La mensa della Colonia Cecilia

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ISABELLE FELICI

Il convegno “Le cucine della solidarietà” organizzato dal circolo culturale ARCI Cucine del popolo di Massenzatico nei giorni 3, 4 e 5 ottobre 2014 (http://cucinedelpopolo.com) è l’occasione di evocare la colonia Cecilia da un punto di vista diverso da quelli abituali: cosa e come si mangiava alla colonia Cecilia e quali espressioni di solidarietà si sono manifestate intorno alla questione dell’alimentazione?

Non entriamo qui nei dettagli della storia e della leggenda di questa comunità anarchica se non per ricordare che è stata fondata nel 1890 da Giovanni Rossi, internazionalista della prima ora, anarchico, agronomo e veterinario, figlio di un avvocato pisano, e che l’esperienza di messa in pratica dei principi anarchici è stata condotta fino al 1894 a Palmeira, nello stato del Paraná, in un posto ancora oggi isolato e spopolato.

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Giovanni Rossi

Quello della comunità sperimentale è per Rossi un progetto che lo occupa per tutta la vita e che lui considera come una terza via al socialismo. Svolge così un’intensissima attività di propaganda, attraverso un romanzo, che conosce ben cinque edizioni, intitolato Un comune socialista, attraverso alcuni esperimenti condotti in Italia, tramite articoli, pubblicati in tutti i periodici anarchici e socialisti dell’epoca, e una pubblicazione specifica, “Lo Sperimentale” dove può sfoggiare tutto l’entusiasmo che lo abita:

«Quando [le moltitudini] vedranno nella loro provincia una fattoria socialista coltivata a perfezione, dove crescono i frumenti più belli, le vigne più produttive, dove si alleva il bestiame più perfetto, e in questa fattoria saranno accolti, messi al corrente dell’ordinamento comunista, accertato il benessere dei coltivatori e la buona armonia che regna tra loro, presto in tutte l’osterie della provincia, in tutte le famiglie campagnuole, si parlerà di un fatto così straordinario, e il comunismo, oggi sconosciuto, deriso e calunniato, diventerà aspirazione popolare». (Giovanni Rossi, “Lo Sperimentale”, n.1, maggio 1886)

Quest’intensa attività non riceve molto appoggio da parte dei socialisti e degli anarchici dell’epoca. Tanti si esprimono in modo negativo sulle comunità, su quella di Rossi o in generale, poiché il dibattito è in corso alla fine dell’Ottocento. Si potrebbe citare Malatesta, Reclus, Kropotkine, Converti, Costa, Turati, la Fédération Jurassienne… ma dato il luogo storico nel quale ci troviamo, nel paese che ha visto nascere il primo centro sociale in Italia fondato da Camillo Prampolini nel 1893, citiamo lo stesso Prampolini che sembra vedere Rossi come uno scienziato che si sforza di mettere in una scatola degli insetti per meglio osservarli e non come un uomo d’azione:

«L’idea di questa colonia mi pare più di uno scienziato, di un amatore che vuole sbizzarrirsi e soddisfare una sua curiosità che non quella di un uomo d’azione che, convinto della utilità di una società socialisticamente ordinata, tende a provocare questa trasformazione». (Camillo Prampolini, Colonia agricola cooperativa. Adesioni e critiche, “La Favilla”, Mantova, 19 febbraio 1885)

Un’altra critica spesso rivolta a Rossi, e a quelli che come lui sono a favore delle comunità anarchiche, è di essere un disertore dalla vera battaglia rivoluzionaria (Malatesta), e il parere generale è che le comunità sono sempre destinate al fallimento perché è impossibile fare astrazione dall’ambiente circostante e cioè dalla società borghese (Fédération jusassienne, Reclus, Kropotkine).

