Francesco Granatiero. Mattinata è un orizzonte sui mondi

Dipinto a olio di Francesco Granatiero

Dipinto a olio di Francesco Granatiero

FRANCESCO GRANATIERO

Cíle
Da qui si doveva cominciare: il cielo.
WISŁAWA SZYMBORSKA, La fine e l’inizio

Lustre o scurde, vacande,
tu nne ste’ sckitte ngíle
ca tuttecòuse ammande
e trapaniscjë, oi cíle.

Càlete o fridde, mbile
la crone che me ngande
e ngúrpe cigghie, file
che ndramiscje lu mande

lu munne e maravigghië
e mittë ngròuce, funne
senza funne che sfunne

de gningòuse li ndrigghie,
ca l’àneme t’afferre,
oue crisce, sottaterre.

Cielo. Luminoso o scuro, vuoto,/ tu non stai solo in cielo,/ ché tutto ammanti/ e penetri, o cielo.// Caldo o freddo, infili/ la cruna che m’incanta/ e in corpo germogli e duoli, filo/ che trami il manto// del mondo e meravigli/ e metti in croce, fondo/ senza fondo che sfondi// di ogni cosa le viscere,/ ché l’anima ti afferra,/ dove cresci, sottoterra.

***
Mamme stève ngíle

Quédda rote tagghiete
cóndre lu pítte, affore
affore feddeiete
pla sferre a chiecatòrë…

na fedde a cquédda sore,
n’atune a ccussu frete,
po vune a mmè m’acchete
e vunë a u tagghiatòre:

l’attene ch’a u pendòne
i fechedìnie ammónne
e mborsce une pedune,

chemborme plu taccòne
gnedune ce l’attónne
tanda ggire e nn’atune…

Nostra madre era in cielo. Quella ruota tagliata/ contro il petto, da parte/ a parte affettata/ con la lama a serramanico…// una fetta a mia sorella,/ un’altra a mio fratello,/ poi una a me mi tocca/ e una al tagliatore:// il padre che al podere/ i fichi d’India sbuccia/ e porge uno ciascuno,// mentre con il pane/ ognuno se li pappa/ tanti giri più uno…

Foto di Antonio Lupoli, Mattinata da Monte Saraceno

Foto di Antonio Lupoli, Mattinata da Monte Saraceno

Intervista a Francesco Granatiero a cura di Nicola Duberti

Tu sei medico, poeta, lessicografo, dialettologo, artista figurativo, critico letterario… Ha ragione Montale quando dice che occorrono troppe vite per farne una?
– Fin da piccolo avevo la passione per il presepio che facevo e disfacevo dall’Immacolata all’Epifania e per la pittura che in prima media mi guadagnò l’appellativo di Giottino da parte dell’insegnante di disegno e che ho a malincuore abbandonato nella maturità. Ma la memoria che più segnerà la mia ricerca poetica sarà il lavoro dei campi – spesso fatica – a cui sono stato sottoposto fin dall’età di sette anni. Montale ha ragione anche per ciò che potrei fargli dire, e cioè che occorrono troppe vite altrui per fare la nostra, in senso sociale e in senso culturale, a partire dalla famiglia per finire con la poesia e la letteratura: e certo la perdita della madre a quindici anni ha acuito il senso di insoddisfazione proprio della mia indole.

I critici letterari che si sono occupati di te sono moltissimi. Basta dare un’occhiata alla bibliografia critica che si trova nel tuo sito Poesia e dialetti. Spesso molti dei critici che hanno scritto su di te sono anche, a loro volta, poeti in proprio. Penso a Donatella Bisutti, autrice del fortunato libro “La poesia salva la vita”, o a Giovanni Tesio, che ha recentemente pubblicato una splendida raccolta di sonetti in piemontese. Oppure a Franco Loi, che prima di tutto è un grande poeta in lingua milanese. Non è un po’ particolare che ad interessarsi di te siano critici poeti? Come te lo spieghi?
– Non so se è proprio così. Franco Brevini, Pietro Gibellini, Franco Pappalardo La Rosa, Donato Valli, per fare dei nomi, sono dei critici puri. Ma se la tua affermazione è fondata, essa può trovare una giustificazione nelle parole di Giovanni Tesio, il critico-poeta che mi ha tenuto a battesimo e che, oltre a essere il mio massimo esegeta, è anche colui che ha scritto di più sulla mia poesia: «Per conto mio non cesso di indagare nell’ombra di una inevitabile simbiosi, di un’alleanza segreta e non vergognosa, di un inseguimento che non conosce cattura» (in Prefatine, Mondovì, Ijbabicheucc, 1989, p. 11).

