In nome di Margutte

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LORENZO BARBERIS. Il primo articolo di “Margutte” va a spiegare la più importante delle questioni: Margutte, chi era costui, e perché sceglierlo come nume tutelare di questo nascente sito web di letteratura ed altro?

Margutte, come noto, è il gigante co-protagonista del “Morgante” di Luigi Pulci, uno dei capolavori della letteratura rinascimentale. La sua figura è però meno nota, almeno al grande pubblico, di quanto in verità meriterebbe.

L’editio princeps dell’opera (oggi perduta), coi primi ventitré canti, viene stampata a Firenze, nel 1478, presso la tipografia impiantata nel convento delle suore domenicane di San Jacopo a Ripoli, diretta da frate Domenico da Pistoia e specializzata nella letteratura popolare. La circolazione maggiore l’ha però un breve estratto dei cantari XVIII e XIX, relativi alle vicende di Morgante e Margutte, detto “Morgante minore” o, appunto, “Marguttino” (1480 c.).

Sono gli anni in cui anche a Mondovì fiorisce l’arte della stampa: nel 1472 era infatti apparso il primo libro, il primo volume a stampa per tutto il Piemonte. L’opera era, tra l’altro, il Confessionale di Sant’Antonino Peruzzi, vescovo di Firenze (1389 – 1459), teologo, letterato e protettore del Beato Angelico, figura di cerniera tra l’umanesimo trecentesco e la nuova età rinascimentale.

Pulci si era avvicinato alla corte dei Medici nel 1460, recitando a Lucrezia Tornabuoni e al piccolo Lorenzo stralci, appunto, del suo poema in via d’elaborazione (ne completerà il primo nucleo entro il 1471). Pulci diverrà il migliore amico del giovane Magnifico, fino almeno al 1469, quando il nuovo ruolo a guida della Signoria allontaneranno Lorenzo dalla più spensierata cerchia giovanile. Inizierà allora l’influsso di Marsilio Ficino, che nel 1474 farà allontanare il Pulci, colto studioso della cabala ebraica ma lontano dal suo rarefatto neoplatonismo spirituale, dopo una violenta disputa sulla concezione dell’anima.

Pulci passò a questo punto al servizio del capitano di ventura Roberto di San Severino, seguendolo in giro per le corti italiane, “scudiero” di un condottiero come i suoi personaggi. Egli completò intanto la sua opera, la cui edizione definitiva in ventotto canti vedrà la luce solo nel 1483, poco prima della morte del poeta. Gli ultimi cinque canti trattano della Rotta di Roncisvalle, dove nella figura del fedifrago cortigiano di Carlo Magno, Gano di Magonza, è ombreggiato l’odiato Ficino, il “cattivo consigliere” dei Medici che aveva fatto allontanare il Pulci.

Morgante è un gigante che viene convertito al cristianesimo dal paladino Orlando, di cui diventa scudiero. Margutte, invece, è un mezzo gigante, che viene a sua volta reclutato da Morgante. Il nome è quello dato ai fantocci usati come bersagli nelle giostre di cavalieri, e deriva da “marbut”, termine arabo (non a caso, l’equivalente italiano è “saracino”) che indica originariamente un mago, un santone.

Indifferente alle fedi, Margutte proviene comunque dalle terre dei Turchi. Cugino prossimo, dunque, di quel Moro di Mondovì che è al centro delle nostre tradizioni carnascialesche, ha ascendenze mitiche nei mori che dominavano queste zone in età carolingia, fino all’avvento di Ottone, Aleramo ed Adelasia. Inoltre, la sua prima concreta incarnazione avviene anche qui in un fantoccio, o meglio, in un automa (ovviamente, il Moro che batte le ore di San Pietro).

Margutte è quindi un ossimorico Gigante Nano, un incrocio umano-gigante, alto quattro metri invece dei soliti otto, data la statura umana di poco inferiore ai due metri, e facendo un valor medio. Se Morgante è sostanzialmente il tipico gigante della tradizione, rozzo, violento ma sostanzialmente bonario, Margutte è più interessante per la sua natura anfibia, che lo rende più scaltro e smaliziato, e lo porta a fare propri, in chiave comica, i valori edonistici del Rinascimento fiorentino. Quelli che troveranno la loro espressione “alta” nella celebre Canzona di Bacco (1490 c.) dello stesso Lorenzo il Magnifico: “chi vuol esser lieto, sia: del doman non v’è certezza”.