Senza interrogarci, come spesso si fa quando è questione della Cecilia, sulla validità del progetto e senza decidere qui se la Cecilia fu un fiasco o meno, ricordiamo che l’obiettivo iniziale di Rossi era, certo, di svolgere un esperimento di messa in pratica dell’ideale anarchico, ma anche di aiutare finanziariamente la propaganda in Europa. Così scrive a “La Révolte”:

«Porto Alegre, 22 mars 1890
Nous entendons constituer ici une colonie anarchiste, laquelle puisse donner à la propagande une démonstration pratique que nos idées sont justes et réalisables, et à l’agitation révolutionnaire en Europe des secours financiers».

Rossi stende questa lettera a Rio de Janeiro, mentre è ancora in viaggio verso il luogo che ospiterà la colonia, e la manda a un giornale anarchico parigino e non italiano, segno che Rossi potrebbe essersi indispettito dell’accoglienza così fredda che è stata riservata al suo progetto. Quando lo stesso Rossi farà più tardi il bilancio dell’esperimento, per esempio nel 1917, per la rivista di Luigi Molinari, “Università Popolare”, mostrerà a posteriori di aver avuto esigenze meno ambiziose:

«La Colonia Cecilia mostrò che un centinaio di persone in condizioni economiche piuttosto sfavorevoli aveva potuto vivere due anni, con piccoli contrasti e con reciproca soddisfazione, senza leggi, senza regolamenti, senza capi e senza code, sopra una proprietà comune, lavorando spontaneamente in comune».

Certo la Cecilia ha permesso a un centinaio di persone (ma non tutte assieme e non tutte per la stessa durata) di vivere senza leggi e senza proprietà individuale, ma in questo bilancio del 1917 non è più percettibile l’entusiasmo dei primi tempi. Inutile precisare che non si sono raggiunte l’agiatezza e la felicità augurate: solitudine, stanchezza, sacrifici, miseria, sofferenza sono le parole che tornano spesso nei vari resoconti della Cecilia di cui si dispone.

Fra i sacrifici e i motivi di sofferenza, c’è la solitudine dal punto di vista sentimentale e sessuale. L’episodio d’amore libero, il cui resoconto continua a essere diffuso in tutte le lingue, è il secondo approccio più frequente quando si discute della Cecilia. Non è inutile fare un accenno alla famiglia poliandrica (che ha come perno una donna), al bacio amorfista: «multiplo e contemporaneo intreccio di affetti, da tutti desiderato, da nessuno temuto», che sono gli aspetti più moderni e rivoluzionari che Rossi e la Cecilia ci lasciano in eredità, tanto più che esiste un legame, metaforico, con il cibo. Infatti, per indicare i membri della comunità rimasti ostili all’amore libero, in pratica chi aveva una moglie, Rossi usa l’espressione «borghesi dell’amore dalla pancia piena».

Per quanto ricorda la questione dell’alimentazione alla colonia Cecilia, è importante tener conto, come per tutte le altre questioni, delle diverse fasi che caratterizzano l’esperimento: non c’è stata una colonia ma diverse colonie Cecilia. Il primo periodo dura circa sei mesi. La colonia è allora costituita dal gruppo di pionieri: alcuni uomini e una donna (moglie di uno e sorella di un altro) che vivono in una capanna trovata sulle terre procurate dall’Ispettorato delle terre e colonizzazione che riceve Rossi e i pionieri come gli altri emigranti che giungono allora a decine di migliaia nel sud del Brasile, desiderosi di “colonizzare” un pezzo di terra vergine. Questi pionieri sistemano la capanna, dissodano il terreno, piantano un vigneto, seminano fagioli e patate, fanno legname per costruire un’altra casa, costruiscono la cucina comune, preparano il terreno per la mandioca… Un lavoro ingente.

Dopo questi sei mesi, Rossi torna in Italia: quelli che avevano promesso di raggiungere i pionieri hanno cambiato idea e si tratta di convincere altre persone a raggiungere la colonia. Quando Rossi torna nel luglio 1891, dopo una tournée di propaganda durata otto mesi, si è appena conclusa una seconda fase, quella più dolorosa: tante famiglie sono arrivate dall’Italia, mandate da Rossi, prima alla spicciolata poi tante insieme, e la colonia giunge al numero di centocinquanta forse duecento membri. La colonia non resiste a questo agglomeramento improvviso e muore una prima volta, quando sette giovani, poi raggiunti da alcune famiglie di quelle che erano partite continuano l’impresa.

