Ognuno di noi ha una sua memoria del Cinema.

Gianni Bava racconta

Gianni Bava racconta

PATRIZIA GHIGLIONE

Una storia di ricordi e di cose che vanno avanti. Io mi ricordo il cinema di quando ero ragazzino, quello dove andavo con mio fratello a vedere i famosi film di Sandokan. Più che western, vedevamo i film di Sandokan. E poi, quando ero già un po’ più grande, i primi film di 007.  E siamo nel ’66. Poi continuavamo ad andare al cinema, regolarmente. La storia del cinema a Mondovì, per un lungo periodo gira tutta intorno ad una famiglia, una famiglia che pian piano è entrata nel linguaggio cinematografico locale, come un tutt’uno con esso. Questa famiglia Scarrone praticamente ha portato il cinema a Mondovì. Le sale erano sparse un po’ per tutta la città, ce n’erano 3 o 4. È una cosa curiosa, perché Scarrone era diventato il protagonista invisibile ma assoluto del cinematografo, nel bene e nel male. Quando, per esempio, la pellicola slittava, durante la proiezione, e c’era un’interruzione, si gridava «scarùn!». E questo scarùn è entrato nell’immaginario del pubblico monregalese al punto che lo si esportava: ho sentito gridare «scarùn!» anche lontano da questa città, in occasione di un analogo problema, durante la proiezione. Passarono gli anni d’oro della cinematografia, quelli durante i quali la famiglia Scarrone fece investimenti importanti, aprì per esempio una sala nel quartiere nuovo della città, il cinema Italia. Una sala molto bella, che è rimasta avviluppata all’interno di qualche recente costruzione. Sulla facciata del cinema Italia c’era un’immagine-logo creata addirittura da Ego Bianchi, un famoso artista cuneese. Successivamente, arrivò la prima crisi del Cinema italiano. Il proprietario faticava ad andare avanti, così lo spazio delle sale venne occupato con proposte alternative capaci di attrarre un pubblico ampio, con gli spogliarelli, per esempio. Eravamo nel ’75/76 e forme di contestazione accompagnarono queste iniziative. Che, d’altra parte, riempivano la sala. «Scarùn patanu» (scarrone nudo), dicevano i cartelli dei manifestanti.

Con il disastro del cinema Statuto di Torino, intanto, si presentarono i problemi legati alla sicurezza delle sale; problemi doverosi che, però, per le piccole aziende private, rappresentavano uno scoglio a volte insuperabile. Fu così che la famiglia Scarrone, dopo aver proseguito con fatica, cominciò a chiudere.

Il cinema a Mondovì cominciò così a riconoscersi in un’altra figura, ad assumere una dimensione “parrocchiale”. C’era, allora, un teatrino di un quartiere popolare originariamente nato per ospitare gli spettacoli di una compagnia locale di teatro dialettale. Il teatrino venne ristrutturato e si trasformò in sala cinematografica, pur mantenendo contemporaneamente la sua antica destinazione. Dietro a tutto questo sta la figura di un prete, una appassionato di cinema, figura magra e segaligna, uomo con un cipiglio duro e altero. Un cinema parrocchiale, dunque, un cinema da preti. Ma la programmazione non era certo quella di un oratorio: non si trattava, infatti, di un cinema censurato, ammuffito. Il Cinema Bertola ospitava, anzi, le pellicole in circolazione senza peli sulla lingua. C’erano stati, fino ad allora, i film di prima visione e i film di seconda visione. A Mondovì alcuni arrivavano un anno dopo, altri non arrivavano proprio. Poi, c’erano stati i film di serie A e i film di serie B: i secondi, non è che fossero orribili, erano fatti da registi poco conosciuti, che lavoravano con attori bravini, ma non bravi. E usavano, tra l’altro, le scenografie che rimanevano in piedi dopo le riprese dei grandi film. Le tracce delle pellicole importanti, insomma, venivano riciclate e utilizzate per produzioni minori. In questi casi, però, la mancanza di mezzi economici stimolava, a volte, gli autori a sviluppare abilità particolari, a trovare soluzioni interessanti.

La distribuzione, intanto, aveva cambiato strategie e fu così che il Cinema Bertola trovò più porte aperte, maggiore facilità di accesso alle pellicole di qualità. Mondovì cominciò, dunque, ad avere i film che passavano anche a Torino e a Cuneo. La programmazione cinematografica era affidata a un prete, che non era soltanto un prete. Don Piero era anche pubblicista, giornalista, appassionato di cinema. E ci mise il becco, in questo cinema, in modo potente, occupandosi, in particolare, dei rapporti con la distribuzione. I distributori, questi strani personaggi che ti dicono quanto puoi tenere un film, quanto ti costa tenerlo: gente con cui è indispensabile un’azione di contrattazione continua per ottenere il più possibile con la minima spesa. Con don Piero, con il quale condividiamo la passione per quest’arte, iniziò la mia collaborazione. Cominciammo a stabilire un contatto diretto con il Festival di Venezia. Ogni anno, a partire dal film vincitore della mostra, ci assicuravamo una serie di pellicole provenienti dalla stessa. Nel ’93, poi, iniziammo l’esperienza del cineforum, partì una nutrita rassegna di film che proponeva un cinema insolito, nascosto. Passavano film interessanti, che stimolavano la discussione, che aumentavano la partecipazione. Ci si trovava in due o tre intorno ad un tavolo, una volta l’anno e si decideva. Abbiamo proposto film veramente curiosi. Così il cinema cominciò a girare bene e fece un investimento aprendo, al suo interno, una seconda sala: si diversificavano le programmazioni rispondendo a richieste più vaste.

