Il segreto della casa vecchia

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MANUELA ZANOTTI

Giorgio era un ragazzino intelligente e curioso, persino smanioso di conoscere ed esplorare i luoghi di mezza montagna dove tutte le estati andava in villeggiatura dai nonni, di farsi raccontare dagli anziani la storia delle Guerre del sale e delle antiche vie che portavano al mare.
Quell’estate, Giorgio aveva appena terminato la prima media ed era in quell’età in cui fantasia e realtà, storia e leggenda riescono a fondersi, aiutati ancora per poco dal gioco.
Il Castel era uno dei luoghi più stimolanti per un ragazzino in cerca di avventure, com’era tra boschi e ruderi di antiche torri e castelli.
La casa dei nonni materni era una di quelle ville un po’ pretenziose sorte negli anni ’70 in luoghi deputati alla villeggiatura di famiglie benestanti se non agiate, residenti in città, ma con qualche lontana radice tra quei monti. Poco lontano, su una sorta di sperone a sentinella di una valle, sorgeva un paese antico, centro di quelle che erano state le Guerre del sale. Lì Giorgio con i cugini si era fatto una vera banda di amici.
Faceva anche il chierichetto,  e tutte le domeniche dava una mano a Don Luigi in chiesa. Al Castel c’era una cappella succursale, chiesa antica, ma completamente rifatta nel ’700.
Ad attirare la viva curiosità del ragazzo era piuttosto la  chiesa parrocchiale del capoluogo, con i suoi angoli bui, gli altari laterali sormontati da foschi quadri barocchi con anime purganti e santi con gli strumenti del loro martirio. Giorgio era attratto da quegli oggetti ormai dimenticati dalla vita moderna che però un tempo avevano avuto il loro posto d’onore ed ora spuntavano dall’ombra in maniera misteriosa, suscitando curiosità ed inquietudine. Erano teschi tra marmoree volute barocche, strani motti latini scritti su cartigli svolazzanti, scuri mobili di sacrestia dai quali uscivano antichi paramenti di seta scolorita, lunghi bastoni con i simboli della passione, chiamati misteri, e poi quella statua strana, relegata, chissà perché, in sacrestia. Era una Madonna con Bambino, almeno all’apparenza, scura in volto come i mobili tra i quali forse da secoli viveva; ma era strana, enigmatica, con uno sguardo che da qualunque parte la si guardasse, mai fissava negli occhi, e il Gesù Bambino, piccolissimo,  era raccolto con lei in un abito d’oro, svasato e recante strani disegni di stelle e di vegetali, che pareva avvolgerli entrambi, seppur avessero sguardi assenti e lontani persino tra loro.