La storia letteraria, come quella civile, non si fa con i “se”. Però mi viene spontaneo chiederti, un po’ stupidamente: avresti usato il pugliese per scrivere se fossi rimasto a Mattinata? Oppure l’urgenza di usare questo codice si è fatta più intensa grazie alla distanza?
–Avevo già usato la scrittura dialettale nell’adolescenza, prima di lasciare il paese, ma solo per alcune composizioni di carattere parodico. Molto probabilmente il timore della scomparsa dei dialetti e il tramontare dell’antica civiltà contadina avrebbero agito anche a Mattinata, ma non così precocemente. Basti pensare che i poeti dialettali residenti nel Gargano, sebbene venti (Serricchio) o trent’anni (Capuano) più grandi di me, cominciarono a scrivere in dialetto rispettivamente ventiedieci anni dopo il mio All’acchjitte (“Al riparo dal vento”, 1976). Alla poesia in dialetto sono stato “chiamato” dopo un decennio di poesia in lingua, durante un periodo di profonda crisi poetica ed esistenziale (scrivevo a mia madre morta in una lingua diversa dalla sua), e la distanza vi ha contribuito in maniera determinante.

Che cos’è per te Mattinata?
– Mattinata è il mondo della mia infanzia e della mia adolescenza, che non coincide necessariamente con il luogo geografico: il dialetto della mia poesia è divenuto esso stesso luogo in cui vivere, la terra dove sono sepolti i miei morti. In questo senso da Mattinata io non mi sono mai allontanato. La nostalgia – se di nostalgia si tratta – non è per il mio paese, ma per un altrove che corrisponde a un qualcosa come il duplice regno di cui parla Rilke.

Spesso la tua poesia ha un’ispirazione apparentemente antropologica, quasi etnografica: parte da immagini legate a riti agricoli, ad abitudini contadine che penso siano ormai abbandonate anche a Mattinata. In realtà, tutto questo si riveste di una dimensione mitica, epica, da cui si esce ipnotizzati e letteralmente esterrefatti. Sembra che nel passato ancestrale a cui attinge il tuo immaginario ci sia un’ambivalenza di fondo: il lato neutro, diurno, né buono né cattivo, viene messo in evidenza attraverso i tuoi lavori lessicografici ed etnolinguistici. Ma l’altro lato, che a me ricorda la dimensione ctonia dei miti greci, riemerge con una tracotanza omerica nelle tue poesie: e anche quello non è né buono né cattivo, ma è terribile come i miti dionisiaci. È così o è un mio fraintendimento?
– La civiltà contadina a cui fa riferimento la mia poesia è stata da me realmente vissuta ed è morta negli anni Sessanta del secolo scorso. Essa è materia propria, imprescindibile documento dei miei lavori linguistici ed etnografici, legata in gran parte a mio padre, prima fonte intervistata per la grammatica storica (1987) e il dizionario del mio dialetto (1993), e ultimo stadio – quello della piena consapevolezza – dell’acquisizione della lingua di cui mi sono nutrito fin dalla nascita; ma semplice strato superficiale, umile crosta della tellurica essenza legata alla ricerca poetica, allo scavo psicologico – che è anche antropologico e mitico –nel rapporto con il padre autoritario e nell’assenza della madre o nella distanza dalla madre terra, in cui la parole resta sepolta o seminata. Certo il mito ha la sua parte e la catabasi poetica è drammaticamente legata a Dioniso, al suo scendere nell’Ade.

Che rapporto hai con il piemontese?
– Puramente letterario. Ne conosco la scrittura e lo leggo in maniera disinvolta.

Tu hai proposto, in Altro volgare (Milano, La Vita Felice, 2015), una grafia unitaria per i dialetti alto-meridionali. Vuoi spiegare meglio ai lettori di Margutte di che cosa si tratta e per quale ragione hai fatto questa proposta (che io personalmente condivido)?
– Ho sempre cercato da una parte di semplificare al massimo, nel rispetto della pronuncia, la trascrizione degli studi dialettologici e dall’altra di scrivere con una grafia precisa il testo delle poesie, cercando di restituire al dialetto sempre la sua dignità di lingua. Ogni dialetto ce l’ha, senza la necessità di doversi chiamare lingua. Ma che lingua è lo stesso napoletano – secondo l’Unesco seconda lingua d’Italia – se poi ogni autore lo scrive a modo suo e sul web viene addirittura scritto senza le vocali atone? Purtroppo ognuno crede di conoscere bene il proprio dialetto solo perché lo parla. Ma una cosa è parlarlo e una è averne la consapevolezza linguistica.
Altro volgare è un volgare diverso rispetto al volgare toscano da cui si è formato l’italiano e, precisamente, il volgare che si parla nella macroregione composta da Lazio meridionale, Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Lucania, Calabria settentrionale, grosso modo corrispondente al vecchio Regno di Napoli e linguisticamente caratterizzata dalla cosiddetta e muta. La mia proposta è quella di scrivere ogni singolo dialetto dell’area, rispettando la sua fonetica, con un sistema di scrittura unitario, che faccia a meno di strani segni diacritici e che presenti una corrispondenza biunivoca tra fonema e grafema. La proposta è accompagnata da un’antologia dei poeti più rappresentativi (come De Titta, D’Annunzio, Pierro, Gatti) di tutta l’area – ad eccezione di Napoli, la cui lingua ha già una sua lunga e consolidata tradizione – trascritti secondo la grafia DAM (Dialetti Alto Meridionali) ricavata dall’esempio degli autori (verificato con le giuste fonti dialettofone) e sfruttando alcuni tratti linguistici tipici dell’area.

