Nel nome dei Bach

concerto-04-05-2019

GABRIELLA MONGARDI

Come in letteratura, anche in musica il confronto fra autori “minori” e “maggiori” permette di comprendere meglio le ragioni della grandezza, e di riuscire almeno a intravedere in che cosa consista il valore artistico, se non altro per differenza: sia in letteratura che in musica, infatti, i “mattoni” con cui si costruisce un capolavoro sono gli stessi che vengono impiegati per componimenti gradevoli ma non particolarmente originali, e non destinati a durare nel tempo.
È quanto è stato reso possibile dal programma del concerto Dinastie musicali tenutosi sabato 4 maggio a Mondovì Piazza nell’ambito della stagione “Mondovì musica”: un programma molto interessante, che proponeva dapprima l’Ouverture n.2 in sol maggiore di un cugino più anziano di Johann Sebastian, Johann Bernhard Bach, la sinfonia in fa maggiore F67 di Wilhelm Friedemann, figlio maggiore del Bach “maggiore”, e il concerto in fa minore per clavicembalo di Jiří Antonín Benda, un giovane musicista boemo molto ammirato da Johann Sebastian, e culminava infine con due pezzi del sommo Bach: il concerto in fa minore per clavicembalo BWV 1056 e l’Ouverture n.1 in do maggiore BWV 1066. A suonare, i bravissimi “Giovani dell’Academia Montis Regalis” galvanizzati da un clavicembalista-direttore altrettanto giovane, ma di già straordinario virtuosismo: l’aretino Francesco Corti, vincitore del prestigioso premio Bach a Lipsia nel 2006.

La prima ouverture è facile e melodiosa, e seduce con la sua varietà di atmosfere: si passa da un gavotta giocosa a una sarabanda allusiva e misteriosa, da una bourrée energica e incalzante a un’aria dolce e sospirosa, per chiudere con un minuetto saettante e una giga grandiosa e fremente. La sinfonia del figlio di Bach è decisamente “sperimentale”, di sorprendente modernità. È una musica ribelle, tumultuosa, fremente di contraddizioni, tempestosa, a tratti amaramente ironica. Soprattutto i primi movimenti sono pieni di dissonanze, di frasi interrotte a metà: solo nel minuetto finale il compositore si abbandona a un ritmo cullante e ritorna all’armonia classica. Del resto, non era facile crescere all’ombra del grande Bach: i figli hanno cercato in tutti i modi di scostarsene il più possibile.
Jiří Antonín Benda fa parte a sua volta di una dinastia di musicisti settecentesca ancora oggi rappresentata, ma era considerato anche “parte” della famiglia Bach, se troviamo i suo nome e quello del fratello sul necrologio di Johann Sebastian. Nel suo concerto per clavicembalo si respira un’atmosfera molto concentrata e severa, nonostante il suono cristallino e leggiadro del clavicembalo, che il maestro Corti suona con la perfetta naturalezza con cui si parla la lingua materna. Nel larghetto centrale il dialogo tra gli archi e il solista è particolarmente delicato, il suono è molto morbido perché gli archi usano la sordina, ma gli arpeggi e i trilli del cembalo sono sempre più accorati, come in un prolungato addio a cui a malincuore ci si rassegna. Il tempo finale, con forte contrasto, è invece concitato e nervoso, oscillante tra insofferenza e disciplina.

E infine, l’incontro con Johann Sebastian Bach, che pur non muovendosi mai dalla natia Germania ha saputo fondere insieme nella sua opera i due principali stili della musica del tempo, l’italiano e il francese, molto diversi fra di loro, imprimendovi il suo sigillo “teutonico”, e i due pezzi eseguiti ne sono una lampante dimostrazione: in stile italiano il concerto per clavicembalo, eseguito in forma cameristica; in stile francese la suite di danze che costituisce l’ouverture, eseguita a piena orchestra, con archi e fiati che si fronteggiano in un esaltante testa a testa. Che la grandezza di un artista dipenda dalla sua “apertura”, l’originalità dal suo “meticciato”?
La tonalità minore del concerto per clavicembalo (la stessa del brando di Benda) conferisce un che di perplesso al primo movimento, dal ritmo irregolare e inquieto; di stampo vivaldiano il largo, con gli archi in pizzicato che punteggiano la melodia suonata dal solista, scandendo le modulazioni di tonalità con grande dolcezza. Il presto finale è vortice impetuoso di note, con pizzicati intercalati ad arcate.
L’ultimo brano in programma è interpretato da tutta l’orchestra con un affiatamento e una fluidità che conferiscono a Bach una dolcezza, una morbidezza inusuali; la dimensione dialogica è sottolineata dalla presenza dei due oboi e del fagotto, che hanno a turno il ruolo di solisti. L’intreccio delle varie danze è travolgente: alla disinvolta corrente segue una gavotta quasi scanzonata, ma capace di languidi trasalimenti; la furlana sprizza scintille, mentre il minuetto sorride e ammicca, invitante e scherzoso. Nella bourrée si inseguono archi scatenati e fiati pacati e sussiegosi, il passepied finale scivola leggero come una vela sulla superficie di un lago.
Ma tutto deve finire, deve sparire in nulla, e anche questa musica sublime affonda nel silenzio, mentre le parole cercano invano di fissarne sulla carta il ricordo, e la sala si riempie di applausi.