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In quei giorni di vacanza, i televisori della grande villa tacevano e i giochi elettronici dei cugini restavano dimenticati nelle loro camere. La sera, le loro voci e quelle degli amici si confondevano con il canto dei grilli e delle cicale, ed era un correre su e giù per la via dove sorgevano le ville fino alla piazzetta con la cappella di Sant’Anna. A volte, le loro voci, con una certa preoccupazione di zie e nonne, si perdevano in angoli bui punteggiati di lucciole, verso l’ oscuro sprofondare della valle.
Altre volte, i ragazzi percorrevano quei due chilometri di strada fino al paese, simile ad una piccola nave illuminata sulla cresta di un’onda, o un porto nella notte.
Un giorno, lo Zio Gian, cugino della madre, aveva accompagnato Giorgio, Marco e Federica fino alla casa dove aveva abitato la nonna da giovane.
Era, questa, una casa antica, massiccia, posta come a guardia sulla diramazione di una strada sterrata ed ormai poco frequentata che un tempo era stata una delle vie carovaniere verso la Riviera. Pareva che a fine Seicento la vecchia casa fortificata fosse stata una delle sedi dei rivoltosi delle Guerre del sale che avevano visto quei fieri montanari combattere contro i Duchi di Savoia per difendere i propri antichi diritti.
Il Nonno, ingegnere in pensione, appassionato di storia locale, aveva mostrato a Giorgio i molti libri che parlavano di queste guerre, tutti gelosamente conservati nelle librerie di mogano. Ma lo Zio Gian li aveva portati a vedere con i propri occhi quei luoghi di memorie lontane. Così, con una mezz’oretta di cammino lungo una strada tra i boschi, avevano raggiunto la vecchia casa e Gian aveva mostrato l’architrave che portava rovesciato lo stemma dei Savoia in segno di dispregio e poco più avanti, sepolti tra la vegetazione, altri vecchi ruderi e tra questi l’altoforno dove i rivoltosi fondevano le armi.
“Questo era il Castlet, luogo dove i montagnini avevano resistito più a lungo. Poi le case sono state incendiate dalle truppe dei Savoia, ma la Casa Vecchia aveva resistito alle fiamme, anche se per parecchi decenni non avevano potuto ricostruire le volte in muratura…”
Ai due cugini, più piccoli, di quella visita erano restati più impressi i vecchi attrezzi e le suppellettili lasciate lì, che le memorie storiche; oltre alla grossa chiave di ferro forgiato che apriva la porta ben oliata sui cardini. Era chiaro che i nonni non avessero abbandonato la Casa Vecchia, e il fienile ancora conservava parte del fieno dell’anno passato e in basso stavano galline e conigli che Berto, il garzone che teneva il bel giardino della villa, saliva tutti i giorni con l’Ape ad accudirli, per poi scendere alla villa con uova fresche e, a volte,  un coniglio pronto per essere messo in pentola.
Da quel giorno, la Casa Vecchia era diventata il luogo di gioco dei tre cugini che a volte portavano su qualche amico, ma solo i più fidati, come Andrea, il figlio del sindaco, o Antonella, amica inseparabile di Federica.
Salivano a piedi o, più spesso si sistemavano sul pianale dell’Ape di Berto. Era bello farsi portare seduti tra vecchie ceste di vimini, falci e cordami. Quegli attrezzi evocavano rivolte contadine e vecchie consuetudini, come i racconti di Berto, che parlavano di masche (streghe) e di servan (silvani), di eroi contadini, soldati napoleonici e partigiani. Un pomeriggio avevano aiutato Berto a raccogliere il fieno e metterlo dentro il fienile, ma, soprattutto, la Casa Vecchia era diventata luogo di gioco per Giorgio e la sua banda, che si erano costruiti dei finti archibugi, si erano bardati come nel Seicento, prendendo vecchi abiti dagli armadi, fingendosi rivoltosi. Era un gioco in cui rari villeggianti diventavano viandanti o pellegrini; a volte di lì passavano dei turisti con i cavalli del maneggio, e li avevano fermati chiedendo il lasciapassare, arrivando persino a stamparli a caratteri antichi, usando carta spessa ed invecchiata. Per tanti giorni, con i loro archibugi e le falci ben affilate avevano atteso, invano, le truppe di Don Gabriel di Savoia.
Il gioco era durato fino alla festa di Sant’Anna, quando a catalizzare l’attenzione dei ragazzi era stata la cappella della borgata, con i vari festeggiamenti e le cene in piazza. C’erano anche stati i fuochi d’artificio che nel piccolo avrebbero preceduto quelli dell’Assunta in paese. E poi erano arrivati i rispettivi genitori per fermarsi qualche giorno. Il barbecue aveva trattenuto i ragazzi alla villa per diverse sere, poi qualcuno era partito con i genitori per il mare, i villaggi vacanza, gli alberghi prenotati su Internet.
E la “rete” si era ripresa i giovani rivoltosi, esiliandoli, non nel Vercellese, ma nei suoi mondi virtuali.

