FULVIA GIACOSA
Felix Gonzales (cognome del padre) Torres (cognome della madre) è nato a Guaimaro (Cuba) nel 1957. Se ne va di casa appena tredicenne e, dopo una sosta a Madrid con la sorella maggiore e poi a Portorico dove frequenta l’università di Sant Juan (1975), nel 1980 grazie a una borsa di studio approda a New York per cercare migliori condizioni di vita e occasioni di lavoro artistico. In America ottiene la cittadinanza e prosegue gli studi d’arte e di fotografia. Il successo arriva in tempi relativamente brevi tra fine Ottanta e inizio Novanta; dopo varie mostre collettive, dal 1988 alcune gallerie newyorkesi gli allestiscono delle personali e nel 1990 Torres viene scelto da Andrea Rosen per inaugurare la propria galleria. Intanto, nel 1983, incontra Ross Laycock che diviene il compagno dell’artista fino alla prematura morte per AIDS nel 1991, stesso destino che colpirà Torres cinque anni dopo. Dagli anni Novanta il successo si fa crescente e nel 1997, a un anno dalla morte, l’artista rappresenta gli USA alla Biennale di Venezia. Ancor oggi sono molte le mostre postume in musei prestigiosi di tutto il mondo.
In soli vent’anni di attività Torres ha prodotto moltissimi lavori, per lo più legati alla propria esistenza ma anche attenti alle questioni sociali con interventi pubblici disturbanti, organizzando mostre sul tema dell’esclusione di ogni diversità tipica della cultura dominante, in particolare sulla stigmatizzazione dei malati di AIDS in crescente diffusione negli Ottanta. La caratteristica della sua arte è l’eliminazione dei confini tra personale e politico, privato e pubblico, con l’intento di risvegliare una maggiore coscienza collettiva. Il tutto non assume mai forme sovversive, punta piuttosto all’inclusione sociale con tematiche di per sé tragiche ma trattate in modi garbati e attraverso oggetti comuni. All’esclusione del diverso da parte della società oppone l’inclusione dell’arte: il visitatore infatti è chiamato ad intervenire sulle installazioni dell’artista fino ad appropriarsene per poi condividerle con altri; sono dunque lavori che si modificano nel tempo in relazione all’intervento dei visitatori, tant’è che lo stesso motivo tende ad essere ripetuto in più occasioni per diversi anni con poche differenze espositive. Non casuale è anche la scelta di titolare ogni opera Untitled, anche se spesso con una precisazione tra parentesi, proprio per suggerire al pubblico più livelli di lettura; al proposito ha dichiarato “Le cose vengono suggerite o alluse con discrezione. L’opera è senza titolo perché il significato cambia continuamente nel tempo e nello spazio”.
Nei suoi lavori assenza, dolore, morte convivono con gioia, piacere, amore; la memoria dei momenti lieti diventa impronta che “resta” e si fa portatrice di vita, speranza di rigenerazione. Il costante riferimento autobiografico (come van Gogh che si identificava nei girasoli, in oggetti umili come una sedia o un letto) non deve indurre a pensare ad una chiusura intimistica; la sensibilità profonda della sua arte si allarga a quella dei fruitori con un processo partecipativo su temi esistenziali universali. Non è casuale che la critica abbia parlato di “arte relazionale” e che il motto di Torres sia stato “make this a better place for everyone”. Nuovi sono anche i modi della comunicazione. Un linguaggio semplice e discreto, affidato a povere cose della vita d’ogni giorno, metafore di sentimenti autentici: lampadine, caramelle, fogli ciclostilati, fotografie. Le installazioni di Torres sono figlie della stagione minimalista e concettuale sul piano formale ma da esse lo distanzia il contenuto autobiografico che reintroduce l’ “io” nello spazio pubblico, sia esso la strada o il museo, caratterizzato da un rapporto diretto con le persone. Si veda “Untitled” (1992, a un anno dalla morte del compagno), una gigantografia in bianco e nero grande come i cartelloni pubblicitari ma senza logo o scritte, cosicché il messaggio oltrepassa il riferimento autobiografico e resta aperto alla lettura di ciascuno; stampata in ben 24 copie che l’artista piazza nella metropolita e nei luoghi più trafficati di New York è l’immagine ingrandita di un letto sfatto con due cuscini stropicciati che recano l’impronta di due teste, alcova della coppia Felix/Ross che parla del loro sodalizio tramite l’assenza dolorosa dei corpi, quanto di più privato si possa immaginare eppure visibile – e condivisibile – da chiunque si aggiri nei paraggi: la loro ubicazione è infatti essenziale ai fini del messaggio. La forza sintetica dell’immagine gli consente di superare il rischio di banalizzare un tema abusato com’è quello dell’amore.