Il suo epicureismo viene dichiarato fin dal primo incontro con Morgante, quando questi gli chiede la sua fede, secondo convenzione del poema cavalleresco, in cui i cavalieri si interrogano sullo schieramento di appartenenza, cristiano o islamico, per valutare poi se allearsi o combattersi. Margutte rifiuta, ironicamente, la convenzione, proferendo la sua fede nei valori “bassi” e concreti del ventre e dei piaceri in generale, in un passo divenuto giustamente famoso e programmatico del poema stesso (ottava 115).

Rispose allor Margutte: “A dirtel tosto,

io non credo più al nero ch’a l’azzurro,

ma nel cappone, o lesso o vuogli arrosto;

e credo alcuna volta anco nel burro,

nella cervogia, e quando io n’ho, nel mosto,

e molto più nell’aspro che il mangurro;

ma sopra tutto nel buon vino ho fede,

e credo che sia salvo chi gli crede”.

Appare interessante notare come, se Margutte è il “basso” per aspirazioni, non lo è per incultura o rozzezza, tutt’altro: anzi, vanta un passato da letterato (ottava 118).


Questa fede è come l’uom se l’arreca.

Vuoi tu veder che fede sia la mia?,

che nato son d’una monaca greca

e d’un papasso in Bursia, là in Turchia.

E nel principio sonar la ribeca

mi dilettai, perch’avea fantasia

cantar di Troia e d’Ettore e d’Achille,

non una volta già, ma mille e mille.

Nato da una monaca greca e da un “sacerdote” mussulmano, anfibio anche in questo, Margutte non si schiera nel conflitto di fedi e, piuttosto, si diletta come cantastorie dell’epica classica, elaborandone infinite variazioni. Il piacere, pare di far intendere questo Margutte poeta (solitamente aspetto abbastanza ignorato) include quello letterario. L’equidistanza e indifferenza al conflitto religioso, che tornerà in modo più prudente in Ariosto (la “gran bontà de’ cavalieri antiqui”…) e deriva da certe pagine del Boccaccio, modello inevitabile (la novella dei Tre Anelli…), appare nel poema, in modo più sistematico, nella figura del buon diavolo Astarotte che spiega come oltre l’Oceano esistano altri popoli, e anch’essi abbiano la loro civiltà, la loro cultura, e la loro religione, che piace a Dio come la nostra. Pulci scrive prima della scoperta dell’America, ed è quindi qui influenzato dall’eterno mito atlantideo: ma i Dan Brown leggono solo i testi aulici e neoplatonici, quando va bene: e quindi il brano non ha avuto divertenti esegesi complottiste.

Inevitabile, comunque, la suggestione del parallelo col Pulci stesso, anch’egli letterato di corte poi costretto ad una vita più girovaga al seguito di un capitano di ventura: tanto più che anche i nemici dell’autore, come Ficino, appaiono nel romanzo in una specie di “travestimento cortese”.

Le vicende dei due compari continuano poi nella migliore tradizione eroicomica: saccheggiano un’osteria, quindi iniziano a girovagare nel deserto, procurandosi cibi sempre più stravaganti: dromedari, serpenti, tartarughe giganti fino ad un intero elefante. L’astuzia di Margutte è essenziale a procurare la preda, anche se l’appetito smisurato di Morgante spesso lascia l’alleato furioso e a bocca asciutta. I due liberano poi la principessa Florinetta da due giganti malvagi, e la riportano al suo castello di Belfiore, presso il delta del Nilo. Qui Margutte trova, finalmente, il proprio personale Paese di Cuccagna: il re, per premio, gli concede libero accesso alle cucine, e lui ne usa ed abusa, come logico. Quindi i due ripartono alla volta di Babilonia, dove riunirsi all’esercito cristiano: durante il viaggio, Morgante per una burla sottrae gli stivali a Margutte mentre dorme. Una bertuccia allora si impossessa delle scarpe del gigante, e inizia a giocarci: lo spettacolo è così divertente che Margutte, risvegliatosi, esplode dalle risate, letteralmente (“E parve che gli uscissi una bombarda – tanto fu grande dello scoppio il tuono”), e muore quindi per il troppo ridere.

