Il leopardo delle nevi

SILVANO GREGOLI

(Tratto dal racconto “La seconde côte d’Adamdi Sylvain Tesson)

leopardo francobollo

PREMESSA
Ho cominciato a leggere Sylvain Tesson alcuni anni fa e ne è nata una piccola passione. Da questa mia passione è nato il desiderio di farlo conoscere ai miei amici italiani che non leggono in lingua originale (per chi volesse, caldamente propongo QUI un breve ‘assaggio’ della magica prosa di Tesson, tradotta il più vicino possibile alla versione originale; mi permetto di insistere).

Un giorno, scorrendo una delle sue numerose raccolte di racconti (tra l’altro, Sylvain Tesson ha vinto nel 2009 il prestigioso Premio Goncourt per il racconto) mi imbatto in un testo che, più di altri, fa vibrare alcune mie corde nascoste: un trek nel cupo mondo dell’Himalaya e un guizzo nell’irrazionale.

Ho un amico direttore di una bella rivista di montagna. Gliene parlo, ma la risposta è senza mezzi termini: «Due-tre volte troppo lungo. Non si può. Prova a riassumerlo».

Riassumerlo è una parola.
Comincio, ci provo, sudo. Taglio: non nella carne; nelle cartilagini, nel grasso, nelle pieghe della pelle.  Stringo, piallo, limo: il racconto dimagrisce. Alla fine, glielo ri-sottopongo. Niente da fare, sempre troppo lungo. Decido così di lasciarlo dormire, seppure dimagrito, in un cassetto.

Poi, l’altro giorno, ho pensato a Margutte…

Numerose volte ho cercato di contattare Sylvain Tesson sui suoi siti Web, personali o editoriali, per comunicargli la mia intenzione di pubblicare, in italiano, un riassunto del suo racconto originale. Senza risposta. Se un giorno o l’altro cliccasse su Margutte e il racconto gli venisse tra le mani, sono sicuro che non me ne vorrà. Nota bene: si chiama Sylvain, come me.

Mi perdonerà anche per aver scelto un titolo più facile e diretto: Il leopardo delle nevi, al posto del titolo originale: La seconde côte d’Adam (La seconde costola d’Adamo), dal significato più recondito.

E adesso, una breve, stringatissima biografia.

CENNI BIOGRAFICI
Sylvain Tesson nasce nel 1972 da una famiglia parigina di giornalisti e artisti. Geografo di formazione, scopre l’avventura durante una prima traversata in bicicletta del deserto centrale d’Islanda, poi nel corso di una spedizione speleologica nel Borneo.

Tra il 1993 e il 1994 compie il giro del mondo in bicicletta con il suo amico Alexandre Poussin.

Sempre con lo stesso, nel 1997 attraversa l’Himalaya a piedi: 5000 km in 5 mesi dal Bhutan al Tagikistan.

Nel 1999-2000 attraversa le steppe dell’Asia centrale a cavallo con la sua compagna fotografa, Priscilla Telmon: 3000 km da Alma Ata al Kazakistan.

Nel 2001-2002 partecipa a delle spedizioni archeologiche in Pakistan e in Afghanistan.

Nel 2003-2004 riprende, a piedi, l’itinerario dei prigionieri evasi dal gulag, dalla Siberia a Calcutta.

Nel 2010 va a vivere per sei mesi, in assoluta solitudine, in una capanna al sud della Siberia, sulle rive del lago Bajkal.

Nel 2012 ripercorre in moto con sidecar la ritirata di Napoleone, da Mosca a Parigi.

Viaggia regolarmente con mezzi propri, in totale autonomia. Le sue spedizioni sono finanziate con i proventi dei documentari cinematografici, cicli di conferenze e i numerosi libri che sempre seguono le sue spedizioni.

