L’Europa sbagliata. Nazionalismi e collaborazionismi sotto il Terzo Reich – prima parte

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PAOLO LAMBERTI.

L’Europa nazista e l’Europa di oggi
La cartina dell’Europa di oggi ha non pochi punti di contatto con quella dell’Europa del 1942, anno di estensione dell’impero nazista: vi ritroviamo infatti stati odierni come la Slovacchia, la Croazia, i paesi baltici.
La ragione si ritrova nell’Europa uscita dalla Prima Guerra Mondiale, che aveva dissolto imperi ma esacerbato i nazionalismi i cui eccessi portarono alla Seconda: una lezione questa imparata a caro prezzo, che ha portato alla rinascita dell’Europa ma i cui effetti oggi sembrano essere sul punto di essere dimenticati.
L’Europa di Versailles ebbe come risultato che i nazionalismi vincenti, che ottennero o rafforzarono uno stato, si crearono miti fondativi che originarono nuove pretese, mentre quelli perdenti, senza stato o con stati indeboliti, accentuarono le loro rivendicazioni.
In questa situazione furono i radicalismi di destra, populismi, regimi tradizionalisti, regimi fascisti (nella loro vasta gamma, non ci fu mai un’Internazionale fascista) a dettare la politica europea: ogni allusione al presente non è purtroppo casuale. In questo quadro irruppe il nazionalsocialismo, di fatto tanto poco nazionalista quanto poco socialista, con la sua visione di fatto ostile allo stato-nazione.
Spesso gli storici si chiedono come mai la Germania non abbia approfittato del favore con cui i suoi soldati furono accolti nell’Est europeo (ma anche in Occidente), come reazione alla spietatezza sovietica: avrebbe potuto sfruttare nazionalismi come quello ucraino o baltico, o i movimenti antidemocratici europei, come i molti francesi che pensavano “meglio Hitler che Blum”.
Questa fu la politica della Rivoluzione Francese e poi di Napoleone, che si costruirono intorno all’idea del popolo-nazione. Ma non poteva essere la politica hitleriana: se avesse fatto perno sui nazionalismi, non sarebbe stata nazista.
Nel Lebensraum di Hitler potevano esserci razze e non popoli, e le possibilità per coloro che vi venivano inglobati erano solo tre: collaborazionismo, sfruttamento, eliminazione.
Un collaborazionismo tenuto al guinzaglio stretto, senza nessuna autonomia politica. Sarà Himmler ad allargarne le prospettive, basandolo su due pilastri ideologici rozzi ma efficaci, capaci di dissimulare l’impossibilità di conciliare nazionalismo e collaborazionismo. Essi sono l’identificazione ebreo/comunista, prima, poi quella ebreo/partigiano.