E, non c’entra niente ma c’entra, si arrivò all’era del Titanic. Film che mobilitò le masse, film commerciale. Commerciale, certo, ma non sempre le pellicole di questo tipo sono da disprezzare. «Se lo guardano tutti, è una stupidaggine», non è vero. Titanic, dunque, trascina al cinema un sacco di gente, le sale si risollevano economicamente, si investe nuovamente nel cinema. Il Bertola stesso, aprì una succursale in un paese vicino. Don Piero, intanto, si smarcò, abbandonò la tonaca.  Avvenimento che rese necessario, per lui, l’allontanamento dalla nostra città. Certe situazioni richiedono inevitabilmente l’esilio. Rimaneva il suo collaboratore, un laico che altrettanto improvvisamente, scelse la tonaca. Mentre don Piero diventava Piero, Meo diventò don Meo. E se ne andò, missionario. Con loro, venne a mancare l’esperienza della mediazione con il mercato cinematografico e il disorientamento cominciò. Fu così che il Cinema Bertola cominciò a scricchiolare, le sue stesse poltroncine si logorarono in modo irreparabile. Se c’è qualcosa che comincia a rompersi, stai pur certo che c’è lì qualcuno pronto a metterci il dito dentro. Il messaggio che passò dal e al pubblico monregalese fu, allora, che  «il cinema Bertola fa schifo». Non era troppo vero ma certo, poverino, non si presentava bene. La programmazione cominciò a rallentare, la rassegna perse colpi: se prima si poteva contare sulla proiezione di 30/40 pellicole annue, ora rimaneva una ormai simbolica serie di pellicole che comprendeva quei sette/otto titoli e che si esauriva in pochi mesi. Si andava ormai avanti con uno zoccolo duro di 40/50 spettatori quando si era soliti poter contare su 300 tessere annue, 300 tessere non sono per niente male. Nel 2012 intanto, seconda data storica, il cinema digitale sostituì quello tradizionale. Le attrezzature necessarie comportavano spese impensabili e il Cinema Bertola diede forfait. Mondovì ed il suo popolo rimasero a guardare, impassibili. Del resto è innegabile il loro spirito che forse dovrei definire inglese, riservato ed individualista. Sai qual è il problema, magari se ne parla sottovoce, ma nessuno vuole metterci il becco.

Tutto il resto è un discorso che riguarda il cinema in generale. E qui comincia il discorso del vedere il cinema in casa. Trovo che certi film visti al cinema sono riuscito ad apprezzarli, a vederli in una certa maniera. Gli stessi film, in casa, li ho visti in modo distratto, li ho trovati anche noiosi. Comunque a casa non ho messo in moto il meccanismo di attenzione che nella sala mi viene naturale. Un film impegnato si può sentire faticoso anche al cinema ma se ne avverte, se c’è, tutta la potenza. Quella che lo schermo casalingo neutralizza. La socializzazione nella sala oggi è diventata più implicita, si vede meno, ma esiste sempre. Certo, una volta era altro. Un rito, era, entravi in un mondo. C’era il rapporto con la cassiera, talvolta anche con il proiezionista. Nel Nuovo cinema paradiso, film che mi pare abbia anche visto un Oscar, vedi il proiezionista che taglia materialmente la pellicola nel punto dei baci. Un cinema concreto, in cui il film ed il luogo della sua presentazione viaggiano strettamente a braccetto. C’è, anche qui, un’onda lunga di ricordi, per quel che mi riguarda. Al cinema si mangiava, si fumava. Non c’erano ancora gli americani pop corn, da noi arrivati tardi, ma si sgranocchiavano le noccioline, che americane si chiamavano solamente. Alcuni appassionati si portavano addirittura la gamella da casa. Un signore, di cui non ricordo il nome, entrava la domenica pomeriggio al cinema Ferrini portandosi dietro la minestra. E si vedeva tutte le repliche, fino alla fine della programmazione. Un mondo che ti porti dentro e che non ti lascia.

Nel ’97 morì il famoso Scarrone e io scrissi, in sua memoria, un articolo su un giornale che faceva più o meno così: «mi ricordo le tre sale.., mi ricordo i cartelloni.., mi ricordo la programmazione.., mi ricordo la domenica.., mi ricordo con le scuole.., mi ricordo la cassiera.., mi ricordo di aver visto due volte.., mi ricordo i cicli.., mi ricordo il mormorio.., mi ricordo il grido.., mi ricordo il freddo.., mi ricordo l’ultimo film. Mi ricordo quando ho saputo della morte di Ginetto Scarrone, di colpo, velocissimi, tutti questi momenti mi sono passati davanti agli occhi, e dentro il cuore».

(Beauwindow)