Una fine anti-epica per eccellenza, contraltare della celebre, drammatica “morte d’Orlando” che appare più avanti nel poema, nella sua parte terminale e cupa. Il paladino muore in battaglia, Margutte muore quindi sul “suo” campo di battaglia, la comicità. Anche Morgante ha una fine antieroica, ucciso dal morso di un minuscolo granchio: essa è però già più nobile, allusiva quasi del Tallone d’Achille, e prefigura l’inevitabile fine di Orlando stesso. Il Pulci poi è il primo a lasciare aperta la possibilità di proseguire le avventure del suo eroe. Egli conclude infatti dicendo, all’ottava 152:


Ora ècci un aüttor che dice qui

ch’e’ si condusse pur dov’era Orlando,

ma poi da Bambillona si partì

e venne in questo modo capitando.

Tanto è che la sua morte fu così:

di questo ognun s’accorda, ma del quando,

o prima o poi, c’è varie oppinïoni

e molti dubbi e gran disputazioni.

 alfamennone

I colossi di Memnone, da Wikipedia.

Quindi, per un autore, citato poi come Alfamenonne, autore degli “Statuti delle donne”, Margutte non muore prima della presa di Babilonia. L’autore è ovviamente inesistente, come l’opera a cui è collegato. Forse si può ipotizzare un collegamento con il primo dei due colossi di Memnone (“alfa”): si tratta infatti di due statue colossali, erette da Amenofi III (il padre di Amenofi IV, Akhenaton, il fondatore del mitico monoteismo egizio) verso il XIV secolo avanti Cristo, a propria immagine e a custodia del Tempio di Milioni di Anni dove era venerato come dio Sole (fu il tempio più grande dell’era egizia, alla sua epoca). Il mondo greco-romano e il medioevo le associava invece all’eroe mitologico Memnone, re di Etiopia alleato dei troiani e ucciso da Achille; e in particolare, per via di cavità interne e del vento il primo emetteva strani suoni all’alba, associati alla venerazione del sole sorgente e alla dea dell’aurora. Sul base la poetessa Giulia Balbilla, nell’età di Adriano, vi incise sopra quattro epigrammi (citati nei mitici “Statuti delle Donne”?). Forse è possibile che Pulci lo conoscesse, data la fama della statua e i suoi interessi ermetici: del resto si trova proprio alla Foce del Nilo, dove giungono i nostri eroi, e in qualche modo è un “marbut”, un automa, volendo forzare un po’ l’interpretazione.

Margutte giungerebbe alla “Torre di Nembrotto”, il mitico gigante biblico costruttore della celebre ziggurat di Babilonia, ed ha ancora molte altre avventure. Forse il Pulci prefigurava già che Margutte avrebbe avuto questa estrema sopravvivenza nella rete come moderna “biblioteca di Babele”?

*

Il “Morgante” resterà ingiustamente relegato in una dimensione “minore”, almeno nell’immaginario scolastico della letteratura italiana. Il suo ruolo è però fondante di tutta la successiva tradizione del poema rinascimentale, che pur meno marcatamente comico, ne riprende l’ironia e il distacco, ormai, dalle vicende cavalleresche, che nell’era della polvere da sparo non possono essere altro che una pura convenzione. Il Boiardo, che avvia il suo “Orlando Innamorato” nel 1472, è stato influenzato certamente dall’opera del Pulci (alcuni studiosi ipotizzano addirittura un incontro diretto), e da lui riparte in seguito l’Ariosto per il suo “Orlando Furioso”, il capolavoro della letteratura rinascimentale italiana ed europea. Ma il modello di Pulci è seguito più da vicino dal grande protagonista del rinascimento letterario francese, Francois Rabelais (che tra l’altro soggiornò anche nella Torino francese di inizio ‘500), i cui Gargantua (1534) e Pantagruel (1532) riprendono e reinventano i Morgante e Margutte italiani.

Ma Margutte ha anche un curioso legame col grande capolavoro dell’iconografia e dell’ermetica rinascimentale, i Tarocchi. Nella sua programmatica presentazione, infatti, egli rivendica un rapporto strettissimo con le carte da gioco, che va forse oltre la figura convenzionale del gaudente (ottava 119 e seguenti).


E per compagni ne menai con meco

tutti i peccati o di turco o di greco;

anzi quanti ne son giù nello inferno:

io n’ho settanta e sette de’ mortali,

che non mi lascian mai la state o ‘l verno;

pensa quanti io n’ho poi de’ venïali!

