Celestìn

Zanotti x CelestinMANUELA ZANOTTI.

Luigina, la colf che prestava servizio presso l’avvocato Di Natale, da un po’ di tempo non voleva più stare sola alla villa, soprattutto la sera. Accadevano cose strane: nella mansarda dove si rintanava Andrea, il figlio dell’avvocato, l’impianto stereo si accendeva all’improvviso, senza che nessuno lo toccasse e dalle casse usciva un pandemonio di suoni spaccatimpani e di musica da far accapponare la pelle.

La donna, in fondo, non aveva tutti i torti: già i gusti del figlio sedicenne dell’avvocato non erano proprio da oratorio. Si può dire che amasse il genere heavy metal, ma di quello più esasperato. Già le era bastato vedere le copertine dei CD una delle poche volte che, rompendo i cartelli di divieto accompagnati da minacce di morte, aveva oltrepassato la porta che dava accesso al rifugio del ricco rampollo per darci una rassettata. Copertine con mostri orripilanti, teschi, vampiri, svastiche e croci rovesciate, stelle a cinque punte, scorpioni e serpenti, se non immagini…del Re delle Tenebre! Sì, il Demonio, non il piccolo ed innocente Babuin[1]!

E se non era lo stereo nella mansarda, c’era il quad in garage, che una volta, mentre lei v’era passata accanto, aveva acceso i fari, lampeggiando minaccioso. Le erano cadute le due bottiglie che era scesa a prendere in cantina, e non aveva chiuso occhio per due notti. Ma licenziarsi no, con lo stipendio che le davano! Certe avrebbero ucciso, pur di entrare a servizio in quella villa. E poi, con i tempi che correvano!

E per queste mascarie[2], c’era solo una soluzione, di segno opposto: Celestin dei Fré.

Il vecchio settimino[3]abitava nei boschi in una vecchia casa che sorgeva accanto ad un’antica cappella, vigile sulla minuscola borgata come una chioccia sui suoi pulcini. Due pini con le loro immense fronde verde scuro, proteggevano a loro volta quella scopà[4].

Luigina arrivò con la cinquecento fino alla chiesa parrocchiale e s’incamminò lungo la strada che portava alla piccola borgata dei Fré: quasi due chilometri serpeggianti fra boschi, prati colorati di gramigna e ranuncoli  e ruscelli gorgoglianti. Il comune aveva da poco asfaltato la strada, perché serviva più borgate, ma Luigina la fece a piedi, recitando il Rosario: da Celestin bisognava arrivare preparati! E, intanto, raccolse dei bellissimi gigli selvatici che crescevano qua e là nei prati. Poi deviò sul breve viottolo che portava al minuscolo sagrato della cappella e tirò la corda che pendeva dal piccolo campanile a vela. Due rintocchi e da una delle vecchie case uscì il vecchio assieme all’odore del fumo della stufa, anche se erano già i primi di maggio. Celestin la fece accomodare nella vecchia cucina rischiarata da una lampadina da poche candele, residuato, come il padrone di casa, di tempi ormai lontani e sicuramente pre-bellici. Doveva aver ormai oltrepassato i novant’anni, ma era vispo come un ragazzino. Aveva solo il passo un po’ più lento e non poteva più fare tanta strada.

Luigina gli raccontò tutto per filo e per segno, allora Celestin tirò fuori una chiave lunga come quella di San Pietro e la condusse nella vecchia cappella di cui era custode. Mise i gigli in un vaso di vetro sull’altare, togliendo le rose di plastica, e spostando in una posizione meno centrale un vasetto più piccolo con umili fiori di campo che avevano già lasciato piccole corolle sulla tovaglia: turchesi veroniche ed azzurri  nontiscordardimé, violetti fiorellini di malva silvestre, bottoni rosa di vedovella,  margheritine e rossi fior di trifoglio, il tutto tra vecchi candelabri di legno indorato,  cartegloria ingiallite dal tempo, e una vecchia croce. Sopra ci stava appeso un quadro che raffigurava la Madonna con Gesù bambino tra San Giacomo con la mantella e il bastone da pellegrino, San Marco con il leone accucciato come un cane ai suoi piedi e San Carlo Borromeo.