Di lui si è sempre detto, e non a torto, che la sua smania di vivere in sfida contro tutto, compreso se stesso, un giorno o l’altro l’avrebbe messo nei guai. Non gli bastava infatti la smania di avventura, anche la più rischiosa. Da sempre soffriva di un vizio ‘parallelo’: la cosiddetta ‘stegofilia’. La smania di arrampicare su manufatti architettonici urbani: chiese, grattacieli, ponti, monumenti… 

Nell’agosto del 2014, dopo aver festeggiato la pubblicazione del suo ultimo libro, Berezina, presso la casa editrice Guérin, arrampica e cade dalla facciata di una casa di Chamonix. Si fa parecchio male: trauma cranico, coma, lesioni fisiche (quasi) irreversibili. La vivacità di Sylvain Tesson entra in eclissi per dei lunghissimi mesi.

Ne è uscita da poco. Un po’ rotta dentro, un po’ basita. La meravigliosa stella brillante di Sylvain si sta rigenerando in una dimensione crepuscolare.

Da poco, con fatica e a scopo terapeutico, ha attraversato tutta la Francia a piedi, dalle montagne sopra  Nizza alla punta della Bretagna seguendo esclusivamente quelli che lui chiama “I sentieri neri”: le vecchie carrarecce rurali che non appaiono nemmeno nelle carte al 25.000. Titolo del libro, appena pubblicato: Sur les chemins noirs.

Ritornerà, ne sono sicuro, alla luce bianca del sole. Ma gli sarà rimasto un piccolo bip di allarme.

Meglio così. Perderlo sarebbe stato un disastro.

***

Il leopardo delle nevi

Quindici giorni che salivano… Avevano lasciato dietro di sé le valli fertili, le colline terrazzate, i rododendri giganti, i boschi di conifere che annunciavano le grandi altezze. Verso i quattromila metri anche gli ultimi arbusti erano svaniti per permettere al sole di inondare le praterie in fiore. Più in alto, ai piedi delle morene che scendevano dal Kangchenjunga, erano rimaste solo le rocce, rose dalle intemperie; e il brillio dei ghiacciai.
Non erano alpinisti: erano tre scienziati sovietici alla ricerca di fotografie che nessun uomo aveva mai scattato. Fino ad allora solo poche testimonianze… tracce… fotografie sfuocate di ombre fuggenti. L’oggetto del desiderio che i tre zoologi sognavano da anni era una serie di fotografie ravvicinate del leggendario leopardo delle nevi, folgorato dalla siringa anestetica sparatagli a breve distanza sul luogo dell’agguato. Un sogno che erano pronti a pagare molto caro in termini di fatica, di privazioni e di settimane passate all’addiaccio.
Il più anziano era Anatole Dimitrievitch, decano dell’università di Minsk, esperto mondiale di felini d’alta quota. Il secondo, più giovane di lui, era Koulia Migovsky, suo brillante allievo, un ucraino dalla mente rapidissima, lui stesso agile come un felino, ambiziosissimo. Lo scienziato più giovane era una donna, Vera Dimitrievitch, moglie dell’accademico, convertitasi alla zoologia per amore del professore, più anziano di lei di oltre vent’anni.
Anatole era il capo spedizione, ma tutta la logistica era stata gestita da Koulia, partito prima della coppia per preparare a Kathmandu l’itinerario e gli zaini della spedizione. Niente doveva mancare: carte, macchine fotografiche, binocoli, attrezzi da cucina, sacchi a pelo, una tendina per tre persone e il fucile a siringhe ipodermiche. Koulia si era anche procurato una carabina Winchester per integrare la scarsa dieta con qualche marmotta o qualche baral. Contavano di approvvigionarsi nei villaggi che avrebbero attraversato, ma contavano soprattutto su un piccolo monastero a Drohmo, a 4500 metri, dove avrebbero potuto comprare dei viveri. Il monastero si trovava a una giornata di marcia dal luogo designato come campo base, sotto il colle di Lapsang, dove una precedente spedizione aveva scoperto dei frammenti di ossa di leopardo.

