L’Albania di Hoxha: una offesa insanabile?

MICHELE BRONDINO – YVONNE FRACASSETTI
Paese balcanico a soli 70 km dalle coste italiane, l’ Albania si è imposta all’attenzione degli italiani negli anni novanta con le sconvolgenti ondate migratorie degli albanesi in cerca di libertà e speranza di una vita migliore: l’Italia era LAMERICA come il regista G. Amelio l’ha ben descritta nel suo film. Oggi, circa 500.000 albanesi sono integrati nella nostra società mentre l’Albania è in pieno rilancio economico, sociale e culturale.
Cosa era dunque successo in Albania, paese fino agli anni ottanta sconosciuto e misterioso, che si vantava di essere l’unico paese della dittatura del proletariato, paese inaccessibile allo straniero?
Per due anni nel 1982-1984, noi abbiamo avuto l’occasione, più unica che rara, di vivere questa esperienza del “lager rosso” messo su da Enver Hoxha, poiché siamo stati inviati dal governo italiano per aprire i rapporti culturali con l’Albania, prima d’allora inesistenti. In quegli anni, il sistema Albania ermetico, chiuso al mondo, è in piena crisi e sente il bisogno di uscire dall’isolamento. L’Italia coglie i primi segnali di crisi e avvia le procedure per instaurare rapporti culturali. Per attutire il colpo di questa prima apertura dell’Albania al mondo, il nostro insediamento quale Addetto culturale è subordinato da parte del regime ad una condizione di grande effetto simbolico: la restituzione all’Albania, da parte dell’Italia, della testa della Dea di Butrinto, scultura trafugata durante l’occupazione fascista e regalata a Mussolini.

La Dea di Butrinto, I sec a. C.

La Dea di Butrinto, I sec a. C.

Eravamo in posizione privilegiata: lo status diplomatico ci proteggeva, l’unico rischio grave era l’espulsione immediata dal paese. Ovviamente c’erano molti limiti alla nostra vita quotidiana, come l’impossibilità di mandare i nostri figli nelle scuole albanesi, il non poter frequentare gli albanesi, ecc., il più duro era però il sentimento di essere “liberi” in una gabbia di ferro. L’Albania comunista ci apparve come un enorme campo di lavoro di forzati dove l’umanità si perdeva nella fatica bestiale del lavoro fisico e nell’abbrutimento morale.
L’impatto fu impressionante. La prima immagine dello scenario che si spalancò ai nostri occhi fu , al posto di frontiera con l’ex Jugoslavia, un cancello di filo spinato elettrificato che un soldato armato di Kalashnikov con la stella rossa sul berretto, aprì e chiuse, lasciandoci interdetti e alquanto sgomenti: eravamo entrati nella fortezza Albania! Le fotografie che riuscimmo a scattare furono tutte “rubate”, fatte di nascosto a nostro rischio e pericolo.
Scoprimmo un mondo rurale dove la strada apparteneva all’uomo e agli animali, dove non esistevano le macchine (circa 400 in tutto il paese, riservate alla nomenclatura e alla polizia), dove ovunque si coglieva la fatica umana di un mondo in cui non era ancora giunta la meccanizzazione: i campi brulicanti di donne che zappano la terra, di carri agricoli trainati da buoi o cavalli; per le strade, greggi, muli e asini, unici mezzi di trasporto, uomini e donne con la schiena piegata da carichi di legna, di fieno, di granoturco, bambini scalzi che ricordano gli stenti dell’ “Albero degli zoccoli”. In città, un incredibile controllo poliziesco che tiene a bada un popolo muto e terrorizzato all’idea di incappare, per una parola o uno sguardo in più, nel pugno di ferro dei “Segurimi (la polizia segreta)”. Insomma, un paese paurosamente arretrato che faceva pensare all’Italia dell’Ottocento con in meno la libertà.