I cugini erano partiti, ma Giorgio non aveva smesso di pensare alla Casa Vecchia, non più, però come ad un luogo di gioco. Ora la curiosità si era fissata sul cassetto di un comò chiuso a chiave, lassù in una delle silenziose stanze della vecchia casa. Aveva pure scoperto dove la nonna teneva la chiave ed aveva una mezza idea di cosa potesse essere così gelosamente conservato.
Lì, in quel cassetto, aveva sentito dai discorsi degli adulti, c’era il nero dello Zio Giovanni e, forse, anche quello di Papà. Cosa fosse questo nero in quel momento a cavallo tra l’infanzia e l’adolescenza restava sospeso in un limbo che comprendeva anche i cassetti segreti e proibiti del mobile della sacrestia, i vecchi tabernacoli, le strane iscrizioni latine tra i riccioli di marmo e le testine d’angelo…o piuttosto qualcosa di più nero, come i teschi sull’altare delle Anime purganti o il vecchio foglio semi cancellato restato accanto alla grata di uno degli scuri confessionali: “Anima ingrata, per te sì tanto soffersi, e non ti duol, né ti compungi?“.
Qualcosa di nero  che volentieri andava a sconfinare nel soprannaturale e nell’occulto. Se i racconti sulle Masche di Berto erano chiaramente leggende, leggenda non erano ciò che Zio Pier, col permesso del parroco, una volta gli aveva mostrato tra i fogli ingialliti conservati nella vecchia sacrestia. Con un linguaggio strano ed ampolloso la vecchia carta parlava di una certa “Madalena Polliano di anni 18 liberata dal Demonio per intervento del Signor Vescovo e del santo Padre de’ Gesuiti…”, degli “strepiti et voci gridate dalla povera figlia, fino alle lettere che comparivano dentro gli occhi dell’ossessa…”
Oppure il nero assumeva un significato più prosaico e casalingo, comunque qualche segreto di famiglia da tenere ben nascosto.
Che lo zio Giovanni in passato fosse stato in prigione? O lì erano conservate le lettere di sue presunte amanti?

Un giorno che i Nonni erano dovuti scendere in città fu il momento giusto per togliersi il sassolino dalla scarpa.
Il cancello della villa si era appena chiuso alle spalle dell’Audi del nonno che Giorgio già era corso a prendere la piccola chiave di ferro dentro la scatola di porcellana di Capodimonte. Se la mise in tasca, poi partì con Berto che saliva come sempre a dar da mangiare a galline e conigli. Berto, ovviamente, non sospettava nulla, tante erano state le volte che i ragazzi salivano con lui.
Quel giorno, però, la strada sembrò più lunga e si sentiva nell’aria un vento diverso, che sapeva quasi di mare. Come sempre la Casa Vecchia apparve a sentinella sulla strada che scendeva verso valle tra i castagni, e lo sterrato che saliva verso la montagna.
Le rosse ciliegie erano ormai scomparse e i meli e i peri cominciavano a caricarsi di pesanti frutti maturi. L’aria di mare sembrava risalire dal verde fondovalle e pesanti nuvole addensarsi sui monti.
Salì su nella vecchia camera, prese la chiave e l’avvicinò alla serratura. Era quella giusta! In un attimo il cassetto si aprì mostrando sotto una leggera coperta di piquet  ingiallito una serie di fascicoli di cartoncino tenuti chiusi da elastici. Ne prese una, ma l’elastico si spezzò e dalla cartella uscirono decine di fogli piuttosto nuovi che caddero a pioggia sulle vecchie mattonelle di cemento a disegni geometrici. Li raccolse deluso: erano solo conti, noiosissimi conti! Nulla di strano, di arcano, di curioso o di compromettente. Guardò velocemente le altre, ma erano solo cartelle di stupidi conti! Cercò di mettere tutto a posto che non si accorgessero dell’intrusione…
Un quinterno era finito sotto il vecchio letto dalla trapunta double face giallo oro e granata. Si chinò a raccoglierlo tra la polvere e la ‘lana’ che si era raccolta sul vecchio pavimento. Si sentiva un forte odore di polvere e di naftalina.
I fogli erano scritti a caratteri cirillici…che lo Zio Giovanni avesse contratto in gioventù rapporti con il KGB? O con la mafia russa?
C’era una data, 03-01-1995: che combinazione, lo stesso giorno che era nato lui! Sotto, un timbro del consolato d’Italia a Mosca, come in una spy story…
Riconobbe la firma di suo padre…allora era stato Papà ad aver avuto rapporti col KGB o con la mafia russa! Sì che aveva una grande impresa di impianti di allarme…che si trattasse di un contratto commerciale nientemeno con lo Zar Putin? O forse, allora, nel 1995, Putin non c’era ancora, forse suo padre era stato amico di Gorbaciov o di Eltsin…
In calce c’era pure la firma timida di sua madre…ma come poteva essere in Russia a concludere affari commerciali, quando doveva essere in ospedale a Milano a partorirlo? Ma anche suo padre, andare a fare affari all’estero quando stava per nascere il suo unico figlio!
Pensò se lo zio Pier conoscesse il russo: di lingue ne conosceva un fracco perché lavorava nello studio di un avvocato, ma forse non il russo. Poi era uno di famiglia ed essendo cugino primo di Mamma poteva essere coinvolto anche lui. Poteva tradurlo con ‘google’ ma forse il suo portatile lì non aveva campo: che se ne facevano di internet le galline e i conigli?
Intanto sarebbe dovuto tornare: non poteva rischiare di portarsi dietro quel quinterno di carta spessa formato protocollo, neppure nascondendolo sotto la maglia. Intanto oltre le vecchie tende di nylon e i vetri malfermi della piccola finestra si sentiva un temporale in arrivo, il sole era andato via e i castagni si agitavano al vento. Presto Berto l’avrebbe chiamato per tornare a casa.
Poi sotto notò un altro foglio: questo era in italiano. Lesse e gli si annebbiò la vista…

