Ad una amica

Succede così anche fuori dagli usi natalizi,
col pensiero di come sia da te questo tramonto rosso-viola,
che nelle nuvole basse, qui, diffonde luci surreali.

Succede così per le foto di una estate trascorsa,
riemerse dagli scaffali della memoria,
così per Ioia che ho sentito contenta di una prova superata.

Succede così che mi torni in mente appena, come un adagio,
come collina che evanescente affiora dalla nebbia,
senza nostalgie, senza resistenze.

Succede così, con naturale incoscienza, che tutto si dissolva:
l’amore in svogliate carezze, la vita in tenui ricordi,
la volontà in aspirazione,
Solo un augurio, te specialmente abbiano in conto gli aruspici, nel serbarti con cura, momenti felici.

*

Il sapore del ricordo

Fresche ombre taglienti di eterne giornate assolate,
violento contrasto di accecanti riflessi.
Oggi, ancora, il ricordo ha la stessa intensità.

Il cingum saldava tomaie di sandali
incapaci a ritrovare unità con la suola
che sbadigliava unghie irriverenti
intrise di fango e polvere.

Il glicine offriva profumato rifugio,
quando il sasso poteva ferire,
lacrime trasformarsi in pianto,
ginocchia incrostarsi di mille cadute.

Perdere era volerci ancora provare,
correre gli argini nel tenue imbrunire,
senza fiato; alla porta, la fine del sogno
lo schiaffo materno e uno sguardo severo.

*

Il tempo delle ranocchie

Era così, un tuffarsi cadenzato di presuntuose ranelle a confondere
il limpido specchio incantato che il Fiume prestava al cielo.
Ora la Ghiaia sta, inaridita alla vita, sfregiata da vil rostro d’acciaio.

Allora, nel sacco di iuta la danza di sbulferi, lamprede e girini,
lancinanti gracidii di rane nelle mani di bambini.
Una latta rossa e oro, mestolo per fresche acque sorgive,
dolce la camomilla in fiore, profumava le rive.

Il suono di lignei balzoni sussultare su sassi assolati del greto,
braccia forti di donne a trascinare roba e figlioli.
Acqua alle ginocchia, su assi piegate a sbattere lenzuola,
colmare carriole di roba, in secchi di zinco, ritorta.

Grida alte su sassi bollenti, le donne, adunare sudicia prole,
per le piane assolate, smarrite di luce accecante.
Ora, la Ghiaia sta come sudario negato alla vita, un solco di terra,
avvilita, immota, deserta come un infinito rimpianto.

*

Gatti

I miei gatti non sono più giovani.
Hanno smesso di impazzire senza un perché,
le pedane non sono più tappeti magici in cui scomparire,
solo un poco.

Nessuna scorribanda dietro ombre immaginarie,
nessun agguato ad ogni leggero movimento,
nessun canto di guerra a denti stretti.

Lunghi sonni, il caldo di un grembo, una coperta di pile.
Meglio momenti di assorto rapimento in pensieri irraggiungibili,
ad osservare, dietro i vetri, impercettibili movimenti dell’Universo

*

Nacqui nel marzo 1952 a Bazzano, paesino appoggiato all’ultima collina dell’Appennino prima che esso si stemperi nella piatta Pianura Padana. Pur essendo ai confini con Modena, l’influenza culturale e di costume della Dotta predomina nei caratteri dei suoi abitanti decisamente più vivaci dei modenesi.

Entrai nella vita con sofferenza, in momenti difficili, quando ancora gli effetti della guerra erano visibili. La famiglia si era aggiustata in abitazione angusta al terzo piano: bagno in scala, cucina e legnaia all’ingresso.

Quegli anni erano duri al punto da scolpire nelle giovani coppie del tempo, desideri di rivalsa e di emancipazione da perseguire risolutamente gravando su di sé e sui figli, che si sarebbero adeguati volenti o nolenti a stili di vita essenziali e rigidi. Il cortile, il fiume e l’inflessibile, onnipresente madre hanno segnato gli anni della infanzia e dell’adolescenza.

Fughe nel sogno grazie al nonno paterno Francesco (Cicaun), socialista, muratore, figura possente nel suo tabarro, frequentatore di osterie e del fiume e delle sue sorgenti, e al padre Spartaco, pastaio in Lussemburgo prima, poi infermiere. Il giro delle medicazioni svolto in bicicletta per le campagne significava paesaggio, fossi, antichi casolari ed aie.

Formazione Liceo Classico prima, poi l’Università di Ingegneria Elettronica a Bologna. L’emancipazione dalla famiglia ancora studente (boccone amaro per la madre), l’esperienza lavorativa in Olivetti a Ivrea, quando ancora l’ambiente culturale e di lavoro creato da Camillo non era degradato. Qui è stata curiosità e voglia di esperire per tre anni, è stato il periodo lontano dalle radici finalmente, è stata libertà. Poi matrimonio e lavoro vero.

Mai dimostrai inclinazioni particolari per la scrittura. Fin da bambino, tuttavia, provavo un piacere intimo nell’aggirarmi per gli alti scaffali della biblioteca del paese (dove fui vice bibliotecario) alla ricerca delle prime letture. Essenziale di pensiero e di scrittura, evito ridondanza e prolissità. Sono attratto dall’arte nelle sue diverse espressioni esperendo personalmente vari linguaggi artistici con modesti risultati, sufficienti tuttavia a permettermi di apprezzare quanto di bello è stato prodotto da veri creativi. Solo in tarda età ho iniziato a scrivere.

(Acquarello di Mauro Corticelli dal titolo Emersioni)