25. «Un déni de justice», un diniego di giustizia

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DINA TORTOROLI

Honoré-Gabriel Mirabeau – giovane dal comportamento dissennato, ma anche coraggioso “Philosophe patriote” –: un ossimoro vivente?
A lungo considerato “misterioso”, “incomprensibile”, “un des mortels les plus compliqués que l’histoire ait jamais trouvés sur sa route” (uno dei mortali più complicati che la storia abbia mai trovato sulla propria strada), oggi appare molto meno enigmatico.
A me, nella paradossale situazione, evidenziata dal professor Menozzi, sembra facile cogliere una “falsa verità”, grazie agli insegnamenti di uno psichiatra come Ronald Laing*, tenace indagatore della comunicazione intrapersonale e interpersonale, dei contesti e delle dinamiche familiari (La politica dell’esperienza, Feltrinelli, 1968; La politica della famiglia, Einaudi, 1969; L’io diviso, Einaudi, 1969).
Che fare? Si deve avere ben presente il proprio compito: “rendere comprensibile il comportamento insolito, esplorando i processi che a esso lo hanno condotto”.
Chi esamina una “relazione” deve, infatti, evitare l’errore più diffuso, di “considerare il rapporto con esclusione delle persone in rapporto, gli individui e non la relazione tra loro”, perché è di fondamentale importanza saper cogliere la contraddizione – sempre riproposta dalle persone che hanno potere nei confronti dell’ “altro” (soprattutto se è considerato “diverso”) –  “fra la realtà e ciò che esse dicono della realtà”, “fra ciò che sono e ciò che dicono di essere”, “fra ciò che dicono di attendersi e ciò che inducono a fare”.
Si deve, insomma, sapere individuare chi propone l’altro come “un oggetto-da-cambiare” anziché “una persona-da-accettare”, e quindi non fa altro che “perpetuare lo stesso male che pretende di curare”.
Procedendo in tal modo, si può comprendere la gravità delle parole di Honoré Gabriel Mirabeau: «De quoi suis-je coupable? De beaucoup de fautes sans doute; mais qui osera attaquer mon honneur?… Mon père; parce qu’il est le seul que je ne puisse pas  couvrir d’infamie. Qu’il articule des faits, et que ces faits me soient communiqués. Je l’ai demandé mille fois; mais il a trop beau jeu, tant qu’il parle seul» (Di cosa sono colpevole? Di molti errori senza dubbio; ma chi oserà attaccare il mio onore?… Mio padre; perché è il solo che io non posso coprire d’infamia. Articoli dei fatti, e questi fatti mi siano comunicati. Io l’ho domandato mille volte; ma egli ha troppo buon gioco, giacché è solo lui a parlare).
Questo è il punto cruciale: Mirabeau si sente defraudato da coloro che dovrebbero invece  esercitare un’autorité tutelaire: suo padre e il Ministro [Maurepas], il quale crede “ciecamente” nella buona fede del marchese Victor de Mirabeau  (divenuto celebre come l’Ami des hommes, dal titolo del suo libro più fortunato), ritenuto incapace di ingannare  e – si direbbe – persino d’ingannarsi, quasi possedesse  il dono dell’infallibilità.
Mirabeau denuncia l’intollerabile prevaricazione di entrambi anche alle autorità olandesi, quando a quel Governo giunge la richiesta di estradizione da parte del Ministro degli esteri francese, a istanza del Marchese padre.
Riferisce il professor Menozzi: «Subito il fuggitivo scriveva una memoria agli Stati Generali d’Olanda, chiedendo che un paese “où les lois sont sages et le gouvernement éclairé” (in cui le leggi sono sagge e il governo illuminato) non concedesse un’autorizzazione che “loin de m’abandonner  aux tribunaux et à la justice de mon souverain” (lungi dal demandarmi ai tribunali e alla giustizia del mio sovrano) lo avrebbe invece messo nelle mani “du ministre de France [qui] trompé, parce que mon père a la confiance et l’amitié d’un homme puissant, […] a dejà décidé mon sort» (del ministro di Francia, che, ingannato perché mio padre ha la fiducia e l’amicizia d’un uomo potente, ha già deciso la mia sorte. (Daniele Menozzi, “Philosophes” e “Chrétiens éclairés”, Paideia Editrice, Brescia, 1976, p. 30).
Il problema personale deve quindi obbligatoriamente essere affrontato da Mirabeau in relazione al sistema nel quale si pone.
Scrive Daniele Menozzi: «A partire dal 1773 aveva iniziato la redazione di un’opera, intitolata Essai sur le despotisme, che mostra la sua volontà di partecipare alle battaglie politiche che il movimento illuminista stava conducendo». Ma «il suo lavoro partiva da una severa critica alla precedente generazione di philosophes. […] Rimproverava loro il difetto di essersi perduti in “rèves métaphisyques, qui n’ont d’autre réalité que leur inutile subtilité» (sogni metafisici, che non hanno altra realtà che la loro inutile sottigliezza).