Quella sera avevano deciso di fermarsi a Sangdabandi, lugubre villaggio di catapecchie sul versante nord della valle. All’ingresso del villaggio incrociarono tre tibetani: cadaveri vestiti di stracci, fantasmi di un mondo di neve con una luce di sgomento negli occhi . «Arriviamo da Lhasa, le truppe cinesi alle calcagna… Alla frontiera ci sono mucchi di donne morte… Lassù cola il sangue…» e continuarono il cammino verso Kathmandu.
I tre russi chiesero del posto di polizia, molto attivo in quei tempi. Sulle creste all’intorno si erano visti movimenti di truppe, a volte anche verso i 6000 metri. Le frontiere indiana e cinese non erano lontane. Ma c’era di più: quel giorno, dal Capitano Chauan si era presentato un giovane pastore con gli occhi talmente stropicciati che pareva soffrire. Sua sorella era scomparsa: se l’era presa lo yeti.
«Chhh!» disse Koulia, sprezzante. «Anche in Ucraina ogni tanto scompaiono delle bambine… o dei bambini… Lo yeti: chhh!» e sputò a terra con disgusto.

Ripresero il cammino l’indomani per raggiungere il monastero prima di notte. In prospettiva, dieci ore di marcia su per una valle larga e selvaggia, coperta di un’erba rasa su cui vagavano gli yak, liberi come l’aria.

Durante la pausa di mezzogiorno Koulia uccise una marmotta. Carne cattiva, piena di grasso. «Stasera al monastero, compreremo della tsampa» disse Vera. «Con qualche chilo di tsampa si vive tutti e tre per diversi giorni.»
Dopo il pasto, i tre ricercatori discussero dei fatti successi al villaggio. La situazione si faceva seria sull’altopiano del Tibet. Folle sempre più compatte di fuggiaschi scendevano dai colli d’alta quota per cercar rifugio in Nepal. Anche l’episodio del rapimento della ragazzina da parte dello yeti fu discusso nei dettagli. L’ironia di Koulia era sferzante: non sopportava che Anatole lasciasse all’esistenza dello yeti il benché minimo spiraglio. Vera seguiva la discussione dei due uomini con occhio attento.
La discussione continuò durante la salita, ma Koulia aveva messo dei paletti invalicabili: «Sì, Anatole, hai ragione; questa è proprio la mia ‘debolezza’, come dici tu. Io metto la scienza da una parte e la mitologia dall’altra. E non me la sento di stare in mezzo, come vorresti tu. Io sto fermamente dalla parte della scienza».
«Peccato» disse Anatole, «avrei preferito lasciare la mia eredità accademica a uno scienziato capace non solo di ragionamenti lucidissimi, come sei tu, ma capace anche di apprezzare l’aspetto estetico del magico, del sogno… »
Nonostante l’altezza, il pomeriggio era caldo e la progressione lenta. La discussione continuò ancora a lungo, interrotta da pause di silenzio.
Dopo l’attraversamento di un gelido fiumiciattolo, Anatole si fermò, respirò a lungo e disse: «Ascoltami, Koulia. Devo dirti una cosa molto importante. Una cosa che sappiamo solo in due, Vera ed io. Voglio che la sappia anche tu». Guardò Koulia negli occhi, poi riprese: «Io l’ho visto, lo yeti, con i miei occhi, otto anni fa. Ero in missione a sud della frontiera tibetana e stavamo esplorando il versante bhutanese. Seguivamo degli yak selvatici. Un giorno, rientrando verso le nostre tende, ho sentito un odore violento di cadavere. Era là, vicino a un masso, immobile, a qualche metro da me e mi guardava. Uno sguardo d’oltretomba, di un’immensa vecchiezza. Ero pietrificato. Poco dopo mi ha girato la schiena ed è partito, gobbo e svelto come un vecchio acrobata. Ho vomitato, ho pianto e sono ritornato all’accampamento senza dire niente a nessuno. Solo Vera sa. E tu, adesso».
«Perché me l’hai detto?» disse Koulia con freddezza.
«Perché ho fiducia in te. Perché penso che tu riuscirai a incorporare nella tua mente anche questo dato scientifico. Confidenziale»
«E se fosse stato un orso, una scimmia, un langur perso nelle altezze?»
«E io, io che ho dato la mia vita allo studio degli animali selvatici mi sarei lasciato ingannare, in pieno giorno, a pochi metri di distanza?»
«E le storie di uomini selvatici? Dei reietti dei villaggi che vagano di cresta in cresta, di valle in valle? Hai visto i tre tibetani di ieri? Una settimana di erranza e già sembravano dei fantasmi»
«Smettila, Koulia. Sei un buon servitore della scienza, Sono fiero di te.»
«Ma allora da dove veniva il tuo animale? Da una pagina del Libro dei morti? O si tratta di un ramapiteco congelato e resuscitato un giorno d’estate?»
Si erano fermati. Da quel punto in poi la strada affrontava un’erta pietraia dove sarebbe stato difficile parlare.
«Io credo all’immensità dell’Himalaya» riprese Anatole. «Credo alla possibilità di sopravvivenza e alla stagnazione di un ramo ominide che, nella dismisura della catena, sarebbe riuscito a sfuggire alla vista degli uomini. L’Himalaya ha potuto lasciare una nicchia di salvezza a dei piccoli gruppi di naufraghi della preistoria. Le condizioni climatiche hanno potuto frenare la loro evoluzione fisiologica e bloccare il loro sviluppo. Hanno dovuto capire che l’uomo è il nemico. Per vivere felici, vivono in alto. D’altra parte anche il leopardo delle nevi non si è mai lasciato avvicinare…»
«Quello lo avvicineremo noi, fra pochi giorni, e fotograferemo il suo cranio, le sue zampe, la sua coda, i suoi denti… Non dubitare, Anatole. Lascia lo yeti ai tuoi lontani sogni. È il leopardo delle nevi che devi sognare adesso. Solo lui.» Attaccò l’erta con rabbia e non disse più niente fino al monastero di Drohmo, un luogo di una bellezza desolata, come sempre scelgono i religiosi, di qualunque religione, per far da cornice al loro disprezzo per il mondo.
I monaci li accolsero e li rifocillarono. Un lama parlò loro del leopardo delle nevi. Nessuno l’aveva mai visto, ma di notte, a volte, si sentiva qualcosa aggirarsi intorno alle mura. L’anno precedente, degli yak erano morti e un monachello era scomparso.
Dormirono sulle panche della sala delle preghiere, nell’odore acre del burro fuso di yak.