Celestin, che era una sorta di santo romito riunendo da solo il ruolo del massaro[5] ormai a vita e quello del guaritore, aprì l’anta che stava sopra ad un inginocchiatoio ormai tarlato e prese una vecchia stola violetta mettendosela sulle spalle come fa il prete quando confessa;  poi mise su una panca una decina di santini quasi fossero figure di tarocchi, la fece sedere accanto ed infine le pose le mani sulla testa recitando alcune giaculatorie. La guardava con i suoi occhi azzurri, vivi e luminosi come quelli di un bambino.

“Stai tranquilla che non hai il Diavolo addosso e neppure stai diventando matta!“ disse rincuorandola, poi aggiunse: ”E’ la casa dove tu stai che ci sono dei problemi: lì ci sta qualcuno che fa delle mascarie!”

A Luigina era quasi venuto da ridere immaginandosi l’Avvocato, che credeva solo a ciò che poteva toccare, o la moglie svampita a mettersi a fare qualche strano rito,  poi le era venuto in mente Andrea ed allora aveva capito tutto!

Celestin aveva allora tirato fuori dall’armadietto un vasetto con dell’olio e si era raccomandato di passarlo facendo delle croci su tutte le porte non solo dello scantinato e della mansarda, ma anche al resto della casa, e poi un pacchettino di sale che stava annidato sul fondo tarlato del piccolo mobile, ed infine le aveva dato un’ampollina con dell’acqua benedetta: avrebbe dovuto farla bere al ragazzo. Cosa non facile: Luigina rivedeva Andrea arrivare tutto sudato in casa, fiondarsi in cucina, aprire il frigo e scolarsi una gatorade,  una coca cola o una birra. L’acqua, forse, non la beveva mai, figuriamoci quella benedetta!

Celestin aveva subito capito, allora tirò fuori da un altro recesso dell’armadietto un vecchio aspersorio dicendole di spargere l‘acqua e poi il sale per tutte le stanze della villa aggiungendo certe preghiere che stavano scritte su un vecchio foglio ingiallito: si trattava dell’antica preghiera a san Michele che da decenni i preti non recitavano più alla fine della messa e di altre formule usate negli esorcismi.

All’uscita della cappella, il cielo si era tutto oscurato e dei tuoni spaventosi sembravano scuotere tutta la montagna. Luigina guardò il cielo preoccupata e poi la strada, lunga come un serpente. Nel punto del cielo dove il buio nembo tempestoso si stava mangiando l’azzurro, apparve una nuvola che sembrava la testa di un cavallo…

“Non aver paura, scendi recitando il Rosario, e non dimenticarti di San Grato e di passare in chiesa. E che Dio ti benedica e ti protegga!”

Nonostante le parole rassicuranti del settimino, Luigina si precipitò lungo la strada, ingarbugliando le avemarie. Il vento faceva fremere le chiome dei castagni come se fossero creature indiavolate, pettinava i prati  come velluti ricamati di gramigna; i tuoni facevano tremare la terra. Si voltò indietro a guardare lo scuro nembo e vide che il cavallo si era trasformato in un caprone con lunghissime corna. Aumentò allora la corsa e le avemarie erano ormai delle invocazioni smozzicate e strappate via dal vento.

Poi, finalmente, arrivò al pilone di San Grato. Sulla vecchia parete, dietro una rete arrugginita, si vedeva un po’ sbiadito il Santo in abiti vescovili, con in mano il piatto con la testa del Battista, ed accanto il pozzo dentro il quale si scatenava la tempesta. Recitò veloce la preghiera che le aveva dato Celestin, poi raggiunse la chiesa parrocchiale, poco lontano. Doveva andare a mettere nella cassetta delle elemosine l’offerta che Celestin aveva rifiutato ed accendere una candela alla Madonna. Varcò l’immenso portale barocco mentre sul sagrato si stavano stampando i primi goccioloni.

Si fermò ancora un po’ a pregare, poi uscì per vedere cosa stesse accadendo… doveva esser scoppiato il finimondo! Ma la tempesta si era allontanata ed ora era tornato il sole  e gli uccelli, tra le chiome dei pini intorno alla chiesa avevano ripreso a far festa.


[1] nome popolare dato al diavolo

[2] stregoneria, sortilegio

[3] nato di sette mesi: la tradizione popolare attribuiva ai nati prematuri facoltà di guaritori

[4] manciata di case

[5] i massari erano dei laici, abitanti nel vicinato, che a turni per lo più annuali, si occupavano della manutenzione e dell’amministrazione di una cappella comunitaria, ne tenevano le chiavi ed organizzavano la festa patronale

(foto dell’autrice)

Un altro racconto della stessa autrice si può leggere QUI