Mutamenti

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GABRIELLA VERGARI.

Salda al suo sostegno calcareo, la statua attendeva, come ogni giorno, il prodigio del tramonto netino, né il torrido pomeriggio domenicale pareva promettere altro nel suo pigro scivolare verso sera.
Presto il sole avrebbe acceso la magnifica pioggia di riflessi rosa-dorati sui monumenti del centro, indugiando fino a svuotare le piazze.
E l’incessante, frenetico andirivieni sarebbe lentamente scemato in moti più radi e composti.
I rumori, per strada, si sarebbero pian piano rifratti in una miriade di accenti diversi per consegnarsi vinti, seppure riottosi, ai fondi silenzi della notte.
Non più frotte di turisti avidi o curiosi, né capricci di bimbi.
Non più strombazzamenti di clacson, guizzi di motorini, chiasso di passanti, voci, commenti, allegro stormire di passere.
Ma non era ancora l’ora.
Bisognava pazientare, concedere i suoi ultimi sprazzi alla vertigine di movimento che pareva investire, di giorno, l’intero paese, uomini e pietre, cose e palazzi, come un’ossessione di caducità.
Accettarne ancora per poco la sfida, misurandosi col ritmo delle sue inquietudini.
Abbandonarsi alla perentoria necessità dei suoi vortici, cedere al suo imperio di instabilità risolto, come in giochi di prospettive, così in azzardi di linee, rigoglio di forme, incroci di sagome e fughe di contorni.
Tanto, la statua lo sapeva, di tutto quel quotidiano tributo al divenire, qualunque ne fossero le fogge ed i modi, avrebbe infine provveduto la notte ad acquietare le istanze, ricomponendole in immota saldezza, con la sua placida solennità.
E già i fedeli erano sciamati via dalla funzione vespertina, lungo la maestosa scalinata del Duomo, lasciando libero spazio al consueto, fugace tappeto di coppole nere, riunite a conclave prima dell’imbrunire ormai imminente.
Sfatta dalla calura e sonnolenta, si attardava sul sagrato solo un’attempata coppia di coniugi, esitante, a quel che pareva, dinnanzi allo sforzo preteso dai gradini.
Ma quando infine si mosse ad affrontarlo, lo fece con insolita eleganza ed insospettata leggerezza, come se si lanciasse, all’improvviso, ed allacciata per mano, in una sorta di danza a sé solo nota.
E, ad ogni scalino, la gonna di lei si sollevava civettuola, ondeggiando appena, mentre le ginocchia di lui molleggiavano elastiche, sciolte come in un morbido swing.
L’esibizione, del tutto inattesa, catturò l’attenzione della statua finché non si accorse che luci diverse avevano già preso ad insinuarsi tra gli ornamenti del palazzo Nicolaci, imponendo nuovi chiaroscuri ai tratti di mostri, mascheroni e sirene, che ora si confondevano in dissolvenze involontarie, ora si andavano marcando di profondità impreviste ed insolite evidenze.
Ombre sempre più lunghe stavano ormai lambendo anche la Chiesa di Montevergini, accentuandone le concave curve della facciata e, insieme, il rilievo della scalea.
Quanto al calcare dorato della Chiesa di S. Domenico, era prossimo ad acquistare anch’esso quell’irrepetibile luminosità che, da maestro, il crepuscolo soltanto sapeva donargli.
Il “ miracolo” era dunque alle porte: presto il plastico ondeggiare e la varia armonia dei prospetti barocchi si sarebbero incendiati di una sensualità più languida e voluttuosa, splendida nell’esaltare masse e volumi con la morbida corposità d’una guaina e la fascinosa seduzione d’una trina. Ed in quel tripudio generale perfino l’antico rilievo marmoreo della Villetta ed il tetro Monumento ai Caduti avrebbero conosciuto luci più intense e soffuse, riflessi più morbidi e sinuosi.
Dall’interno d’un cortile apparvero, a un tratto, mani ossute, nervose e metodiche, vivaci di dita energiche, leste a tirare giù dai fili del bucato, con strappi secchi e decisi, lenzuola ormai accartocciate dall’afa. E quelle, scivolando una per una con la stessa lieve grazia d’un sipario avvolto lentamente su se stesso, obbedivano docili, rivelando a mano a mano un fondale domestico, semplice ma dignitoso.
Avvinta se si può dire dal fascino di quel decoro, la statua trovò così più piacevole bruciare gli ultimi spasimi della sua attesa e solo quand’essi si furono tutti consumati, il tramonto si annunciò, finalmente, piovendo sul paese con sfolgorio sontuoso.
E in quell’incanto la statua allora si perse e obliò se stessa e tutto ciò che non esplodesse lì, in quel momento, al tocco perentorio di quel sole al declino, con gloria di luci e trionfo di toni.
Dell’urto, quindi, non si avvide, né colse lo schianto.
Non notò il contorcersi delle lamiere che si aggrovigliavano tra loro a troncare il ruggito dei motori, né lo spruzzo iridescente dei vetri che andavano in frantumi scagliandosi verso l’alto. Non la rosa che si dipinse, micidiale, sul parabrezza dell’uno, né l’innaturale pencolare dello sterzo dell’altro.
Sempre più presa e beata in se stessa, non vide neppure il capo bruno afflosciarsi inerte sul cruscotto, né il corpo del motociclista che si librava in aria, come libero infine e vacuo di peso, a valicare distanze mai forse agognate, a definire misteri mai prima sondati o vagheggiati.
Nemmeno udì l’urlo nero delle madri, lanciato a ferire il crepuscolo in disperata diffida alla notte, non il lacerante perforare delle sirene che sibilavano per strada la loro minaccia di morte.
Né si accorse dell’incredulo smarrirsi dei passanti, persi nella danza dei “come” e dei “che” prima di risolversi alle abituali occupazioni serali.
Solo della tersa, lieta frescura si accorse, che stava già affrancando uomini, pietre, case e palazzi dall’oppressione del moto e del caldo.
La quiete era dunque giunta, quello ne era il segno più palese, e sembrava voler calare sul paese con trasparente, rassicurante cortina.
La luna non si sarebbe fatta attendere a lungo.
Eccola, anzi, spuntare nitida e lucente come una promessa di pace.
Ma nel repentino deserto del luogo, fecero eco a quel lucore solo le lenti scheggiate d’un paio d’occhiali da vista ed una scarpa da tennis scompagnata, biancheggiando la loro solitudine sul selciato insanguinato.
Lassù invece, in alto, la statua ora vibrava, respirando catarsi e tormento nelle essenze più recondite e umorose della notte.

Mutamenti è stato pubblicato in “L’isola degli elefanti nani”, AG ed., Catania 2003

Margutte ha già pubblicato altri racconti della stessa autrice: qui, qui e qui

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