23. Dedizione massonica

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DINA TORTOROLI

Giuseppe Maria Pagnini non si lasciò avvincere  dall’exemplum virtutis con cui trova esito e sintesi la commedia La Bastiglia; al contrario, ne fu talmente allarmato che volle affossarla.
Infatti – avvertono gli psicologi – una sentenza denigratoria, priva di argomentazioni, è senza dubbio prodotta da un “meccanismo di difesa”.
Ma quale minaccia era insita – a giudizio del dotto censore –  in quel componimento, in cui si perseguono tutti gli intenti, previsti dalle regole d’ammissione al Concorso parmense di poesia teatrale?
Li conosciamo: dipingere il vizio per renderlo odioso, mostrare l’uomo nello stato in cui diviene lo scherzo delle umane vicende, rappresentare le virtù comuni con colori che di esse innamorano, poste in rischi o in disgrazie di cui lo spettatore sembra entrare a parte; e basta scorrere l’elenco dei Personaggi per riscontrarli, uno dopo l’altro.
Incarnazione del vizio è il Ministro Rosbak, il quale ha tradito anche se stesso, adeguandosi all’esempio di Magistrati corrotti, mentre invece, allorché ottenne la designazione, “Fra i Ministri egli era / Lo specchio dell’onor, della virtute”.
Bersaglio dell’avversa sorte (che coincide con la prevaricazione ministeriale) sono i due reclusi,  Roberto e Riccardo.
Eugenia (amante di Roberto) personifica la virtù che si traduce in una capacità di abnegazione, talmente seducente da costituire  esempio e norma per il Ministro prevaricatore, il quale – ravvedutosi – detesta i propri delitti fino a volerli espiare addirittura con la morte, qualora le sue vittime gli neghino il perdono.
Nel Governatore della Bastiglia e nel medico De la Raison si invera la virtù esaltata dai Philosophes, cioè la capacità di proporsi il bene collettivo, impegnandosi nella salvaguardia di “ciò che l’uomo deve all’uomo”, anche a costo di rischi personali.
La Commedia, insomma, è innegabilmente improntata alla promozione della fratellanza e del perdono, che potevano corrispondere alle “virtù comuni” previste dal Programma del Paciaudi.
Però, suscita speranza in un mondo contrapposto a quello dell’effettiva realtà.
Preannuncia a Roberto il Tenente Riccardo: «Sì, caro Amico, anzi mio caro Figlio, tutti / Andremo ad abitar con mio Fratello […] La semplice mia Casa in mezzo a valli, / E Colli ameni fia il comun soggiorno. / Colà lontan dagli uomini godremo / Quella felicità, che invan si cerca / In mezzo alle cittadi, e fra le Corti». E, giunti all’epilogo, suo fratello Ruggero, “con letizia” aggiunge: «Noi passeremo insieme i nostri giorni; / Ed il Governator verrà con noi / Egli pure a Bordò».
Il Pagnini sospettò che alla Commedia potesse essere sotteso un intento “sovversivo”? Lo aveva turbato l’allestimento della prima scena, in cui compaiono due Globi e una Sfera Copernicana, inequivocabili “oggetti simbolici” massonici?
Invero, La Bastiglia si connota apertamente come testo massonico: gli oggetti simbolici  preannunciano senza dubbio che si sta per assistere a un “Lavoro in Loggia”, e il frasario dei personaggi in scena collima puntualmente col linguaggio massonico.
Ne agevola la verifica il saggio di Margaret Jacob, Massoneria illuminata (Giulio Einaudi editore, Torino, 1995, pp. 8-14), in cui l’attenzione della studiosa è lungamente rivolta all’analisi e alle implicazioni del linguaggio dei Massoni, uomini «reciprocamente soccorrevoli», la cui «etica nuova» deriva dai principi ideali insiti nella «dedizione massonica».
È l’etica cui si ispira il linguaggio del Governatore della Bastiglia: «Non temere, Roberto. È già vicino  / Un cambiamento fra i Ministri, e allora / Nulla intralascierò per la tua pace, / Per la tua libertà […] Non dubitar: questa mattina andrò / Per te alla Corte, e tutto adoprerommi / In tuo favor […] Oh felice Riccardo! Tutto quello, / Ch’io far potrò, non mancherò di farlo  […] Così potessi / Libertà ottener anche a Roberto!». E fra sé e sé: «Quanto trafitto io son! Giammai pentirmi / Potrò d’aver usato con entrambi / Dell’indulgenza a rischio di me stesso. / Il Governo mi vuol crudo e severo. / L’esser clemente fia dunque delitto? ».
