Femminea estasi

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«Con raro intuito critico, estetico ed anche antropologico, Franco Manzoni, nel suo saggio Femminea estasi, individua la singolarità della figura di Gabriella Cinti, caso unico nel panorama della lirica contemporanea italiana. Una poesia saffica e dionisiaca, pensata nei suoni, calata nella voce, che si fa corpo prima ancora di essere trascritta sulla carta. Altro tratto distintivo è l’attualizzazione della dimensione mitica originaria e archetipica, non solo greca ma soprattutto universale, attraverso cui leggere le vicende umane collettive e personali. Il mondo antico rivive così nelle liriche della Cinti e nelle performance con modalità iniziatiche ed esoteriche di fascinosa suggestione.»
(Dal risvolto di copertina)

Margutte ha ospitato la poesia di Gabriella Cinti in questi articoli:
Inoltrarsi nei paraggi dell’impensato
Nel cuore vertiginoso dell’oltre in cui nasce la poesia
Il suono delle parole e delle lingue, incontri di Traduzionetradizione

Capitolo 1

L’imprescindibile Saffo

Se la poesia risulta essere passione di pensiero e sentimento, intimamente fusi nei suoni, allora è impossibile non esordire, dichiarando l’adesione, l’intima appartenenza di Gabriella Cinti alle liriche di Saffo, proprio per la capacità della poetessa di Lesbo di compiere una presa diretta sui sentimenti, scandagliandone tutte le sfumature, senza scarti di sorta, cosicché, a distanza di secoli, ne consegue una straordinaria, perenne freschezza: quella di chi, per prima, al femminile, ha generato il prodigio della trasformazione della realtà in poesia, consegnando al mondo l’unicità di un’impareggiabile quanto diamantina concentrazione semantica. All’origine della poesia lirica occidentale c’è proprio lei, la Signora dei lirici greci, indubbiamente, a cui Cinti si dichiara devota, anche per quella milizia poetico-sacrale verso Afrodite, di cui intuisce un proprio misterico sacerdozio. La parola “assoluta” che Saffo respirava per grazia, quella capace di esprimere l’indicibile, è per Cinti il sogno, il nostos, l’orizzonte aurorale verso cui si protende, cosciente dello scarto che confina qualsiasi suo epigono in una irrimediabile velleità. Eppure è proprio questo fuoco, tensione suprema verso quella «fusione tra individuo e universalità simbolica, che è il sigillo della grande poesia»1, a portare Cinti a dichiararsi per intero debitrice di Saffo, che ha dato voce immortale, con il suo insuperabile e costitutivo fonosimbolismo, al «sovrumano del sentimento amoroso»2, con il coraggio dei superlativi, quello slancio semantico dell’anima a cui lo stesso Leopardi si è consegnato per dare voce – e felicemente – all’ineffabile.

Da questa matrice, altresì, muovono temi fondanti nella poesia di Cinti: lo stupore – il tháuma ellenico –, la potenza cataclismica del sentimento, l’impeto d’amore, che è ardore e slancio vitale, tesi verso livelli cosmici universalizzanti, la percezione del destino come Nume tutelare o ostile, in un’accezione del tutto greca, il transumanare per verba e per sentire, fino all’accesso a uno stato superiore, all’estasi, come vertigine del divino, introiettata e divenuta parola poetica.

Tutto questo, che in Saffo è suono, phoné, non meno che scrittura, circola, in un’analoga tendenza decisamente sinestetica, nell’ispirazione poetica di Cinti, come afflato di una sua diversa restituzione o di un suo fluire metamorfico, per arcano contagio. Se l’amore è esperienza dell’uno, in senso platonico ma anche largamente archetipico, tale dimensione tende in Cinti a esulare dalla sfera personalistica per sporgersi verso quei confini ontologici che lo rendono uno stato fondante dell’Essere. Non è un caso che, in modo particolare, i versi di Saffo, oltre ad essere oggetto di riflessione critica e filologica, costituiscano anche presenze consistenti nei suoi “spettacoli” di performer dei lirici greci, che Cinti interpreta in uno stato di tale identificazione, affine alla dimensione estatica: in ciò ribadisce la propria fedeltà all’idea di una poesia che, nata nella oralità, a essa vada restituita, nel mistero della parola pronunciata che esalta l’inaudita luminosità della musica poetica saffica. Il fascino dei versi di Saffo – definita da Dionigi di Alicarnasso, intellettuale vissuto a Roma sotto il principato di Augusto, come principale rappresentante, assieme ad Alceo di Mitilene, dell’harmoníe políe, la glaphùra synthesis3 (che potremmo tradurre con “composizione gentile, elegante, armonica”) – si deve anche a quel singolare tessuto fonico di prodigiosa fluidità, come appunto già Dionigi rilevava esattamente due millenni fa.