Il motivo della “coppia” è frequente negli oggetti e forme di Torres (specchi, lampadine, orologi). “Untitled. Perfect lovers” (1987-’90) consta in due orologi da muro identici e perfettamente sincronizzati, fermi sulla stessa ora, quasi a voler preservare un attimo d’esistenza in comune. Gli orologi diventano personaggi, due alter ego di Felix e Ross che ci invitano a ragionare sulla transitorietà e fragilità del tempo umano. Quest’ultimo è uno dei temi dominanti nella sua opera, dove i corpi -assenti- sono richiamati dalla presenza degli oggetti; così nasce la serie “Untitled (Lightstrings”), corde di lampadine a basso voltaggio che “durano” per un tempo limitato – come la vita umana – per poi spegnersi definitivamente. La possibilità però di essere sostituite apre all’idea di rinascita. Inizialmente ne usa due sole (ancora una coppia) fissate al muro tramite corde intrecciate, poi passa a gruppi più numerosi di luci su lunghi fili elettrici, collocati a pavimento o appesi al soffitto. L’oggetto sostituisce il corpo “mancante” e richiama soluzioni di artisti di una generazione appena precedente come Boltansky e Kounellis. Altrettanto vale per le risme di carta poste a pavimento i cui fogli recano testi e/o disegni che si riferiscono a svariate problematiche sociali, come “Untitled (Death by gun)” del 1990. Ogni foglio elenca il nome, l’età, la città e lo stato di provenienza e a volte anche la fotografia di persone uccise con armi da fuoco (gun) in una sola settimana (dal 1° al 7 maggio del 1989) oltre alle circostanze che ne hanno determinato la morte. Lo spettatore, superato un primo momento di incomprensione, leggendo i testi inizia a riflettere sulla violenza che la diffusione di armi negli USA alimenta da sempre ed è invitato a scegliersi uno o più fogli e portarseli via; l’opera continua ad esistere nel tempo poiché i fogli vengono integrati man mano che la pila si assottiglia. Ha detto l’artista in un’intervista: “Quando ho iniziato a fare i mucchi di fogli … volevo fare una mostra che sparisse completamente. Era un lavoro sulla sparizione …Volevo che il pubblico potesse conservare il mio lavoro. Era davvero eccitante che qualcuno potesse venire alla mostra e potesse andarsene con un mio lavoro. Tutti questi lavori sono indistruttibili, perché possono essere duplicati all’infinito”.
Le opere più note di Torres sono sicuramente i mucchi di dolcetti (caramelle coloratissime, cioccolatini e Baci Perugina) esposti per la prima volta nel 1991, in un angolo della sala al Metropolitan Museum di New York (“Untitled (Portrait of Ross in L.A.)”). Anche qui il visitatore è invitato a prelevare una o più caramelle, mangiarle in loco, portarle a casa o condividerle con altri. Il mucchio viene reintegrato regolarmente a fine giornata per tornare al peso iniziale di 80 chilogrammi (quello di Ross, consumato dalla malattia e morto in quell’anno). L’opera è solo apparentemente effimera, l’identificazione del compagno con il cumulo di dolcetti suggerisce una fine lenta ma inarrestabile, il dolore di chi resta e il bisogno di condividerlo concedendo al corpo assente di restare vivo nel ricordo di chi lo ha amato. Il sottotitolo tra parentesi (“ritratto di Ross“) è scelto non certo a caso: le caramelle che vengono consumate, il loro peso e persino la loro allegrezza colorata è effettivamente un ritratto dolce-amaro del compagno. Ha detto l’artista: “si consuma l’arte come si consuma la vita. … L’amore ti dà una ragione di vita ma è anche un motivo di panico, si ha sempre paura di perderlo”. All’apparenza l’installazione variopinta potrebbe sembrare frivola e superficiale, solo sviscerandone il senso vi si intuisce la sofferenza dell’autore che cerca un feeling emotivo col suo pubblico. “Ho bisogno dell’interazione col pubblico – dice – Senza il pubblico i miei lavori sono nulla. A lui chiedo di …diventare parte del mio lavoro, di unirsi a me”. L’opera si fa omaggio, racconto, memoria, elaborazione del lutto, elegia malinconica. Nulla di più lontano da certe correnti neo-pop coeve, tendenti a sfociare nel kitsch di “immagini-gadget” totalmente inutili generate dal consumismo e dalla anaffettività postmodernista (penso agli “oggetti di cattivo gusto” del contemporaneo Jeff Koons, nato due anni dopo Torres). Il dolore della mancanza non può che lenirsi almeno in parte solo se partecipato e l’artista trova il modo per farlo costruendo montagne di cose dolci che stanno lì a disposizione di tutti. Il prelievo non è fine a se stesso come spesso avviene per i ready-made storici, ma diventa offerta e dialogo aperto nei confronti col pubblico. A qualcuno sembrerà eccessivo il costante riferimento autobiografico ma se ci pensate bene tutti sperimentiamo prima o poi il rapporto con la malattia e la morte di persone care. Aver scelto modi delicati e immediati per trattare temi così dolorosi in un linguaggio contemporaneo e cosmopolita è il pregio della sua ricerca espressiva. I suoi lavori sono fragili e instabili – così li ha definiti – come il nostro vivere. “Ognuno sta sul cuor della terra/ trafitto da un raggio di sole:/ed è subito sera” (Salvatore Quasimodo)
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