“CERTIFICATO DI ADOZIONE…Giorgio Viktor Gimondo, di sesso maschile, nato il 3 gennaio 1995 alle ore 05 a Stepnogorsk, CSI, …si certifica l’ingresso in Italia del bambino…”

Da fuori, il rumore del temporale sempre più vicino come i richiami di Berto. Ma quel che Giorgio aveva letto era bastato per cambiargli la vita. Rimise tutto a posto, richiuse il cassetto, mise la chiave nella tasca dei pantaloni di tela e scese giù per le ripide scale.
Aiutò Berto a caricare delle ceste e poi, insieme, s’incamminarono verso casa, mentre il temporale si stava avvicinando sempre più, con le chiome dei castagni che sembravano anime in pena.
“Stavolta qui tempesta (grandina)!” disse Berto tra i denti. “Il tempo è diventato cattivo come la gente!”
Arrivarono a casa che il temporale scoppiò con tutta la sua violenza. Giorgio entrato in casa, corse a rimettere la chiave nella sua scatola, poi andò a farsi la doccia per lavare via quell’odore insistente di polvere, lana vecchia, carta e naftalina.
I nonni, al loro ritorno, lo trovarono lavato e cambiato seduto in soggiorno a leggere.
“Ma che bravo…sei un giovanotto, ormai!”
Giorgio non corse più alla Casa Vecchia, neppure quando i cugini tornarono dal mare. Era cambiato, era maturato dicevano i nonni, vedendolo così giudizioso e serio. Non correva più, né usciva a giocare con i cugini, ma intorno a quell’età si cambia, a volte repentinamente, così ragionavano.

Ora Giorgio sempre più ‘navigava’ su internet.
Aveva scoperto che nell’allora Comunità degli Stati Indipendenti, a metà, temporale, fra Unione sovietica e Russia c’erano ben due Stepnogorsk. La prima era in Ucraina ma era stata abbandonata nel 1986 dopo l’incidente di Cernobyl. Restava quindi quella in Asia, tra Siberia e Kazakistan, anzi, ormai in Kazakistan, in una landa desolata tra vecchi impianti militari sovietici, cupi ricordi della guerra fredda…
Forse avrebbero atteso i 18 anni per dirgli la verità, ma intanto l’infanzia e la spensieratezza se n’erano andate via per sempre.