Hitler, il distruttore dello stato
Hitler non è un nazionalista tedesco. Un austriaco che si arruola nell’esercito tedesco mostra già estraneità alle forme tradizionali di nazionalismo, anche alla luce della profonda rivalità tra Prussia ed Austria che aveva caratterizzato l’unificazione tedesca. Nel 1914 Hitler si sente un tedesco che si unisce alla sua razza, abbandonando un impero multirazziale che disprezza proprio per questa caratteristica.
Hitler è meglio definibile come un ecologista razziale. Nella sua visione le razze competono in un unico spazio ecologico, per risorse limitate: è una rozza lettura del darwinismo incrociata con un malthusianesimo altrettanto rozzo. È una visione dunque ecologica, non politica: quello hitleriano non a caso è un governo fondato su Blut und Boden, sangue e suolo, e crea legislazioni “verdi” a protezione della natura.
In questa logica la gerarchia delle razze si forma nella lotta: l’ultimo Hitler che ordina l’autodistruzione della Germania riconosce coerentemente il fallimento della razza germanica e la vittoria di quella slava.
La lotta però è intralciata ed oscurata dalla “civiltà”, dal sistema degli stati e delle leggi, nazionali ed internazionali. Una civiltà prodotta dai deboli, fatta per negare la lotta razziale, e quindi riconducibile alla non razza, quella ebraica: democrazia, illuminismo, comunismo lo stesso cristianesimo appaiono tutti riconducibili ai complotti ebraici, perché gli ebrei non sono una razza ma parassiti. Il linguaggio nazista sugli ebrei è tutto costruito su parametri biologici e medici non tanto per offendere, ma per una convinzione profonda.
Il fine hitleriano non è quindi uno stato totalitario e tedesco, ma uno spazio vitale (Lebensraum) in cui la razza tedesca domini e disponga di tutte le risorse, svincolata dai limiti posti dalle strutture statali. L’esito dell’hitlerismo è la disgregazione dello stato moderno.
Il primo stato a subire la disgregazione è proprio quello tedesco: Hitler non dà ordini o disposizioni, indica direzioni generali ed ideologiche, poi si affida al meccanismo che Kershaw chiama “andare verso il Fuehrer”: dai gerarchi più importanti ai semplici cittadini si agisce interpretando queste vaghe indicazioni, e radicalizzando le proprie azioni in competizione con gli altri. Di fatto il Terzo Reich è un insieme di feudi dei vari leader, ciascuno dei quali si occupa di tutto quello su cui riesce a mettere le mani sollecitando il Fuehrer, che è ben lieto di assegnare lo stesso compito a più collaboratori, mettendoli in competizione. Perciò Hitler non sottomette lo stato al partito, come in URSS, né lo affianca con un (debole) partito, come Mussolini, ma ibridizza stato e partito, mirando ad assorbire lo stato nell’ideologia.
Hitler rifiuterà l’aiuto militare francese in Russia nel timore di rinfocolare il nazionalismo: nella sua logica antistatale, ogni collaborazionismo non doveva tramutarsi in nazionalismo, al contrario doveva essere un segno dell’abbandono dell’idea di nazione a favore del Reich.
Il suo obiettivo saranno le “terre nere”, come le chiama Snyder: territori da colonizzare, che per Hitler non sono neppure stati, come la Polonia o l’Urss; o stati già cancellati dai sovietici, come quelli baltici. Qui, e non ad Auschwitz, avviene la maggioranza delle stragi, in uno spazio vuoto, senza strutture statali: il Lebensraum, destinato a fornire alla razza tedesca cibo e spazio, in un vuoto ideologico che lo sterminio deve trasformare in un vuoto reale.
È la stessa personalità hitleriana a creare questo non-sistema antistatale: Hitler è un ideologo e un comunicatore, non un politico: dorme fino a mezzogiorno, poi colazione, pranzo, tè, cena e ancora tè, ogni volta con lunghi monologhi; di spazio per lavorare ne rimane poco. Siamo ben lontani dall’assoluto controllo di Stalin, non a caso formatosi come organizzatore del partito, e dalla retorica della luce accesa di notte a Palazzo Venezia.

Himmler, il razzista flessibile
Der treue Heinrich, il fedele Heinrich – come lo chiamava Hitler (almeno sino agli ultimi giorni del Terzo Reich, quando lo spoglia di ogni carica alla notizia dei suoi contatti con gli Alleati) – era considerato il suo più probabile successore: una scelta doppiamente logica, sia perché tra i gerarchi è quello che meglio sa ampliare il proprio potere, sia soprattutto perché la sua visione del futuro del terzo Reich è coerente ed ancora più radicale di quella di Hitler.

Partito nel 1929 come comandante ad interim del minuscolo corpo delle SS, non più di 200 uomini, nel 1945 controlla non solo l’impero delle SS, ma è ministro degli Interni e comanda l’esercito territoriale e persino la Flak (è così al vertice della catena di comando cui obbedisce il futuro pontefice Benedetto XVI).
Interpreta al meglio la capacità di cancellare i confini tra stato e partito, e costruire forme fluide di potere: il suo Ufficio centrale per la sicurezza del Reich (RSHA Reichsicherheithauptamt) unisce sia la polizia regolare, sia la Gestapo, in origine reparto regolare della polizia prussiana, sia SS e SD (il servizio di sicurezza della SS, creato da Heydrich), mentre le Allgemeine SS (SS generiche) attirano, spesso con gradi onorari, l’élite della società tedesca.
Non a caso lo SD, il reparto più selezionato delle SS, cui si deve gran parte dell’Olocausto, è guidato in buona parte da brillanti giuristi, spesso con il dottorato, capaci di passare dalle aule universitarie all’esecuzione di centinaia di ebrei ogni giorno; è curioso come siano proprio i giuristi a favorire il tramonto della legge: sarà il celebre Schmitt, grande giurista ma anche pesantemente compromesso con il nazismo, a dire che la legge nasce dal Fuehrer.
Ma è come razzista che Himmler va oltre Hitler: esige che gli uomini delle SS dimostrino di essere ariani da generazioni, fonda l’Ahnenerbe, istituto di studi razziali ed archeologici celebre per le spedizioni volte a trovare le radici degli ariani (si ricordi quella in Tibet, che ispirò il film 7 anni in Tibet).
Eppure è un razzista flessibile: la sua ossessione è trovare e riportare in patria il sangue tedesco disseminatosi nel mondo, o i suoi antenati: non poteva sfuggire una singola goccia di sangue tedesco. Nell’ottobre 1941 Wolfgang Abel, antropologo e ufficiale delle SS, esaminò più di 42.000 prigionieri sovietici, con tecniche antropometriche ed esami del sangue, scoprendo tra gli Untermenschen uno sbalorditivo livello di germanicità, segno che il sangue germanico era filtrato molto ad est. in seguito a questa e simili ricerche Himmler passa da una visione limitata al sangue nordico, ad una che abbraccia anche le razze mediterranee per finire con il valorizzare persino il sangue slavo e quello arabo.
Con una visione lamarckiana, è convinto che la razza possa migliorare attraverso la guerra e lo spargimento del sangue: quindi se nel 1944 metà delle SS non è costituita da tedeschi, non è solo per le necessità belliche, ma per questo sviluppo razziale che vede Himmler ipotizzare una gerarchia di razze europee pronte a combattere contro orientali ed africani. Solo gli ebrei rimangono per lui una “non-razza”, da eliminare.
All’interno del Terzo Reich egli costituisce l’impero delle SS: gestisce la guerra, la polizia, i campi di concentramento, la cultura, l’economia, in modo sempre più autonomo dal resto del Reich. L’esito finale doveva essere quello di un’Europa non tedesca, ma delle SS, un’élite di cavalieri liberi da ogni controllo che non fosse quello del proprio ordine: in questa visione Hitler e il nazismo sarebbero stati superati, come una fase necessaria ma di passaggio.