Ricorda la Jacob che nel 1744 i Massoni di Parigi diedero alle stampe un Elogio della Massoneria in cui si affermava: «La massoneria è giustamente chiamata Scuola di Virtù […]. La fratellanza che regna tra di loro costituisce […] il primo esempio in cui ciascuno si preoccupa veramente dell’altro». Ebbene, dice il Governatore a Roberto e Riccardo: «Ah voi piangete? / Ma voi mal rispondete all’intenzione, / Ch’io ho di sollevarvi. Non per questo / Io qui con Voi meno la notte; ch’anzi / Vorrei con ciò si dileguasse un poco / la crudele afflizion, che vi divora. / Sperate entrambi, che non andrà guari, / Che finiranno i vostri guai. Sperate»; e a Riccardo: «Il tuo Roberto, sì, il tuo Roberto / La sua liberazion poco pregiando, / S’ella non era unita anche alla tua, / ha fatto, che la cara sua Eugenia / L’ottenga anche per te. Pochi momenti / Potrà tardar il Messo; e tu frattanto / Ammira il cuor riconoscente e grato / Del tuo Roberto».
Nell’Elogio era anche evidenziato il fatto che «elemento centrale dell’identità massonica era la convinzione che il merito e non la nascita dovesse costituire l’elemento fondante dell’ordinamento sociale e politico». Pertanto, anche le persone di ceto non elevato potevano essere rese partecipi di verità esclusivamente destinate all’ «uomo meritorio».
Ebbene, anche questi concetti sono sostenuti e ribaditi dal Governatore, quando parla di Roberto al medico De la Raison:  «Se tu sapessi, Amico, quai progressi / ha fatto nelle scienze, e quanto l’ami / Il buon Riccardo, che qual Figlio il chiama! […] Se tu sapessi quai progressi ha fatti / In questi mesi nelle scienze astruse; / E nella Matematica, e nell’Algebra, / E nell’Astronomia! Quant’egli è degno / D’una sorte miglior!».
Si può, insomma, affermare che Roberto, Riccardo e il Governatore si esprimono ricorrendo al «linguaggio della domesticità», che caratterizza  quella che Margaret Jacob definisce «retorica massonica».
ROBERTO (rivolgendosi al Governatore e a Riccardo): «Ah giusto Cielo / Se per mia sorte Voi non conoscessi, / Miei cari Amici, io già sarei fra morti. / […], (poi singolarmente a Riccardo): «Oh, caro e rispettabile Compagno! [… Il destino] Serbato t’ha per me, perché imparassi da te le scienze…». (E, giunta l’ora di separarsi): «Il sol dolce pensiero, / Che voi m’amate, e che sensibil siete / Alla mia afflizion, mi presagisce / Il sonno il più quieto, e il più felice».
RICCARDO (rivolgendosi prima a Roberto e poi al Governatore): «Non può chiamarsi mai sorte propizia / L’essere Prigioniero, ed innocente. / Ma egli è certo però, che assai dilegua / L’orror della Prigione un vero Amico. / Noi ambidue siam tali ed io qual Figlio / Ti considero già. Governatore, / Tu l’ami al par di me. Fa cuor, Roberto; / Finiran i dì tristi, e sorte amica , / S’io do retta al mio cuor, par si prepari».
GOVERNATORE (rivolgendosi a Riccardo): «Ed a me pur serbato / Fosti, perchè con nodo tenacissimo / teco m’unisse l’amicizia pura» […], (e, allorché suonano le ore sei all’orologio della Sala, a entrambi i prigionieri): «Oh sventurati! Ore fugaci! Amici, / Ecco l’ora crudel di separarci».
Del massimo rilievo – sentenziava quindi l’Elogio della Massoneria – è il fatto che l’iniziazione massonica trasformi l’individuo a un punto tale che «non è più l’uomo di prima».
Nella Commedia – lo abbiamo già constatato – si compiacciono di un tale mutamento di status del misero marinaio Roberto sia  Riccardo di Rabson sia il Governatore, ed è ancor più notevole il fatto che  l’ “iniziato” stesso dichiari: «Penso, che questo è fra i miei mali immensi / Un propizio Destin: ch’anzi dovrei / Benedir questi Luoghi, ove imparai / E le scienze più occulte, e la mia mente / Arricchii e di lumi e cognizioni».
Margaret Jacob affronta poi un punto fondamentale: «Una morale che persegue una fratellanza di matrice secolare e “leggi” espresse tramite la sociabilità possono dispiacere alle istituzioni religiose cui compete tradizionalmente il compito di stabilire dall’alto leggi e regole dell’etica sino alla non secondaria determinazione del comportamento caritatevole verso il prossimo».
Il più clamoroso documento in proposito è la Bolla In eminenti di Papa Clemente XII, del 28 aprile 1738.