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La strada tra Tirana e Durazzo nel 1982

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Contadine gravate da carichi di legna

Come si era potuto arrivare a questo nel cuore dell’Europa, in pieno XX secolo? Cosa era dunque successo in Albania, paese fino agli anni Ottanta sconosciuto e misterioso, che si vantava di essere l’unico paese della dittatura del proletariato e dell’ateismo, inaccessibile allo straniero e che si proclamava “il paese della felicità”, come affermava radio Tirana?
Ci servono alcuni dati storici per capire l’Albania di questo periodo. Li riassumiamo in tre punti essenziali:
1°) L’Albania paese sottoposto, per secoli, alla dominazione straniera e paese della resistenza identitaria allo straniero (l’albanesità): la più lunga delle dominazioni è stata quella turco-ottomana durata cinque secoli dal 1417 al 1912, anno in cui l’Albania conquista la sua indipendenza. Iniziata nel XV secolo la lotta per difendere la propria patria e la propria identità, essa viene personificata dal grande eroe nazionale, Skanderbeg, la cui statua campeggia ovunque. Poi la Francia e l’Italia intervengono in Albania durante la prima guerra mondiale. Nel dopoguerra seguono anni d’instabilità politica che finiranno con l’occupazione dell’Italia fascista (1939-43), seguita da quella nazista che terminerà il 29-11-1944 con la vittoria della Resistenza albanese, da cui emerge il Partito Comunista Albanese (PCA) di Hoxha .
Facendo appello all’amor di patria del suo popolo, Hoxha si pone come eroe nazionale alla stessa stregua di Skanderbeg, fa presa sulle masse popolari promettendo una società libera e prospera attraverso il comunismo.
2°) L’instaurazione del nazional-comunismo
Si tratta di un comunismo nazionale, basato sull’identità albanese non sull’internazionalismo comunista. Un comunismo fondato sulla dittatura del proletariato d’impronta stalinista, come dimostravano le statue di Stalin presenti nelle principali città. All’inizio, i risultati sono impressionanti. Ricordiamo un episodio che ci colpì molto allora: un vecchio albanese, partigiano nel PCA, incontrato per caso nei vicoli di Kruya, sentendoci parlare italiano, ci rivolse la parola. Cosa temeraria e proibita, ma eravamo lontani da occhi indiscreti e lui così vecchio non aveva più nulla da temere. Le sue parole furono illuminanti: “in Albania – ci disse – possiamo essere contenti. Il comunismo ci ha liberati da tre grandi flagelli: dallo straniero (ormai siamo liberi a casa nostra), dall’ignoranza (l’analfabetismo che era del 90% alla fine della guerra, era quasi scomparso), infine, dalla fame (visto che l’essenziale per la vita c’era per tutti, dal lavoro al cibo).
Ma, ovviamente una volta soddisfatti i bisogni di base, l’uomo chiede altro. Invece, l’inasprimento del regime comunista e la chiusura in ogni campo stavano portando progressivamente l’Albania, negli anni 60-70, ad un isolamento totale, in cui tutti diventano nemici Il popolo albanese ha la psicosi del nemico e il paese, per difendersi, viene disseminato di bunker.
3°) L’isolamento e l’autarchia
Infatti la storia dell’Albania del dopoguerra è una storia di rotture successive: prima con la Yugoslavia di Tito nel 1948, poi con l’URSS dopo la morte di Stalin e infine la Cina di Mao nel 1978. A partire dalla fine degli anni settanta, Hoxha impone al paese un isolamento totale con il motto “L’Albania farà da sé”, Negli anni ‘80 l’Albania è ormai un lager rosso, il popolo albanese è asservito a un regime ferreo, sottoposto ad un indottrinamento che prende l’uomo in carico dalla nascita alla morte: Hoxha proclama che “il PCA è cuore e cervello dell’Uomo Nuovo”. Tanto che persino i nomi di battesimo devono ispirarsi al modello comunista: Shpressa (speranza), Drita (luce), Perparimi (progresso. Insomma la dottrina comunista è diventata la religione che sostituisce le altre religioni: dagli anni ’60, l’Albania è un paese ufficialmente ateo con tanto di museo dell’ateismo, tutti i luoghi di culto (greco-ortodossi, musulmani e cattolici) sono stati non solo sconsacrati ma adibiti a magazzini, ecc. Una propaganda ossessionante incalza lo sguardo e la mente per inculcare la fedeltà alla patria e al partito, l’esaltazione del comunismo e del capo supremo, la forza e la resistenza dell’uomo e della donna con slogan e manifesti che ricordano chiaramente la propaganda fascista.
Così inquadrato fisicamente e mentalmente , il popolo albanese ha subito “un’offesa insanabile” , per riprendere l’espressione usata da Primo Levi quando descrive lo scoramento dei prigionieri irretiti mentre si aprono i cancelli di Auschwitz. Parliamo di offesa insanabile perché alla caduta del regime, si apre il vuoto: sono mancati quasi cinquant’anni di educazione alla cittadinanza, alla democrazia, alla libertà, al senso critico; valori e capacità indispensabili per gestire l’era nuova che si apriva, per saper ripristinare una nuova etica, per gestire la libertà, il consumo e il bene comune, per ricostruire le relazioni infrapersonali avvelenate dal sospetto e dalla paura.