Non credo, se durassi il mondo etterno,

si potessi commetter tanti mali

quanti ho commessi io solo alla mia vita;

ed ho per alfabeto ogni partita.

Non ti rincresca l’ascoltarmi un poco:

tu udirai per ordine la trama.

Mentre ch’io ho danar, s’io sono a giuoco,

rispondo come amico a chiunque chiama;

e giuoco d’ogni tempo e in ogni loco,

tanto che al tutto e la roba e la fama

io m’ho giucato, e’ pel già della barba:

guarda se questo pel primo ti garba.

L’orgoglioso proclama di possedere ogni peccato “quanti ne sono giù nell’inferno” è associato alla passione per il gioco di Margutte. Ciò ha portato vari interpreti a supporre che i “settanta e sette” peccati mortali che si accompagnano sempre al mezzo gigante possano essere le carte dei Tarocchi, che avrebbero così nel poema una delle loro prime attestazioni.

I tarocchi sono infatti 78: Margutte stesso, quindi, potrebbe essere secondo alcuni identificato con una figura dei tarocchi, probabilmente il primo e il più importante, il Matto, rappresentato come un ridanciano vagabondo, da cui deriva anche il Jocker delle più comuni carte da gioco. Va notato che Margutte inoltre “ha come alfabeto ogni partita”: e gli arcani maggiori – quelli figurati – sono appunto 22, come le lettere dell’alfabeto ebraico, secondo una connessione che ha sempre affascinato il mondo esoterico.

I primi Tarocchi compaiono proprio in questo periodo in varie corti italiane. In essi ritorna spesso la figura di un gigante: il Matto dei tarocchi di Carlo VI (1470 c.), il Mago nel mazzo estense (il nome stesso di Margutte, come visto, identifica una sorta di mago). In entrambi i casi, tra l’altro, le dimensioni lo identificano con un mezzo gigante. E dalla figura del Matto di Carlo VI deriva, con buona probabilità, anche la figura del Diavolo dei Tarocchi, inizialmente assente nei primi mazzi cortesi, e apparso invece poi nei primi mazzi a stampa, quelli del tarocco di Marsiglia.

Curioso quindi che il mezzo gigante Margutte, dopo la propria morte per troppo riso, finisca ovviamente all’inferno, dove continua nel suo riso diabolico divenendo l’araldo personale di Belzebù, il re dei diavoli. Lo scopre Orlando, nel cantare XXVIII, dove gli viene rivelato (ottava 139-140):

E perch’io intendo la tua fantasia

poi ch’io dissi «Morgante», io ti rispondo:

tu vuoi saper di Margutte il ribaldo:

sappi che egli è di Belzebù giù araldo;

e ride ancora, e riderà in etterno

come solea, ma tu nol cognoscesti,

ed è quanto sollazzo è nello inferno.

Un Margutte diabolico, quindi, nel segno del Malacoda dantesco e degli altri del basso inferno, ma promosso ad alfiere del re dei demoni. Un diavolo non diverso, in fondo, da quelli dei coevi affreschi monregalesi di San Fiorenzo (1472), o delle incisioni dell’”Antichristus” (1510), uno dei capolavori della tipografia monregalese. Il riso diabolico, quindi, necessario e nascosto complemento delle eteree coreografie esoteriche pensate per Botticelli dai solerti Ficino e Poliziano, nello splendore massimo della corte medicea.

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Dopo questa breve carrellata sul personaggio, dunque, ci sembrano evidenti le suggestioni che la sua figura ci ha suscitato. Margutte come personaggio letterario, ovviamente, per un sito di letteratura: nel segno del Rinascimento, ma con la scelta di un Rinascimento “altro”, divergente da quello ufficiale, indizio della nostra volontà di includere anche una lunga tradizione apparentemente “minore” o controculturale. Poi, ovviamente, Margutte è anche poeta, come abbiamo visto: letterato egli stesso, e con quello stesso stile edonistico che caratterizza la sua scelta di vita. La morte addirittura lo identifica col Riso stesso, elemento che lo segna nella sua permanenza agli inferi. Quindi, una scelta nel senso di una letteratura appunto (anche) ludica, di gioco e divertissment letterario, non necessariamente comica ma intrisa spesso di uno sguardo ironico. Insomma, siamo nani, ovviamente. Ma nani sulle spalle di un Nano Gigante.

Lorenzo Barberis

(immagine: Damiano Gentili, “La Morte di Margutte”)