Tra due fuochi: i paesi baltici
La Danimarca è un paese occupato, ma conserva governo e leggi proprie: il 97% degli ebrei si salva. L’Estonia, simile per dimensione e livello economico (anzi meno antisemita dei danesi), è un paese il cui governo e le cui élites sono state cancellate dall’Urss, e che viene occupato poi dai tedeschi come un non luogo: il 97% degli ebrei è ucciso.
I paesi baltici mostrano quanto siano profonde le ambiguità della storia: oggi vi sono commemorazioni e monumenti per i baltici che combatterono contro l’Armata Rossa indossando l’uniforme delle SS: la versione semi-ufficiale si appella al fatto che le tre divisioni estoni e lettoni furono organizzate nel 1944, quando ormai lo sterminio ebraico era completo.
Significativa della complessità della situazione è la carriera di Alfred Rebane: ufficiale dell’esercito estone sino al 1940, mandato a fare il muratore dai sovietici, organizza la resistenza contro di loro; all’arrivo dei tedeschi entra nei Battaglioni di Sicurezza, poi nella 20^ Divisione delle SS, quella estone; pluridecorato, nel dopoguerra lavora con i servizi segreti inglesi, e infine si trasferisce in Germania, dove muore nel 1975.
Tuttavia i quadri delle divisioni baltiche, pur create nel 1944, erano transitati in una serie di reparti che erano al fianco degli Einsatzgruppen tedeschi sin dal giugno 1941.
L’annessione sovietica del 1940 aveva spazzato via le classi dirigenti locali, con decine di migliaia di deportati ed imprigionati (a loro volta fucilati dalle truppe della NKVD al momento della ritirata di fronte ai tedeschi). Si trattava di classi dirigenti politicamente moderate, in cui i movimenti di destra erano minoritari, e i cui membri in buona parte erano fuggiti all’arrivo dei Sovietici. Essi rientrarono al seguito dei tedeschi, e sfruttarono il trauma dell’invasione sovietica, trovandosi in uno spazio politico vuoto.
Quindi buona parte delle stragi di ebrei avvenne per mano di pogrom fomentati dai tedeschi e condotti da milizie locali organizzate sia dagli esuli di destra fuggiti all’arrivo dei sovietici nel 1940 (anche qui le confraternite universitarie, come in Germania, hanno un ruolo rilevante), sia da elementi locali: vi sono baltici (ed ucraini) che hanno fucilato ebrei in quanto borghesi nella prima metà del 1941, al servizio del NKVD; nella seconda metà dell’anno hanno fucilato ebrei come membri di una non razza per conto delle SS e del SD.
In terre già occupate dai sovietici i tedeschi hanno portato l’assoluzione perfetta per i collaborazionisti: ebrei e bolscevichi coincidono, perciò chi li uccide non può essere bolscevico. Questo è il primo pilastro ideologico su cui si fonda la capacità attrattiva delle SS che ha coinvolto tanti europei: una visione tanto rozza quanto efficace, capace di attirare sia gli antisemiti che gli anticomunisti.