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Cartello inneggiante alla donna madre e soldato

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Centinaia di migliaia di bunker sparsi per tutto il paese

Riteniamo doveroso, da una parte, divulgare le condizioni disastrose in cui si trovava l’Albania alla caduta del regime, proprio perché nessuna valutazione dell’oggi può ignorare il punto di partenza da cui si è risollevato il paese, dall’altra parte ci preme sottolineare che l’Albania di oggi, in piena ricostruzione, nonostante i molti limiti di uno sviluppo caotico e affrettato (la speculazione edilizia, la corruzione, l’anarchia generale), trasmette un entusiasmo che guarda avanti, portatore della speranza per tanti giovani privati per troppo tempo della libertà e della dignità. Per questo, dopo aver visto i progressi sbalorditivi compiuti in 20 anni, ci viene da dire: la dittatura di Hoxha è stata sì, un’offesa profonda, ma non un’ “offesa insanabile”.

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Le strade ieri…

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e oggi

nove

La capitale Tirana ieri…

undici

e oggi

Questo dinamismo e questa consapevolezza sono presenti in ogni aspetto della società odierna, anche nell’arte, come attesta la mostra di Artan Shabani (“Paesaggi riflessi”, in Santo Stefano a Mondovì dal 12 marzo al 3 aprile), giovine artista giunto in Italia insieme ad una delle prime ondate migratorie e fermatosi per 12 anni a Torino, dove si è formato e dove si è affermata la sua pittura. Oggi è il direttore della GAM (Galleria Nazionale d’Arte) di Tirana , testimone di una nuova Albania, fiduciosa nel suo avvenire e portatore di un progetto che si chiama “Albania” quando dice: “Penso che oggi l’Albania abbia bisogno di leggerezza. … noi col passato non abbiamo un buon rapporto. Dopo 20 anni di democrazia, il nostro modo di vedere il mondo è condizionato dalla democrazia dei soldi e questo vale anche per il sistema dell’arte. Oggi il mondo non ha bisogno di nuove dittature perché in realtà è già sottomesso ad un sistema del genere senza rendersene conto” (espoarte 2010).

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Michele Brondino – Storico del Mediterraneo, direttore dell’Enciclopedia del Mediterraneo (EDM, Jaca Book).
Ha pubblicato numerosi studi sull’area mediterranea, in particolare:
Algeria, paese delle rivoluzioni accelerate, Torino 1981; Colonialismo e neocolonialismo, Milano 1987; Il Grande Maghreb: mito e realtà, Milano 1988, trad. francese 1990; La stampa italiana in Tunisia. Storia e società, Milano 1999, trad. francese 2004; Il Mediterraneo vede, ascolta, scrive e Il Mediterraneo: figure e incontri (a cura di), Milano 2005, trad. francese 2009. Il Nord Africa brucia all’ombra dell’Europa, Milano, Jaca Book, 2011; Il Mediterraneo del XXI secolo: ostaggio della storia, in Le radici della razionalità critica, Mimesis, Milano, 2015.
Per le sue ricerche sul  Mediterraneo gli è stato attribuito il Premio nazionale per le Scienze Sociali dall’Accademia dei Lincei.

Yvonne Fracassetti – francesista,  è stata lettrice di italiano presso l’Università di Algeri, addetta culturale presso l’Istituto Italiano di Cultura di  Tunisi e direttrice dei servizi culturali al Consolato d’Italia a Lione poi a Nizza.
Ha pubblicato vari saggi sulle culture mediterrane, fra cui:
 Mario Scalesi, précurseur de la littérature multiculturelle au Maghreb (con A. Bannour), Publisud, Paris, 2002 ; in collaborazione con Michele Brondino: Il Mediterraneo vede, scrive, ascolta ( a cura di), Milano, Jaca Book, 2005; Il Mediterraneo: figure e incontri ( a cura di), Milano, Jaca Book, 2005; Il Nord Africa brucia all’ombra dell’Europa, Milano, Jaca Book, 2011. Albert Camus, figlio del Mediterraneo, ed Spigolatori, Mondovì, 2012; Albert Camus, Mémoire et dialogue en Méditerranée (a cura di), CNR-ISEM, Cagliari, 2015.