Dalla prefazione di Giancarlo Sammito
C’è tanta acqua in Saudade. Acque serene di adolescenziale vigilia, di veglia per una incarnazione nella parola e nel senso condiviso dei linguaggi. Ma anche di amnio e naufragio, acqua persa (buia) e rugginosa in pozzanghere di città dove la vita, la poesia, hanno trovato e trovano ancora forme di canto. E luoghi, una pressante aspirazione, come dice il titolo, a luoghi, e non soltanto interiori. Nel Fado, genere di musica popolare portoghese, saudade è base poetica e musicale, e fado è dal latino fatum, fato o destino, dunque crocicchio di geno e fenotipo, tra altre possibili accezioni permeate da indole, ideologia o confessione. Saudade è combinazione e madre del sentimento del tempo, del desiderio, tesoro compresso tra futuro e passato: del nostos, Sehnsucht protesa al viaggio nel luogo o nel tempo del percorso linfatico, invisibile ma presente, che a maggior ragione esige dunque voce, espressione, storie. “Quale poesia, quali storie per sopravvivere, per chi sopravvivrà? Quale antidoto alle formule politiche (…) che saccheggiano la lingua per piegarla ai loro usi distorti? Quali parole ci salveranno?” ci domandava Marisa Bulgheroni avvicinandoci a Estranea -canzone (2000, 2022). Il ritorno all’aspirazione, al compimento di posa di sedimenti aurei acquisiti e non mai corrotti dal così definito vissuto, si svolge e si risolve anche in questo nuovo libro di Maria Pia Quintavalla in un anelito civile, religioso, se non pure metafisico. Speranza dell’oltre, di un futuro che non conosciamo o di un passato che chiede la necessaria illusione di dover essere, oltre la parola, ricreato “nel corso amico della storia” (La piantina, III). Struggimento, tristezza, saudade. Mancanza o assenza. Ma di cosa? Di una trasognata condizione di felicità? Di chi non è più materia, pur essendo ancora con noi? Di forme, presenze e luoghi che amiamo nella distanza e nella perdita. L’intransigenza etico-esistenziale che limitava l’estraneità (Zanzotto ancora su Estranea – canzone) sembra levarsi o sublimarsi qui in una diffusa forma di aspirazione. A ciò che non si vede più da tempo e nel tempo interpreta e gestisce luoghi amati (patria-matria, paese, casa, affetti). Il Po, il suo letto nascosto e i suoi cieli scoperti, il padre albero e la madre acqua che eraclitiana scorre e ridisegna il sogno precristiano di resa al tempo o di fusione elementare [...].
Da Saudade (2017-2022) (puntoacapo editrice 2024)
C’è bisogno degli altri
C’è bisogno degli altri, come di un’illuminazione –
dalla volta del cielo non scurita
e non pronta alla sua notte:
l’eleganza eloquente che diceva
Lazzaro, vieni fuori –
ma è presto è sera, e in una luce sua rivivere
in velo denso
l’incarnazione dell’amore.
Amo il nostro presente che ripete
e protegge
costruisce l’amore e non rapina,
ma in un concorde assolo tiene
della vita noi, i miracolati
case del mondo, e casi dell’amore.
*
Per una vita di periferico abbandono,
io, tradotta di melma e nulla,
sgranata forma del mio nulla,
e della cenere che non guarisce.
Sembro una nave già affondata,
da anni senza più pensiero senza
sue parole, senza un suo cuore fluido
nero,
incattivita senza un piano bar una musica,
un silenzio dove
nelle formate storie riprodurre
il senso suono della vita.
*
Lei è sepolta, ma con me alla luce
rivivrà sicura.
E lei beve, beve non è stanca mai.
Mi riaddormento a sera con minore fiducia.
Che sia lei o io, la più ammalata
non mi curo:
so che il mio posto è di guardiana del malato, e lei
l’ho già incontrata (e scruto)
quante foglie fiori o foglie saprebbe germogliare. Ignara,
ignoro non vi sia più vita
e mi procura un crampo stanco e duro, dolore al polso
e poi, silenzio
ma le voci che invento, le canzoni o i bassi
assicurano parole, e un bel giardino.
*
Ecco la bontà della plastica, le dissi un giorno,
mostrandole il filmato ecologico
sulla deriva galoppata di monnezza,
nelle acque interne del pianeta si parlava
di cambi climatici
e Lei là, che si truccava gli occhi,
ad essi soli riconsegnava il mondo.
Ogni fare è potente, e valoroso
come un arco:
un soldato che difende la vita,
tutto questo è una figlia.
*
È solo un bene che fa vivere felici
riesce a quietarci, addormentare
nel nome della figlia
promulga un canto che, morte dopo morte,
ricrea catene fino al nulla
dell’essere mai nati, e nel pensiero va lontano.
Intanto cresce l’erba piano,
margherite che restano intrecciate, omofone
al morire dove nel vuoto
legami nuovi si trasmutano in viticci e allentano,
non legano più bene quel sentire.
*
Maria Pia Quintavalla, nata a Parma, vive a Milano. I suoi libri: Cantare semplice (Tam Tam 1984); Lettere giovani (Campanotto 1990); Il Cantare (ivi 1991); Le Moradas (Empiria 1996); Estranea (canzone) (Manni 2000); Corpus solum (Archivi del ‘900 2002); Album feriale (Archinto 2005); Selected Poems (Gradiva, N.Y., 2008); China (Effigie 2010); I Compianti (Effigie 2013-2015); Vitae (La Vita felice 2017); Quinta vez (Stampa2009 2018), Estranea (canzone) (edizione riveduta, puntoacapo 2022). È stata nella cinquina al premio Viareggio e ha vinto il Premio alla carriera al festival “Paesaggio interiore” di Cerreto D’Esi (2023). Ultime antologie in cui è inserita: Braci, a cura di Arnaldo Colasanti (Bompiani 2020), La Poesia italiana degli anni Ottanta, IV volume a cura di Sabrina Stroppa, UniTo (ed. Pensa). Compare nell’Atlante voci poesia, curato da Giovanna Iorio, e sue installazioni (Londra, Praga, Italia). È stata Redattrice della rivista Menabò ed è nella Giuria del Premio Terre d’ulivi. Collabora a Metaphorica. Conduce laboratori di lingua italiana presso la facoltà di Lettere UniMi.
(A cura di Silvia Rosa)