Perché la Szymborska è così importante?
– Sono giunto a lei attraverso lo studio della lingua polacca. Il suo limpido coniugare scienza e poesia può allargare l’orizzonte di una ricerca poetica anche dialettale. In lei ho subito ammirato la felice, ritrovata coincidenza di significante e significato. A parte la sua affabile ironia, di cui probabilmente non sarò mai capace, vi ho trovato più di una consonanza con la mia laica religiosità, un riscontro alla mia conquista di luce ctonia, una sintonia con lo stupore della sua parola, che forse potrebbe giovare allo smarrimento del puer della mia interiorità.

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La carriera poetica di Francesco Granatiero è da brividi. Inizia a pubblicare, nel dialetto di Mattinata in provincia di Foggia, fin dalla metà degli anni Settanta.  Anzi, quarant’anni fa esatti.  All’acchjitte [Al riparo dal vento], infatti, è del 1976 (Torino, Italscambi). Seguono: U iréne [Il grano]. Poesie in dialetto pugliese, con la presentazione di Giovanni Tesio, pubblicato a Roma da Mario dell’Arco (1983); La préte de Bbacucche [La pietra di Bacucco], poemetto con introduzione di Giovanni Tesio pubblicato a Mondovì da «Ijbabicheucc» nel 1986; Rume [Ruminazione], a cura di Maria Jatosti, F. Paolo Memmo e Achille Serrao, «Poesia in piego» 29, Roma, S/Oggetto Tre, 1992; Énece [Nidiandolo], con prefazione di Pietro Gibellini, n. 3 della Collezione di poeti dialettali diretta da Amedeo Giacomini, Franco Loi e Giovanni Tesio, edito a Udine nel 1994 per i tipi di Campanotto; Iréve [Voragine], Monte Sant’Angelo, Comunità Montana del Gargano, 1995;  Una fanóje [Un solo falò]. Cinque poesie nel dialetto garganico di Mattinata, Torino 1995;  Sckundatòure [Olive sparse], Mattinata 1995;  L’endice la grava, prefazione di Cosma Siani, Mattinata 1997; Scuérzele [Spoglia]. Poesie garganiche di Mattinata, prefazione di Donato Valli e postfazione di Achille Serrao, Roma, Cofine, 2002; Bbommine [Fiori d’asfodelo / Bambino], prefazione di Franco Pappalardo La Rosa, Novi Ligure, Joker, 2006; Passéte [Passato / Usta], con nota critica di Giovanni Tesio, Novara, Interlinea, 2008; La chiéve de l’úrte [La chiave dell’orto], con nota critica di Giovanni Tesio, Novara, Interlinea, 2011, che nel 2016 ha vinto il premio internazionale di poesia “Europa in versi”. C’è poi nella sua storia artistica un’intensa attività di traduzione, in particolare dalla prediletta poetessa polacca Wisława Szymborska, e una mai del tutto interrotta consuetudine con la pittura. Ma la singolarità del percorso di Granatiero è che nella sua personalità intellettuale si fondono la dimensione più propriamente artistica e creativa e quella, apparentemente distante, di seria e costante ricerca scientifica. Granatiero è infatti appassionato studioso del suo dialetto di Mattinata (lo stesso che usa per scrivere le poesie), ma anche dei dialetti della Capitanata e delle varietà alto-meridionali in genere, per le quali ha anche recentemente proposto (Altro volgare, Milano 2015) una grafia unitaria. Tra le sue numerose opere dialettologiche va certamente ricordato, anche ad un pubblico non specialista, il monumentale Vocabolario dei dialetti garganici (Foggia, Granzi 2012).

Francesco Granatiero (che nella sua vita quotidiana è anche medico…) è stato da sempre al centro delle attenzioni da parte dei critici letterari che si sono occupati della produzione poetica in dialetto – e non solo. Un’occhiata alle sue poesie – di cui qui presentiamo qualche saggio inedito che gentilmente ha voluto regalarci in anteprima – spiega senza ulteriori parole il motivo di un simile, precoce e intensissimo interesse critico. Chi poi, fra i lettori di Margutte, voglia proseguire io viaggio di cui qui si presenta solo un teaser, non ha che da seguire il link https://fgranatiero.wordpress.com/. L’intensità è garantita.

(A cura di Nicola Duberti)