Le parole del Pontefice non lasciano scampo: «…Noi […] allo scopo di chiudere la strada che, se aperta, potrebbe consentire dei delitti; per altri giusti e razionali motivi a Noi noti (il corsivo è mio), con il consiglio di alcuni Venerabili Nostri Fratelli Cardinali della Santa Romana Chiesa, e ancora motu proprio, con sicura scienza, matura deliberazione e con la pienezza della Nostra Apostolica potestà, decretiamo doversi condannare e proibire come con la presente Nostra Costituzione, da valere in perpetuo, condanniamo e proibiamo le predette Società, Unioni, Riunioni, Adunanze, Aggregazioni, o Conventicole dei Liberi Muratori o des Francs Maçons, o con qualunque altro nome chiamate. Pertanto, severamente, ed in virtù di santa obbedienza comandiamo a tutti ed ai singoli fedeli di qualunque stato, grado, condizione, ordine, dignità o preminenza, sia Laici, sia Chierici, tanto Secolari quanto Regolari, ancorché degni di speciale ed individuale menzione e citazione, che nessuno ardisca o presuma sotto qualunque pretesto o apparenza di istituire, propagare o favorire le predette Società dei Liberi Muratori o Franc Maçons o altrimenti denominate; di ospitarle o nasconderle nelle proprie case o altrove; di iscriversi o aggregarsi ad esse; di procurare loro mezzi, facoltà o possibilità di convocarsi in qualunque luogo; di somministrare loro qualche cosa od anche di prestare in qualunque modo consiglio, aiuto o favore, palesemente o in segreto, direttamente o indirettamente, in proprio o per altri, nonché di esortare, indurre, provocare o persuadere altri ad iscriversi o ad intervenire a simili Società, Unioni, Riunioni, Adunanze, Aggregazioni o Conventicole, sotto pena di scomunica per tutti i contravventori, come sopra, da incorrersi ipso facto, e senza alcuna dichiarazione, dalla quale nessuno possa essere assolto, se non in punto di morte, da altri all’infuori del Romano Pontefice pro tempore» (In eminenti apostolatus specula, Wikipedia).
Sullo zelo con cui il religiosissimo Ferdinando, Duca di Parma era intenzionato a non «violare, o con temerario ardimento contraddire questa pagina della […] dichiarazione, condanna, comandamento, proibizione ed interdizione» papale  non c’è bisogno di fare congetture: basta sapere come si comportò nel 1790, quando fu informato che il conte Carlo Castone di Rezzonico era sospettato di avere avuto un contatto con Cagliostro.
A proposito di quella disgrazia, occorsa a suo cugino, scrive Giambattista Giovio che, durante il suo processo, Giuseppe Balsamo ¬ detto Conte di Cagliostro ¬ «s’avvisò forse per meglio difendersi di mischiare negli esami suoi col vil suo parecchi nomi di persone d’alto rango, e fra questi quel di Rezzonico, il qual […] era passato a Napoli, né certamente  mai, se non per riso, avea posta mente alle danze egiziane, ed ai balli arcangelici di quel cerretano. Il Pontefice [Pio VI] comunicò al Reale Infante [don Ferdinando, Duca di Parma,  era nipote diretto del re Filippo V di Spagna e per questo aveva anche il titolo di Infante di Spagna] la notizia del processo, e quel religiosissimo Principe prescrisse al cugin mio la dimissione d’ogni carica con una lettera di segreteria del 2 settembre 1790, e ciò per motivi alla Real Persona sua riserbati  (il corsivo è mio). Non potè quindi allora il Conte ben conoscerli, e disacerbò il suo affanno col verso sessantunesimo della epistola prima Oraziana Nil conscire sibi, nulla pallescere culpa (non avere nulla da rimproverarsi, non dovere impallidire per qualche colpa). Sol non seppe obbliar mai i favori segnalati da quell’amabile Principe accordatigli per tanti anni. […] Alcuni mesi dopo degnossi Pio VI di scrivere al Real Duca dileguando le ombre che avevano oscurato il Rezzonico. Ma quel Sovrano già dividea su varj le di lui cariche. […] La di lui [Rezzonico] disgrazia gli vietò di mostrare aperta la divozion sua al Reale Infante, quando nel 1792 da’ torchi Bodoniani escì l’edizione stupenda di Pagnini sacra alle nozze della R. figlia Carolina Borbonica col Sassone Principe Massimiliano (Memorie del Cavaliere e Conte  Giambattista Giovio sulla vita e sugli scritti del Cavaliere Carlo Castone Conte della Torre di Rezzonico, pp. CII- CIII, disponibile in rete).
Ormai è chiaro: l’Accademico Pagnini, leggendo La Bastiglia, fu preso dal panico. E ne ebbe ben donde.
Due secoli dopo, invece, io sono andata  in visibilio: mi si sono aperti inaspettati orizzonti, e ho potuto avviare appassionanti indagini sui contatti che il ventiseienne Gio. Carlo Imbonati evidentemente aveva con circuiti culturali massonici, quindi sulla sua adesione alla «strategia di egemonia della morale fraterna sulle divisioni della società» (Cazzaniga).
Ho saputo persino da dove prendere le mosse e a chi fare un costante riferimento, perché l’Imbonati non mette in scena “personaggi d’invenzione”, in circostanze da lui escogitate: è sufficiente aver letto non dico i tre volumi, ma anche soltanto una scelta delle celebri Lettere a Sofia di Gabriel Mirabeau, per riconoscere di quali “personaggi storici” la Commedia stia ricalcando le vicende (MIRABEAU, Lettere d’Amore, a cura di Clara e Ida Ferrero, UTET, Torino, 1954. Titolo originale Lettres à Sophie).