La nazione mai nata: Ucraina
Tale formula funziona anche in Ucraina, dove la situazione è ancora più complessa.
Ancora oggi la cronaca ci mostra quanto sia evanescente il concetto di Ucraina, priva di confini netti e di una storia propria, unita solo dalla lingua ma divisa dalla faglia tra chiesa cattolica e chiesa ortodossa, tra est ed ovest. Devastata dalla guerra civile tra Bianchi e Rossi, a loro volta combattuti dai Verdi indipendentisti, fiaccata dalla carestia imposta da Stalin (e dal suo rappresentante Krushev), accoglie i tedeschi sperando di rinascere, tanto che nei primi mesi si forma un governo a Kiev. Ma la Germania ha intenzione di trasformare il paese in zona di colonizzazione, cancellandone gli abitanti, e stronca ogni velleità indipendentista: ancora nel 1944 Hitler, alla notizia di una divisione SS di ucraini, si infuria con Himmler, trovando inaccettabile che una razza inferiore indossasse le mostrine SS (rosse, come per tutte le Freiwilligen Divisionen, le unità non germaniche, e non nere come per le SS tedesche).
Eppure la flessibilità razziale di Himmler (e il pragmatismo della Wermacht) giunge a utilizzare fino ad un milione di cittadini sovietici, per compiti di retrovia, poi di lotta antipartigiana, infine di combattimento: dapprima Himmler apre all’idea di arruolare “Galiziani”, ovvero la parte dell’Ucraina che era una provincia absburgica, rifiutando ogni terminologia che rimandi all’Ucraina; poi però i suoi “scienziati razziali” trovano sangue germanico anche in Ucraina, seppur diluito, ed ecco reggimenti, poi brigate, infine divisioni ucraine, bielorusse, russe persino.
In Ucraina poi emerge con chiarezza il secondo pilastro ideologico delle SS: la Bandenbekämpfung. La lotta antipartigiana non è solo una necessità militare, ma uno strumento ideologico che permette di continuare ed ampliare la lotta razziale: all’identificazione ebreo/bolscevico si associa quella dell’ebreo/partigiano. Anche qui lo sterminio ebraico diventa parte centrale della guerra, e viceversa chi combatte i partigiani si ritrova anche a perpetrare l’Olocausto.

Un genocidio fatto in casa: Romania
La Romania offre un quadro particolare: principale alleato della Germania nella guerra contro l’Urss, e stato che controlla la più importante risorsa petrolifera del Reich, i campi di Ploesti, esprime un nazionalismo forte e lontano dal nazismo. Negli anni Trenta Codreanu aveva creato, con la Guardia di Ferro, uno dei movimenti fascisti più influenti ed originali, capace di attirare anche raffinati intellettuali come Mircea Eliade e il cui influsso sarà notevole anche presso i movimenti neofascisti del dopoguerra: si pensi all’italiano Julius Evola, riferimento per tutti i movimenti extraparlamentari di destra e le cellule terroristiche neofasciste dell’Italia degli anni di piombo, ma ancora oggi presente nella destra italiana, e a quanto pare apprezzato anche da Bannon, principale ideologo di Trump.
Eppure la monarchia autoritaria romena e il governo del dittatore Antonescu non cedono spazio, al punto da far uccidere Codreanu e perseguitare i guardisti; pur alleandosi ad Hitler, i romeni non esiteranno ad espellere alcune SS troppo vicine ai guardisti, e non permetteranno agli Einsatzkommando di agire in Romania; e al momento dell’arrivo ai confini romeni dell’Armata Rossa, rovesceranno l’alleanza germanica, come l’Italia.
Eppure i primi massacri di ebrei pochi giorni dopo l’inizio dell’Operazione Barbarossa sono condotti da reparti regolari rumeni, che continueranno per anni a dare la caccia agli ebrei nella Russia meridionale, non solo a fianco dei tedeschi ma quasi sempre per iniziativa propria.
E quasi metà degli ebrei romeni sarà uccisa dal regime, senza nessun aiuto tedesco: infatti la Romania sviluppa un proprio antisemitismo, basato sulla rivendicazione delle radici latine della nazione; questo è un tema identitario che il regime comunista di Caeucescu accolse in toto, ed è ancora oggi ben vivo. Sono gli ambienti culturali ed universitari a creare il mito latino a fine Ottocento, quando nasce lo stato, e questa identità (di fatto inventata) viene diretta contro le minoranze: ungheresi, bulgari, tedeschi e soprattutto ebrei; non avendo questi uno stato alle spalle che li protegga, diventano il capro espiatorio ideale. La guerra hitleriana offre l’occasione per il massacro, non però subordinato all’ideologia nazista ma appunto un genocidio fatto in casa.

1 – continua