Passarono i giorni. Avevano installato il campo su un promontorio a strapiombo sul vuoto. Un luogo da Genesi. Sotto di loro, le morene glaciali del Kangchenjunga, solcate da torrentelli ghiacciati. In basso, lontanissimo, il monastero di Drohmo. Dall’alba al crepuscolo, sempre con gli occhi incollati ai binocoli, i corpi immobili, tesi allo spasimo. Sopra di loro un immenso cielo himalayano solcato da oche selvatiche e raffiche di vento infuriato.

Koulia, ogni tanto, cacciava i pochi animali che ancora sopravvivevano a quella quota. Aveva messo su un pietrone una carcassa di barkhor come esca. Un giorno si accorse che la carcassa era stata visitata e spolpata. Il felino si aggirava nei paraggi.
A Vera, un giorno, parve di scorgerlo, per un istante. Una forma graziosa, perduta nel caos pietroso che sprofondava sotto di loro. Da quel momento, vegliarono giorno e notte, alternandosi alla guardia, sempre in allerta. Koulia decise di passare le notti sul colle, nel sacco a pelo. Sentiva la sua presenza, ma l’animale non si mostrava. Delle tracce, un’impressione diffusa; nient’altro. E nell’entusiasmo dei primi giorni cominciò a insinuarsi il dubbio.