L’argomento della necessità, perseguita dalla Cinti, di una resa fonica di questa poesia, è un aspetto costante della sua personalità artistica e culturale, assai composita. tuttavia, già in approccio, pare doveroso collocare la predilezione saffica nel più ampio contesto della sua attenzione alla lingua greca, da lei amata e studiata con passione, specie nella dimensione lessicale e fonosemantica, e al mito,in particolare, oggetto anche di trattazione accademica nella sua tesi di dottorato sull’archetipo del labirinto e presenza incessante nei suoi versi. Saffo, di conseguenza, va a situarsi in un singolare pantheon di eroine, dee e semidee, dal destino sacrificale e spesso non sufficientemente valorizzate dalla tradizione mitica per le loro peculiarità di vicende, in cui sono perlopiù subordinate al maschile, come Euridice, Arianna, Semele e la stessa poetessa di Lesbo, nel suo vissuto non alieno da sofferenze e nel destino di una perdita di molte sue opere nelle epoche della trasmissione e trascrizioni dei diversi codici.

A testimonianza tangibile di tale rapporto ininterrotto possiamo cogliere la lampeggiante presenza in alcuni versi di Cinti, dall’intento iniziale espresso già in Suite per la parola: «Nel sogno / mi vedo portare / il mio canto ellenico, / negli spazi astrali sempre-notte, / punteggiati di stelle, / per appoggiare sulle sue amate Pleiadi, / le parole della divina Saffo, […]»4. Inizio di un cammino-missione, che prosegue con più ampio spazio nella silloge Euridice è Orfeo, dove si legge:

[…]

Ora, mia Saffo,
io congiungo le mie mani
e le appoggio con te
sulla volta celeste,

mia phoné
impronta di tua phoné,
amorosa cera di suoni

e il sigillo di Eros
ci unisca anima e ciglia

nell’infinito d’amore5.

Vi appare una connessione destinica di portata ben maggiore che una semplice componente ispirativa, anzi trapela una confessata identificazione esistenziale, oltre che poetica. Dal primo punto di vista, più oltre cogliamo un’immagine cara a Cinti, di una sorta di suo specchiamento persino nelle fattezze con cui la tradizione iconica romana ha consegnato la poetessa di Lesbo, al di là di una dubbia veridicità, ai secoli a venire, nel “dipinto pompeiano cosiddetto di Saffo”, conservato al museo Archeologico Nazionale di Napoli.

Per quanto riguarda la produzione successiva, e, in particolare, l’ultimo libro edito, Madre del respiro, in esso è da vedersi una dimensione poetica più estesamente saffica, «nel segno della più assoluta vocalità»6, nell’accezione che ben individua il prefatore Alberto Folin:

La sua è una lirica che non può prescindere dal melos, dal canto, non nel senso di una giustapposizione della musica alla parola […] ma in quello di una ricerca della musicalità nella parola stessa, nel suo allitterarsi e incresparsi in pieghe sonore, in potenzialità timbriche, nel suo ridursi a puro ritmo non per un mero esercizio di equilibrismo manieristico, ma per una volontà di farsi senso anche grazie alla sua precisa forma7.

Il modo di “allinearsi” a Saffo, lo struggimento nostalgico del suo paradiso poetico, di una cifra ineguagliabile, ma che pure suscita un esprit di amorosa sintonia, è così ancora colto da Folin, che ne mette in luce l’atteggiamento di autenticità e immediatezza:

E dunque, l’impossibilità di essere immediatamente antichi, se da un lato può indurre al rimpianto e alla nostalgia, anticamera dell’afasia, dall’altro spinge a interrogare ciò che rimane dell’antica «sapienza poetica», non solo per rivisitarne la bellezza che ne emana, ma anche – e soprattutto – per tentare di coglierne un’eco che possa ancor oggi farne sentire la dolorosa inattualità. ma come restituire quel sapore, quella «freschezza della natura» che Leopardi – a forza di ruminare Omero e Anacreonte, Teocrito e Saffo – respirava nel canto degli antichi, senza cadere perciò nell’affettazione o nella rozzezza dello stucchevole rimpianto?8.

Tuttavia la strada verso Saffo, è l’hodos in direzione dell’origine, un cammino che la Cinti percorre in modo labirintico, ma nella direzione di un’arché sempre più originaria e segnatamente femminile.

Franco Manzoni, Femminea estasi – Sulla poetica di Gabriella Cinti, Algra editore, Catania 2018
In copertina: opera di Marco Nereo Rotelli

Note al Capitolo 1

1 G. Cinti, Il canto di Saffo. Musicalità e pensiero mitico nei lirici greci, Moretti e Vitali, Bergamo 2010, p. 42.
2 Ivi, p. 45.
3 D. D’HALICARNASSE, Περὶ συνθέσεως ὀνομάτων, (Perì sinthéseos onomátōn), opuscules rhétoriques, tome III, la Composition stylistique, trad. fr. par Germaine Aujac et Maurice Lebel, Société d’edition “Les Belles Lettres”, Paris, 1981, p. 162.
4 G. CINTI, Suite per la parola, Péquod, Ancona, 2008, p. 47.
5 G. CINTI, Euridice è Orfeo, Achille e la Tartaruga, Torino, 2016, pp. 48-49.
6 G. CINTI, Madre del respiro, Moretti e Vitali, Bergamo 2017, dalla “prefazione” di Alberto Folin, p. 14.
7 Ivi, p. 15.
8 Ibidem.

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