Ancora il ’68

Doug Aitken, 1968 broken

Doug Aitken, 1968 broken

MARIA GRAZIA ORLANDINI

Il mio sessantotto. Lo vivevo da lontano perché la mia famiglia, tradizionalista e protettiva, neppure mi permetteva di recarmi a Torino, visto quello che succedeva: “Tanto l’Università è chiusa e di esami non se ne fanno”.
Fino a quel giorno, nel mio mondo di piccola città del sud del Piemonte, avevo vissuto nel conformismo di gente benpensante. L’autoritarismo, la visione della donna come inferiore e destinata solo ad essere sottoposta a padre e marito, retaggio di un modo di pensare neppure troppo lontano nel tempo, non mi avevano certamente preparata alla rivoluzione di idee che ci avrebbe travolte e cambiate per sempre.
La scelta di scuola superiore mi era stata imposta: nella mia famiglia una donna aveva un’unica via, se voleva continuare negli studi: l’Istituto Magistrale.
Non che mio padre sognasse per me una vita come insegnante: avrei dovuto essere casalinga, morigerata e risparmiosa, impegnata a crescere i figli, possibilmente maschi, che quella era l’unica vocazione ammessa; in caso di bisogno… tuttavia, una strada adatta alla mia condizione femminile si sarebbe aperta: fare la maestra.

Alle Magistrali frequentai una classe rigidamente femminile; fu in prima che i 6 maschi, nostri compagni di cui quattro esterni, furono visti dalla preside – contessa come pericolosi per noi otto ragazze non in collegio.
Si era dimostrata democratica all’inizio, schierandoci in palestra e chiedendoci di scegliere liberamente di cambiare sezione, dopo averci spiegato il suo punto di vista; fu contrariata dal nostro diniego che lesse come deviante e morboso, lontanissimo dalla realtà che puntava solo a mantenere i legami di amicizia.
Il giorno successivo ci ha, d’ufficio, trasferite.
Non osai dire a casa della nostra presa di posizione.
Chiesa, casa e scuola: il mio mondo d’allora. L’estate a imparare a cucire, ricamare, cambiare polsini e colletti alle camicie, tagliare abiti: ottimo bagaglio culturale nell’ottica del futuro risparmio.

Poi l’Università, stavolta voluta da me.
Trovavo appena assurde e ingiuste le maniere autoritarie dei professori che si permettevano, addirittura, di buttare il libretto universitario dal secondo piano in via Carlo Alberto.
Nessuno osava reagire al dileggio di poveri studenti che si accalcavano nelle stanzette anguste dell’ultimo piano di Palazzo Campana: ricordo di aver visto sul libretto di una compagna un diciassette e lode: la lode per essere arrivata vicino al 18, era stato il commento di scherno del professore. Rammento altresì l’ingiustizia di domande assurde o sbrigative perché ormai l’ora per il cattedratico era finita e, velocemente, lui voleva concludere la sessione d’esami.
In quest’atmosfera di timore e ossequio assoluto, irruppero le rivendicazioni del ’68.
Ero ormai avanti negli studi universitari e subito non colsi la portata di quelle rivolte. L’improvvisa ondata di libertà che la rivoluzione portava con sé, mi aveva trovata del tutto impreparata. Sentivo, però, che la lotta era giusta. Si rivendicava di tutto, ma soprattutto la libertà sessuale per le ragazze, un vero tabù.
Il grande scalone del palazzo storico era reso ancora più cupo dal rosso scarlatto della nuova pittura. Ciclostilati di proclami coprivano i pavimenti e la via esterna.
Scontri con la polizia e cariche di repressione erano all’ordine del giorno. Alcuni miei compagni di corso, molto scaldati, erano in seduta permanente nella facoltà occupata.
Non ero presente, ovviamente, ma ricevevo relazioni puntuali dal mio ragazzo che abitava in città e studiava al Politecnico, perennemente occupato dai rivoltosi. Ovviamente a casa i benpensanti reputavano folli e incomprensibili quelle manifestazioni di rivolta che coinvolgevano tutta l’Europa.
Fu allora che arrivò la chiamata come supplente: insegnare lettere al triennio del liceo scientifico. Per la scarsità di professori liberi, era possibile anche senza laurea.
Qualche giorno appresso ci fu il primo sciopero degli studenti monregalesi. Si radunarono tutti in piazza, sotto lo sguardo marmoreo del Beccaria.
Le aule restarono vuote e silenziose.
Io, intimidita dal trovarmi a fianco di docenti liceali che consideravo mostri sacri, in sala professori cercavo di nascondermi il più possibile dietro al registro che stringevo fra le braccia.
Accigliato e solenne, entrò il preside e andò a sedersi a capo della monumentale  tavola che troneggiava al mezzo della sala: “Tutti qui e in silenzio fino al termine della mattinata. Nessuno si arrischi ad uscire” intimò. “Guai a chi si affaccia a guardare dalla finestra. I ragazzi devono sentire il nostro rifiuto e la nostra indifferenza per un simile comportamento. Daremo sette di condotta a tutti e così costoro sosterranno gli esami a settembre”.
Abbassò lo sguardo e s’immerse nei documenti della cartellina recata con sé.
Restammo lì immobili, con gli occhi sui libri, sui compiti, sui registri per tutte le cinque ore. Dalla piazza saliva un brusio vivace, ogni tanto scandito da slogan che nella sala pervenivano confusi.
Nessuno di noi provò a dare un’occhiata, seppure velocissima, alla massa di giovani. Doveva essere un bel colpo d’occhio là sotto.

Non l’ebbero vinta i tradizionalisti; però…
La rivoluzione di pensiero fu veloce e radicale e, come una meteora, cambiò la mentalità femminile. Non ebbe, tuttavia, il tempo di essere elaborata e condivisa. Trovò il mondo maschile del tutto impreparato e, nonostante siano passati cinquant’anni, quell’altra metà del cielo ancora oggi accetta con difficoltà il mutamento radicale seguito allo slogan Io sono mia. Lo leggiamo ancora nella cronaca nera con troppa frequenza.
La parità di genere è, purtroppo, ancora lontana.