Era già giugno e il monsone si stava avvicinando. I primi cavalloni di nuvole, gonfi delle acque dell’oceano, erano in marcia. Criniere di pioggia avanzavano verso l’Himalaya. Cumuli torreggianti si accalcavano all’orizzonte. Anatole sapeva che il fronte del monsone si sarebbe abbattuto tra breve. Questione di giorni. Le cataratte avrebbero allora strappato pezzi interi di montagna che sarebbero precipitati nei fiumi gonfi d’acqua. Lotta terribile del cielo per impedire che la montagna salga verso di lui troppo in fretta. Avrebbero dovuto partire prima dello scatenarsi della furia della natura se non avessero voluto rimanere intrappolati dall’acqua e dal fango sulla via del ritorno.
Koulia batteva la montagna con uno sguardo feroce, da invasato. Si stava giocando lo scopo della sua vita! Vera e Anatole montavano la guardia, gli occhi attaccati ai binocoli per delle ore, spazzando le creste senza posa. Non parlava più nessuno.
Le nuvole arrivarono. Ci fu un primo, violento temporale, poi un altro. «Oggi leviamo il campo» aveva detto Anatole, tristemente, un mattino. Vera e Koulia erano riusciti a far rimandare la partenza. Restare ancora qualche tempo a scrutare l’immensità nella speranza di scorgere il pelame del felino dardeggiare nelle pietraie.
Un altro giorno passò, sotto un cielo pesante che stava per crollare. Un giovane getsul, mandato dal gran lama, era salito dal monastero fin lassù per vedere cosa contavano di fare i russi. Decisero di mandar giù Vera con lui. Avrebbero portato in basso gli strumenti più pesanti per alleggerire i due uomini che sarebbero rimasti ancora un giorno o due.

L’indomani Koulia vide il leopardo. Sotto il colle, a trecento metri dal campo. Con una sveltezza pesante, come fosse montato su cuscinetti d’aria, si diresse verso la cascata di ghiaccio, costeggiò a lungo la falesia nera, poi penetrò nella frattura di una roccia.
«È là» gridò Koulia fuori di sé. «L’ho visto, possiamo raggiungere il suo nascondiglio in meno di due ore!»
Il temporale si avvicinava, il cielo nero portava sulle sue spalle delle nubi terrificanti. Un muro immenso di energia elettrica rotolava a filo delle cime. Fra breve sarebbe arrivata l’arma letale dei fulmini.
«Bisogna rincorrerlo subito, subito! Non c’è un minuto da perdere!» urlava Koulia.
«No, non si rincorre più nessuno» rispose Anatole. «Tu non hai alcuna esperienza del monsone nell’Himalaya a 5500 metri. Tu sei pronto a morire, ma la scienza non vuole ricercatori morti. L’abbiamo visto, abbiamo raccolto degli escrementi, fotografato le sue orme, potremo testimoniare. Ritorneremo in questo posto, il leopardo è un animale stanziale. Tu hai visto la sua tana. Ritornerà lì per anni.»
«Capisco» disse Koulia sprezzante. «Tu preferisci gingillarti con le tue chimere, con i tuoi stupidi yeti. Sei diventato vecchio. Lasciami passare, andrò io, non mi lascerò sfuggire l’occasione della mia vita.»
«No Koulia, non partirai. Le fiale di anestetico ce le ho io, nella mia cassetta chiusa a chiave, e la chiave la porto al collo. Sono il capo spedizione, ho delle responsabilità. Non intendo scaricarle su di te. Soprattutto non in questo momento, a un passo dalla morte. Per entrambi.»

Uno schianto terrificante: un fulmine, grosso come il tronco di un albero, si era abbattuto a pochi passi dalla loro tenda. Lo schianto coprì il rumore secco dello sparo. Anatole cadde all’indietro, gli occhi spalancati, un buco nel centro della sua fronte, grande come una margherita. Nel fracasso non si era accorto di nulla.

