Giro di boa, dal diario di una neo sessantenne

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CYBIL PRINNE

A sessant’anni il mezzo del cammin s’è superato da un pezzo ma è forse a questa età che non si ha più paura di ammetterlo. Più vita dietro che davanti, sparito lo smalto della giovinezza, se il vecchio potesse: tutti i luoghi comuni assumono il significato di verità.
Il fisico mostra i segni del tempo: i muscoli da sportiva si sono trasformati in cellulite, i capelli sono ingrigiti, gli occhi e la bocca rimpiccioliti per via della corona di rughe. Ci sono coetanee che ancora osano abiti smanicati e corti, io no. Ci sono le nonne dei fiori che si ostinano a portare gonnelloni e capelli con le trecce, dio mi scampi. Ci sono tacchi 12, tatuaggi o piercing, ma penso che ognuna sia libera di rendersi ridicola come vuole e a qualsiasi età.
Per fortuna ho ereditato la figura minuta e (ancora) snella da mia madre e con un paio di pantaloni e una bella camicia faccio la mia figura. I colleghi dicono che non dimostro gli anni, ma forse vogliono accattivarsi la mia benevolenza.
Al lavoro, come negli impegni sociali e mondani, sono quasi sempre la più vecchia, ma anche la più sobria, la più paziente, la più distaccata. È una sensazione impagabile, che nel tempo ha curato insicurezze e dubbi, tanto che posso ora dichiarare che non cambierei i trent’anni (muscoli sodi, occhi sensuali, corona di capelli scuri) con questa padronanza di me.

Ma non è solo una questione di età ed esperienza, è un’abitudine all’impegno volto al miglioramento, all’esercizio mentale, all’acquisizione di nuove capacità e all’affinazione delle vecchie.
Quindi, per celebrare questi sessant’anni accettati e consapevoli, desidero promuovere un altro cambiamento, probabilmente irreversibile, dichiarando quello che non voglio (più).

Non voglio più ricevere regali; non ho bisogno di nulla, gli oggetti si sono accumulati e non c’è più spazio, né in casa né nella memoria: metà delle cose non ricordo di averle e l’altra metà non so più dove le ho messe.
Non voglio ricevere o comprare libri (l’ultimo trasloco mi ha costretta a darne via chili e chili, che non mi sono poi mancati), a meno che non siano quelli che la padrona della libreria dove lavoravo da ragazza definiva “fondamentali”, che forse ho già tutti. Avete mai fatto il gioco con gli amici: se dovessi partire per un viaggio molto lungo quali tre oggetti porteresti? Da giovani tre oggetti sembrano ridicolmente pochi, col passare del tempo diventano troppi. Persino i libri “fondamentali” col passare del tempo sono sempre meno: qualche classico, un’antologia poetica del ‘900 e un umoristico inglese.

Non voglio avere proprietà: “non si porta dietro nulla”, diceva mia nonna. La casa la voglio intestare ai ragazzi, senza preoccuparmi se saranno in grado di pagare le spese con quei loro lavori precari (la parola del millennio). La vita stessa è precaria e uno stipendio fisso non cambia l’incertezza di esserci ancora domani. E comunque loro si troveranno ad essere proprietari di un bell’alloggio comodo ai servizi, finemente arredato, completo di elettrodomestici, di servizi di piatti e posate ereditati dai nonni e di corredi di biancheria mai usati. Mi piacerebbe trasferirmi da un’amica che vuole affittare una parte della casa, troppo grande per lei.
L’automobile è l’altra proprietà: ha venticinque anni, è robusta come un trattore e ci sono affezionata. Ma al lavoro potrei andare a piedi, e per i viaggi più lunghi ci sono treni e taxi. Ho fatto un calcolo: con quanto spenderei per un’auto nuova posso fare diecimila chilometri in taxi: basterebbero per gli spostamenti degli ultimi anni della vita.

Tanto non voglio più andare in vacanza, la sola parola mi inorridisce visto che associo essere vacante a essere mentalmente assente. Se mi riuscirà di andare in pensione voglio partire per il giro del mondo, evitando l’alta stagione, i luoghi turistici e i pellegrinaggi. Vagare (non vacare) su strade sconosciute e impervie, come lo sono sempre, metaforicamente, quelle della vita.

Non voglio più fare visite mediche né analisi: non voglio curarmi per morire sana. Negli ultimi trent’anni mi sono cibata bene e con gioia, ho smesso di fumare e di bere, a parte l’occasionale bicchiere di vino, ho fatto la giusta attività fisica e raggiunto il corretto atteggiamento mentale nei confronti della salute e della malattia. Voglio avere il coraggio di andare a morire sola in qualche luogo tranquillo, come gli indiani a Varanasi, e che le mie ceneri vengano sparse, se non nel Gange, almeno nel torrente del mio paese!

Ecco, mi sono fatta prendere la mano, mi succede quando bevo un bicchiere di troppo, ma in ufficio hanno insistito per fare un brindisi al mio compleanno ‘tondo’.
Ho esagerato un po’… È vero che non voglio più aggiungere oggetti a quanto già possiedo, ma l’alloggio per ora me lo tengo. I ragazzi avranno tempo di rovinarlo o venderlo quando lo erediteranno: i trentenni di adesso sono ancora così immaturi. E nell’estate vado qualche giorno in quell’alberghetto di montagna dove posso riposarmi e spegnere i pensieri, vacare, appunto. L’automobile mi serve per andare al lavoro col maltempo (quando i reumatismi si fanno sentire) e a fare la spesa. Speriamo che duri ancora fino alla pensione, se riesco ad arrivarci.

Ma dal medico non ci vado più: l’ultima volta mi ha prescritto una sfilza di analisi fastidiose, che mi hanno solo messo l’ansia su quel bozzo che è spuntato nella schiena, ma che con abiti comodi non si vede. Se mi ammalerò prima della pensione, vorrà dire che non partirò per il giro del mondo: ho lasciato scritto che voglio davvero far spargere le ceneri nel torrente.

Questi sessant’anni sono stati lunghi e intensi, sono pronta anche subito ad andare… Beh, magari non all’altro mondo, ora anche solo a togliermi la camicetta del lavoro, indossare il caffetano new age e sistemarmi in terrazzo a guardare il fiume scorrere. In quelle stesse acque, fra qualche anno, passerà una parte di me…

(Disegno di Cinzia Ghigliano)

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