Essere e non essere Bach

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GABRIELLA MONGARDI.

“Un Bach che non avete mai visto” è il sottotitolo della terza edizione del Festival “Back TO Bach”, che ha fatto tappa anche a Mondovì, lunedì 20 novembre, con un concerto del Maghini Consort cui ha partecipato anche il Coro delle Voci Bianche e Coro Giovanile della Scuola Comunale di Musica di Mondovì. In programma “Bach trascrittore”, cioè un Bach che è e non è Bach – come spiega il maestro Chiavazza, direttore artistico del Festival e direttore del Maghini Consort, introducendo la serata, che propone il salmo 51, BWV 1083, tratto dallo Stabat Mater di Pergolesi e la Missa brevis in do minore di Durante – Bach.

La trascrizione musicale di Bach è una vera e propria ricreazione dei capolavori dei due compositori italiani: nel caso dello Stabat Mater, Bach non solo sostituisce il testo della preghiera di Jacopone da Todi musicata da Pergolesi con il testo tedesco del Miserere, ma interviene anche sulla partitura, cambiando le voci soliste e la viola; anche di fronte alla messa di Durante effettua modifiche con grande libertà, componendo addirittura un Kyrie di suo pugno.

Il risultato è un Bach più che mai gigante, che nutre la sua sapienza contrappuntistica con la cantabilità melodica italiana: un ritmo sublimemente  scandito sorregge un raffinato linguaggio armonico, in cui si intrecciano le voci degli strumenti e dei solisti, e la musica si dispiega in tutta la sua pienezza, potenza e dolcezza, con la massima naturalezza, grazie alla bravura degli interpreti.

Nel primo brano si ha quasi l’impressione che la musica tenda a svincolarsi dal testo, a imporgli la sua consolazione metafisica: se all’inizio i bassi dipingono lo sfondo cupo di dolore da cui si innalza l’invocazione alla pietà divina, nelle strofe successive la musica si rischiara, si apre alla speranza ben prima del testo – si crea quasi un contrasto tra parole e note…

Nel secondo brano, invece, il rapporto tra testo liturgico e musica è di trasfigurazione, dilatazione, potenziamento: le singole parole vengono sottolineate, esaltate, acquistano durata e consistenza grazie al gioco polifonico, davvero inebriante, in cui finiscono per dissolversi. E viene spontaneo domandarsi se non sia più giusto così: se le preghiere non siano in fondo che un atto di superbia, e se quello che conta veramente non siano le parole in sé, il significato che noi vi attribuiamo, ma solo il loro suono – che la musica risucchia e disperde nell’aria, dopo averlo ingigantito. Come l’ombra di un uomo proiettata dal sole di montagna sulla nebbia della valle, espansa ed evanescente come nebbia.