Koulia posò a terra la Winchester fumante, strappò la chiave dal collo di Anatole, prese la cassetta, la macchina fotografica, la carabina per l’anestetico e si buttò a capofitto sul ghiaione  sottostante. Il buio stava scendendo. Quello che correva non era un uomo: era un indemoniato. Il temporale, alla fine, scoppiò. Pioggia, neve, grandine. Chicchi grossi come noci. I fulmini si schiantavano sullo zoccolo nero del Kangchenjunga e si allargavano a mo’ di lenzuolo. Drappeggi luminescenti di parecchi milioni di volt avvolgevano la montagna. Koulia saltava da una roccia all’altra producendo scariche di pietre che andavano a perdersi negli abissi sottostanti. Non aveva più paura: era lui stesso parte di quello scatenamento bestiale di forze della natura che faceva vacillare la montagna.

Due ore dopo giunse alla roccia verticale, staccata dalla parete della montagna, che aveva memorizzato dall’alto. L’ingresso della tana. Koulia rimase accucciato tutta la notte sotto la sferza degli elementi. La neve lo ricoperse.

All’alba, il primo a vederlo fu il leopardo. Accennò un balzo di lato ma Koulia sparò rapido. L’animale corse per una decina di metri, vacillò qualche secondo poi si abbatté a terra.

Koulia aveva vinto. La sua forza era immensa. Prese decine di foto ravvicinate: il muso, la bocca spalancata, i denti, la coda, il pelame, la schiena, i quarti svelti e possenti.
Ritornò ansimante alla tenda. Bisognava sbarazzarsi del corpo di Anatole. L’uomo era pesante, ma Koulia aveva la forza di dieci uomini. Trascinò il cadavere in salita, fino al ciglio del colle. Al di là si allargava, grande come una caverna, il crepaccio terminale del ghiacciaio che risaliva dall’altro lato. Il corpo sbatté sulla prima sporgenza ghiacciata, rimbalzò nel vuoto e si inabissò nell’imbuto senza fine.
Rapido, frenetico, Koulia recuperò l’essenziale e prese a correre verso il monastero, verso Vera, verso la vita, la gloria accademica, il successo per tutta la sua vita futura. Correndo ripeteva la versione che avrebbe dovuto raccontare a Vera, ai monaci, probabilmente anche alla polizia locale: nella tempesta, Anatole si era sporto sull’altro versante ed era caduto nel crepaccio. L’aveva chiamato per ore. Non c’era più niente da fare. Il leopardo l’aveva visto e fotografato sulla via del ritorno. Un segno del destino. Preparava risposte a ogni genere di domanda. Temeva Vera, soprattutto. Ma la sua determinazione era grande.
Giunse al monastero a tarda sera, accolto da un abbaiare di cani. Vera gli corse incontro e capì subito: «Anatole… Dov’è Anatole? Parla Koulia: è morto?».
«Sì, è morto; è caduto in un crepaccio, non c’è più niente da fare. L’ho chiamato per ore…» Vera scoppiò in lacrime e si gettò nelle sue braccia.
Pianse anche lui, finalmente, a dirotto. Piangeva come un bambino tra le braccia di Vera, la moglie del suo capo, l’uomo che aveva appena ucciso. E attraverso lo strazio delle ore passate sentì che il corpo di Vera era caldo.

Prigionieri. Prigionieri in un monastero d’alta quota sferzato dal monsone. Più in basso i sentieri erano stati spazzati, i ponti avevano ceduto.
Koulia aveva dovuto raccontare mille volte a Vera gli ultimi attimi di Anatole, gli eventi di quella sera. Il leopardo era apparso alto sul colle, alla luce di un fulmine. Si erano mossi subito. Dall’altra parte del colle Anatole era scivolato su delle rocce coperte di neve fresca, ed era caduto nel crepaccio terminale senza un grido. Aveva gridato lui, per ore, in quell’imbuto che rimandava solo l’eco dei tuoni e la sferza del vento. In piena notte era ritornato alla tenda e si era addormentato, sfinito. All’alba aveva raccolto poche cose e si era buttato giù per il pendio, verso il monastero.
Aveva visto il felino alla base dello zoccolo roccioso. Il fragore della tempesta era tale che il felino non l’aveva visto arrivare. L’aveva fulminato con l’anestetico. L’aveva fatto per vendicare Anatole. Era stato il destino.
Parlava senza posa, come un mulino a bugie, sempre le stesse. Raccontava a Vera quanto Anatole era stato coraggioso, si dilettava di quell’omaggio postumo.
Passarono altri giorni. Prigionieri nel monastero almeno fino a quando il capitano Chauan, di Sagdabandi, non fosse salito per constatare il decesso. L’aveva deciso il lama. I militari lasciavano i monaci in pace purché segnalassero il minimo incidente.

