Melina Craxi, figlia della mattanza

copertina

DONATELLA PERONI

«Padre…
non saprò mai tutta la verità
su ciò che è stato
ma dentro di me so che eri
un essere umano
che durante la sua permanenza
su questa terra ha vissuto
come poteva, fino a quando
qualcuno ha deciso che il tuo viaggio
doveva avere fine
senza lasciare alcuna traccia di te.

Padre…
prendila per mano quella bambina
portala con te in un luogo sicuro
dove può ritrovare ristoro alle sue pene
e l’amore incondizionato di quel padre
che tanto ha sognato.
Padre…
Ti ho voluto tanto bene, non dimenticarlo mai.
Abbi cura di Sofia.
Padre…
Addio.»

Sono i versi che più ho apprezzato contenuti nel libro di Melina Craxi, Figlia della Mattanza, edizioni Leucotea, Sanremo 2016. Una storia dal forte impatto emotivo. Un romanzo coinvolgente. Grazie al passaparola dei suoi lettori sta conquistando un pubblico sempre più vasto. È nata una nuova scrittrice di genere, fuori dai canoni e dal senso comune, che segue una sua originale visione del mondo.
Romanzo d’esordio dal sapore amaro, Figlia della mattanza scorre intimo come una confessione segreta e incalzante. Senza inutili fronzoli la scrittura, senza ipocrisia. Non è un semplice romanzo drammatico, per le sue tante scene sconvolgenti, è la descrizione di un ambiente crudele e malsano, che ci possiamo solo immaginare. È un romanzo che disorienta, una vera e propria sfida: basta con questo massacro!

Sofia, questo è il nome della protagonista principale, racconta della sua infanzia. I suoi ricordi di bambina lasciano l’amaro in bocca. «I ricordi a volte possono fare male. Sono taglienti come lame affilate e roventi perché impregnati nel fuoco liquido dei ricordi stessi.
Essi ti penetrano la mente lasciandoti dei marchi indelebili nel tempo, fino a diventare tu stessa un ricordo…»
Anche i due fratelli di Sofia, Marta e Giovanni, si trovano nella medesima condizione. Tutti e tre patiscono in silenzio le pene dell’inferno.

Assai suggestiva la descrizione dell’uomo che un giorno la madre presenta come nuovo padre. Dieci anni di più della madre, separato con tre figli che non vedeva mai e che lo odiavano. Un uomo conosciuto dalle famiglie mafiose della zona per i diversi favori fatti.
Un incosciente, intraprendente, un duro. Un duro che però aveva una debolezza. «La sua unica debolezza era sua madre che chiamava ancora “Mammina” e ubbidiva a capo chino a qualsiasi ordine ella gli impartisse.» Presto quell’uomo rivela il suo vero carattere. «A noi toccava stare cinque giorni alla settimana soli con quell’uomo altamente disturbato e violento. Arrivai al punto che tremavo al solo sentire i suoi passi.»

Più il racconto va avanti e più si fa duro. Più torbido, più sconvolgente. Un’infanzia sempre più negata.
«Avete mai provato la sensazione di essere trasparenti, che gli altri non vi vedessero?
Avete mai avuto la sensazione di essere un accessorio non sempre utile?
Avete mai vissuto la sensazione che tutto vi sfugga di mano, che niente vi sia concesso?
È un vuoto che ti scava dentro pian piano, lentamente.
L’ombra di un dolore che rimane incollata alle tue spalle per tutta la vita.»
«Dalle suore sentivo parlare spesso dell’immensa bontà di Dio e del libero arbitrio che egli aveva concesso all’umanità.
Ma come si poteva credere in queste cose quando ci sono bambini che nascono già dentro certe miserie.»

Diventata giovane donna, Sofia, vive il dramma del suo inevitabile destino crudele. Scambia per amore ciò che amore non è. Come il tonno che in primavera va alla ricerca di acque calde dove effettuare la riproduzione e qui viene catturato e ucciso agganciando l’esemplare con grossi uncini. Da qui la mattanza.
Sofia arriva ad un punto estremo. Quello della tossicodipendenza.
Ha toccato il fondo…

Con questo racconto prende forma la storia di una donna che si trova costretta ad affrontare eventi straordinari. Sofia cercherà il modo di riconciliarsi con la sua unica, irripetibile vita. Ma a quale prezzo?

Una storia che colpisce con la forza di un pugno, un romanzo impossibile da dimenticare.

ritratto

Margutte propone ai suoi lettori un estratto del libro:

CAPITOLO V

Ricordai cos’era accaduto la sera precedente, dopo cena. Eravamo tutte in cortile.
Era l’inizio della primavera e faceva caldo, la luna brillava in un cielo limpido e stellato. C’era chi leggeva, chi parlava, chi giocava.
Io ero con le solite bambine sotto il portico, ogni tanto Marilena si strusciava come una gatta in calore. Già a quell’età avevamo evidenti impulsi sessuali che spesso manifestavamo col gioco e non solo.
Chi vuole vedere i bambini come esseri completamenti ingenui e innocenti, è colui che segue gli stereotipi che gli sono stati inculcati dalla società in cui è cresciuto.
Notai Lucia che stava in disparte, seduta in un angolo del cortile, col viso rivolto verso l’alto, a guardare le stelle. La raggiunsi.
«Sai che a contare le stelle vengono le lentiggini?» Disse senza guardarmi.
«Ma cosa dici sciocchina? Io a quest’ora dovrei esserne completamente ricoperta!» Sorrisi io, sedendole accanto.
«Forse non le conti bene. È facile confondersi nel caos.»
E spostò il suo viso per mostrarmi con orgoglio le sue.
Era vero, aveva delle graziose macchioline rosa sul viso piccolo e pallido, che emanava dolcezza e, quando sorrideva, le si illuminavano i grandi occhi azzurri.
«Perché invece di startene qua tutta soletta non ti unisci a noi per giocare? Dai vieni…» La esortai prendendola per un braccio e provando a farla alzare.
«Sono venuti i tuoi genitori domenica a trovarti?» Mi chiese a sua volta, lasciandomi di sasso per la domanda inaspettata.
«No.» Risposi solamente.
Non venivano regolarmente. Non che ci tenessi particolarmente o che mi rammaricassi per questo. Ma Lucia era qualche anno che non li vedeva e forse non li avrebbe visti mai più. Le restavano ancora solo pochi ricordi che si facevano sempre più vaghi, man mano che il tempo passava.
Mi fissò un attimo, poi rialzò la testa verso il cielo e continuò a contare le stelle. Non c’era bisogno di aggiungere altro. Appoggiai la testa sulle sue gambe incrociate e rimanemmo così, in silenzio.
In fondo volevo bene a quel mucchietto di ossa perché riuscivo a sentire perfettamente cosa provasse. Si sentiva colpevole di essere nata, ecco tutto.
In quel momento arrivò Marilena, indispettita dal fatto che non fossi più tornata, dunque, secondo il suo ragionamento, avevo preferito Lucia e abbandonato lei.
Cercò ogni pretesto per litigare, schernendoci sul fatto che ci fossimo appartate per fare all’amore. Persi completamente la testa quando insultò mia madre, apostrofandola con l’aggettivo di “puttana”.
Fu un attimo: mi avventai su di lei come una furia, cogliendola di sorpresa.
Con uno spintone la gettai a terra, e le fui subito sopra a cavalcioni.
Con una mano le tirai i lunghi capelli mentre con l’altra colpivo il suo viso, con tutta la rabbia che provavo dentro.
Non era la prima volta che sentivo qualcuna delle ragazze affibbiare quell’appellativo a mia madre, soprattutto dopo le visite dei parenti.
Carmen, oltre a essere consapevole della sua prorompente bellezza, era dotata di un’elevata dose di vanità, che spesso le faceva perdere il suo già scarso senso della misura. Era capitato che fosse venuta a trovarci con pantaloncini inguinali, ancheggiando sui suoi fedeli tacco dodici, col petto fasciato da topini minimali, che non lasciavano spazio alla fantasia.
Era anche successo di vedere padri che sbavavano guardandola di sottecchi, per non farsi scorgere dalle rispettive consorti e madri.
Le donne si lanciavano sguardi scandalizzati, facendo la fila, davanti all’ufficio della Madre Superiora. Di certo i loro commenti non rispecchiavano per niente quello che volevano apparire.
Il parroco, intanto, le mostrava i lavori che avevamo fatto nell’orto facendo attenzione a camminarle dietro, e non di certo per galanteria.
Io, in quei momenti, volevo sprofondare dalla vergogna, ma era pur sempre mia madre…
Finalmente, allarmate dalle urla in fondo al cortile, accorsero delle suore per separarci, e appurato che ero stata io a iniziare, dovetti passare la notte nel sottoscala al buio, dove da rannicchiata ci stavo appena appena.
Il giorno dopo, Mariagrazia, con un pretesto qualsiasi, attirò mia sorella nei bagni.
Ora c’ero anch’io, che con un impeto di rabbia e istinto di difesa, tenevo bloccata Marta fra i due lavabi, cercando di proteggerla.
Le facevo scudo col mio corpo che era a malapena la metà di quello delle ragazze che ci tenevano sotto tiro.
«Lascia stare mia sorella. Prenditela solo con me, se hai il coraggio.» Urlavo più che per farmi forza, per la vana speranza che qualcuno potesse sentire e intervenire.
Intanto Marta mi spingeva per spostarmi, mentre urlava a sua volta: «Non ti azzardare a toccarla! Ti spacco la faccia, schifosa!»
Poi qualcuna mi sferrò un primo pugno nello stomaco. Mi mancò il respiro per qualche istante, e fui costretta, per il male atroce che provavo, ad accasciarmi sul pavimento. Lo stesso pavimento dove spesso avevamo fatto a gara a chi ammazzava più blatte, che in alcuni periodi dell’anno uscivano numerose da ogni buco di quei bagni luridi e fatiscenti.
Alcuni di noi, sembra siano nati per lottare più di altri. Col tempo c’è chi diventa bravo a picchiare, e chi diventa bravo a incassare. Poi c’è chi rimane solo a guardare, limitandosi a sterili commenti, fra gli intervalli dello scenario umano, a volte macabro.