Forse risale a questo periodo la fotografia che è spesso presentata come l’unica foto della colonia Cecilia. E infatti la lunga parete che si vede sulla destra potrebbe corrispondere alla descrizione che fa Rossi del «lungo baraccamento d’alloggio».

Colonia Cecilia

Più tardi, si costruiranno anche delle casette, dei casotti dice Rossi, circa una ventina.

Arrivano e ripartono ancora altre famiglie, lo stesso Rossi lascia la colonia nel maggio 1893, non senza redigere il bilancio dell’esperimento: le vicende, le attività, l’episodio d’amore libero.

Da questo testo del 1893, e da altri resoconti, si ha anche una buona idea del cibo consumato alla colonia. Si desume che durante i primi sei mesi si mangiava soprattutto carne, fagioli e polenta, nella seconda fase, prima della prima morte della colonia, polenta, carne e fagioli, e per gli ultimi due anni fagioli, polenta e carne! Ci sono pure altri alimenti, che tendono a sparire con l’andar del tempo, come vediamo in questi estratti di diversi resoconti:

«Il nostro vitto consisteva principalmente in polenta di granoturco bianco, che facciamo macinare al molino della vicina colonia russa; fagiuoli neri, cotti e conditi con lardo di maiale, carne di manzo salata; ortaggi coltivati da noi, aranci squisiti, raccolti in gran copia nel nostro giardino». (Rossi, 1891)

«Per ora i nostri cibi sono : riso, fagiuoli, polenta, maiale, carne di bove, salami, caffè, latte, tutto in grande abbondanza.
Il pane è poco, perché bisogna comprarlo, ma più presto che si sarà trovato il materiale e la calcina per poter fabbricare un forno, allora cesseremo la polenta e passeremo al pane». (Lettera di un colono, aprile 1891)

«J’avertis ceux qui désirent en faire partie qu’ils doivent être convaincus que là-bas, il n’y a pas encore l’abondance : ceux qui s’y rendent doivent se résoudre à de grands sacrifices en attendant les récoltes». (“La Révolte”, 1892)

«La nourriture, qui par économie se prépare en communauté, laisse beaucoup à désirer : elle est formée principalement de riz, haricots, lard, légumes, farine de manioc et de maïs, de viande et de café». (“La Révolte”, 1892)

Anche la speranza di fare il proprio pane viene meno: Rossi, da esperto agronomo, osserva fin dal giorno dell’arrivo sul sito della Cecilia che nei dintorni si coltiva poco frumento.

Alla Cecilia, si deve dunque fare i conti con la monotonia del cibo, con l’assenza degli alimenti più prelibati per gli italiani (pane e pasta) e soprattutto con la scarsità. A parte all’inizio, quando i coloni sono pochi, alla colonia Cecilia si patisce la fame e ci vuole forza di volontà, senso del sacrificio e umorismo per portare avanti l’esperimento:

«Spesso, a stomaco vuoto, i giovani si appoggiavano sulla zappa e guardavano sventolare la grande bandiera rossa e nera issata sopra un alto palmizio, e dicevano tra loro scherzando: d’un po’ di polenta e d’un po’ d’ideale si vive».

Se non c’è autosufficienza, è un po’ per le disgrazie che la colonia subisce: il raccolto è rovinato dal bestiame perché chi era incaricato di fabbricare lo steccato non ha finito il lavoro; la cassa comune viene derubata da un membro della colonia. Ma se incidenti di questo tipo hanno conseguenze così gravi, è proprio perché la povertà è strutturale: bisogna andare a lavorare sulle strade che il governo sta costruendo per garantire le spese presso i fornitori.