L’isolamento del monastero si prestava alla convalescenza del cuore di Vera. La gravità delle cerimonie religiose, il tepore delle stanze in cui i due russi erano confinati e l’oscurità che calava su di loro dopo il tramonto avevano trasformato la pena di Vera in una sensazione di immensa pace. Il tintinnio delle campanelle di preghiera, il tambureggiare della pioggia, il fruscio delle vesti dei monaci e il cibo austero illanguidivano i suoi sensi. In realtà, Vera non volle resistere al torpore un po’ malsano di quell’atmosfera e, sprofondando nel languore di quelle giornate deleterie, cadde nelle braccia di Koulia. D’altra parte – si diceva – negli ultimi anni l’amore che portava per Anatole si era ridotto a una mera complicità intellettuale.
Il monsone diede ai due nuovi amanti qualche giorno ancora per consumare il loro nuovo amore.

Il capitano Chauan arrivò una sera, con la prima schiarita. La decisione fu presa: sarebbero partiti la notte stessa, lui, Koulia e due giovani monaci. Avrebbero raggiunto il campo base l’indomani all’alba e dopo le constatazioni sarebbero rientrati al monastero prima di notte.
Giunti al campo e raggiunto il colle, i quattro uomini scesero brevemente verso il ghiacciaio sottostante, dove si apriva il crepaccio terminale. Tutti scrutavano la bocca bluastra del ghiacciaio in un gran silenzio. Solo in quel momento Koulia notò, con sua grande sorpresa, che Anatole, cadendo, aveva perso il berretto: una piccola macchia gialla era rimasta appesa a una rugosità della parete ghiacciata, irraggiungibile. I due monaci gettarono una manciata di tsampa nel crepaccio, poi tutti ridiscesero sotto il temporale.
La sera stessa Vera e Koulia cenarono con il capitano Chauan che redasse, alla luce di una candela, l’atto di decesso accidentale. In tre copie.
La partenza era fissata per l’indomani. Vera era triste di interrompere il flusso sonnolento dei giorni passati al monastero. Le sembrava che la memoria di Anatole si confondesse con quei luoghi severi e un po’ sfuocati. Koulia tratteneva appena una sorda eccitazione. Davanti a lui: le fotografie del leopardo delle nevi, conferenze in tutto il mondo, pubblicazioni sui migliori giornali, sarebbe diventato professore emerito, direttore di laboratorio. Davanti a lui non c’era più nessun ostacolo. L’avvenire cantava, felice.

L’indomani, alle cinque del mattino, una mano scosse la spalla di Koulia che dormiva. Era il capitano Chauan, in divisa, armato, inquadrato da due monaci guardiani.
«Venga un istante, signor Migovski.»
«Partiamo già?»  mormorò Koulia.
«Non subito. Vorrei farle vedere una cosa»
Scesero al pian terreno, attraversarono la sala delle preghiere, oltrepassarono la pesante porta di legno, passarono sotto le tende dell’ingresso e uscirono sui gradini della grande scalinata esterna.
Nevicava.

«Si avvicini. C’è un dettaglio che la interesserà» disse il capitano.
Era il corpo di Anatole, supino, il viso contro il cielo, un foro raggiato al centro della fronte, piccolo fiore di verità.
«Qualcuno l’ha appena deposto qui.»

Intorno al cadavere, perfettamente impresse nella neve fresca, enormi impronte di piedi nudi, lunghe sessanta centimetri, attraversavano lo spiazzo del monastero e risalivano, regolari, verso le altezze.
Una dopo l’altra, una dopo l’altra, si allontanavano per andare a perdersi nelle nebbie rosate dell’aurora nascente.

***

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