Il lavoro svolto alla colonia non basta, né quello agricolo, né quello industriale: viene infatti allestita una calzoleria e anche una fabbrica di barili. Nei dintorni di Palmeira, si produce già vino alla fine del secolo XIX, ma secondo Rossi, pochi sanno ottenere buon vino perché non lasciano tempo sufficiente alla fermentazione. Dal vigneto piantato dai pionieri della Cecilia, a quanto pare, non si ricava vino durante l’esperimento. Ma è forse da questo vigneto che si produce e si commercializza oggi il vino di Santa Barbara, che attira gli appassionati di turismo rurale. Rimandiamo all’articolo intitolato “Enoturismo en Santa Barbara”, che pubblicizza l’attività viticola di due discendenti di membri della colonia Cecilia (http://profluizgeo.blogspot.fr/2010/02/enoturismo-em-santa-barbara-mapa-do.html). All’epoca della Cecilia, non si beve vino, perché costa troppo.

La scarsità del cibo, la povertà della colonia e il celibato forzoso non favoriscono la solidarietà. Dice Rossi, a proposito del periodo che abbiamo caratterizzato come la seconda fase della colonia, quando c’erano più di cento persone, che «si fecero palesi gli egoismi di famiglia e la parentela spesso mangiava mentre gli altri digiunavano». L’assenza di solidarietà si verifica anche quando la colonia muore per la prima volta, quando il capitale sociale viene recuperato da sette famiglie che se lo dividono e altri ripartono col bestiame che gli appartiene legalmente, ma non moralmente, dice Rossi.

Al momento del bilancio, Rossi elimina questa fase della colonia, quando si erano imposte certe individualità, quando si era istaurato «un grottesco sistema di referendum», quando «si perdeva molto tempo in assemblee oziose dove si votavano regolamenti, si parlamentarizzava fino a incretinire». Rossi fa il bilancio a partire dal momento in cui «per una reazione naturale al formalismo sterile e funesto del periodo passato, il gruppo volle essere assolutamente inorganizzato». Nessun patto, nessun regolamento, nessuna misura fissa. I volontari si riconoscono tra loro e s’intendono senza bisogno di adunanza di gruppo.

Ma anche in questa ultima fase che permette a Rossi di dire che sì, l’esperimento di messa in pratica dei principi anarchici è un successo, non è facile liberarsi dalle abitudini antisociali ereditate dalla vita borghese da cui i coloni della Cecilia sono appena usciti. Né mostri di perversità, né angeli di mansuetudine, i coloni della Cecilia credono nell’azione lenta e continua di un ambiente sociale igienico. Ciò nonostante, Rossi aggiunge che:

«In cucina troverete tra le donne la ghiottoneria, l’invidiuzze, le alterigie, i pettegolezzi. Su i campi un po’ di testardaggine e un po’ di risentimento contro quelli che hanno meno volontà di lavorare; nei laboratorî qualche episodio di rivalità; nelle famiglie molto egoismo domestico; in tutti, un certo spirito di malcontento, di diffidenza, di combattività. Di quando in quando un lamento, un rimprovero, un’accusa; delle simpatie e delle antipatie; delle tendenze a parteggiare».

La miseria e le privazioni materiali spiegano molti di questi atteggiamenti contrari alla solidarietà che ha comunque un nemico intrinseco, la vita di famiglia, genitrice più feconda di egoismi e rivalità:

«Per me, sono tanto convinto che la famiglia è il più grande focolaio di immoralità, di cattiveria, di asinaggine, che se mi fosse dato distruggere a scelta uno dei grandi flagelli umani: la religione o le cavallette, la proprietà individuale o il cholera, la guerra o le zanzare, il governo o la grandine, i parlamenti o le fistole, la patria o la malaria, senza esitare, sceglierei di distruggere la famiglia».

A seguire quello che scriveva Rossi dopo l’esperienza della Cecilia, la fine della famiglia sarebbe dunque la soluzione per una più grande solidarietà. Resta il fatto che nella cucina della Cecilia, a quanto pare, entravano solo le donne. La soluzione sarebbe dunque forse anche di fare entrare tutti gli uomini in cucina.

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Fotografia di Cristina Duarte Simões

http://isabellefelici.net/

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