È questa un’affermazione che coincide con il biasimo di “sottili distinzioni” rivolto da Helvétius a Montesquieu, una quindicina di anni prima, nella lettera sul manoscritto dello Spirito delle leggi, ma espresso ora con la passione di chi – vittima del dispotismo – sente la necessità di azioni concrete, all’opposto dei pensatori di professione che si erano abbandonati a infinite astrattezze teoriche.
Dice il professor Luigi Marengo: «Per la prima volta nella letteratura politica di questa epoca, i problemi della lotta contro il dispotismo cessano di essere trattati sotto l’angolo della riprovazione morale per situarli sul piano delle azioni reali, pratiche. In altri termini, Mirabeau nel suo Essai sur le despotisme, pose la questione non solamente della natura delle “catene della schiavitù”, delle manifestazioni e delle forme del dispotismo, ma anche dei mezzi per abbatterlo, per spezzare queste “catene” (Luigi Marengo, Mirabeau politico / La libertà, il Popolo e la Nazione, Lampi di stampa, 2011, Google Libri,  p. 24).
Se ne compiace Mirabeau stesso, nel presentare Essai sur le despotisme** come opera di un amico scomparso: «la rapidité même avec laquelle il est écrit, prouvera combien fut sincère & respectable le patriotisme du citoyen qui osoit s’exprimer avec une telle véhémence» (la rapidità stessa con la quale è scritto proverà quanto fu sincero e rispettabile il patriottismo del cittadino che osò esprimersi con tale veemenza).
Il marchese Victor Mirabeau ritiene «qu’il faut être insensé pour écrire de ces choses-la quand on est sous les liens d’une lettre de cachet» (bisogna essere insensati per scrivere di quelle cose quando si è sotto i vincoli di una lettre de cachet), ma Mirabeau  figlio  controbatte: «je m’applaudirai toujours de l’idée d’avoir tonné contre le dispotisme, dans les temps même où je gémis sous les liens d’un ordre arbitraire» (io mi applaudirò sempre per l’idea di avere tuonato contro il dispotismo, mentre gemevo sotto i vincoli di un ordine arbitrario).
Noi, che possiamo leggere  le “Lettere originali di Mirabeau da lui scritte dal donjon di Vincennes negli anni 1777, 78, 79 e 80”  (disponibili  in rete), constatiamo che negli anni di prigionia egli non solo tuona contro il dispotismo, ma attua una vera e propria rivoluzione, dimostrando  di essere vittima di “un déni de justice”, un diniego di giustizia, cui è convinto di avere il diritto-dovere  di opporsi.
Egli riesce, infatti, a produrre una radicale trasformazione del rapporto con i funzionari, incaricati di impedirgli di disporre di sé.
Ipotizzando che siano in buona fede e che si attribuiscano il merito di “imprigionare un uomo indegno”, scuote dal “torpore” le loro coscienze, e li induce a porsi domande anche su se stessi e sulla situazione in cui sono coinvolti.
Li interpella instancabilmente, incalzandoli ogni volta con la propria testimonianza come farebbe se non gli fosse negato il processo cui ha diritto, separando i fatti dalle finzioni, dimostrando la falsità delle imputazioni, ricostruendo circostanze e atteggiamenti, fornendo dati verificabili, dettagliati resoconti di situazioni finanziarie, di vicissitudini, di contingenze.
Mirabeau  valuta anche il proprio comportamento, ammette i propri errori, i propri eccessi giovanili, di cui è disposto a pagare il prezzo, purché  ragionevole e proporzionato al danno causato.
Lui non ha mai commesso crimini contro le Istituzioni, perciò si considera un “abitante” di una prigione di Stato, costretto a subire un regolamento disumano, ideato per rendere inoffensivo chi costituisce una terribile minaccia per la comunità.
In ogni modo, lui ha la forza di volontà di non lasciarsi “distruggere”, e mantiene l’impegno preso con se stesso di non  rinunciare a dare un senso alla propria vita, esigendo di essere rimesso al corrente dei libri e degli affari del mondo.
Gli viene suggerita la fuga e lui approfitta della momentanea libertà d’azione per tentare di scuotere anche le coscienze dei popoli d’Europa.
Riferisce il professor Luigi Marengo: «Nel 1777, fuggito ad Amsterdam, Mirabeau scrive nell’Avis aux Hessois et autres peuples de l’Allemagne vendus par leurs princes à l’Angleterre sul dispotismo diffuso […]. La sua pubblicazione  provoca un aspro dibattito a cui Mirabeau reagisce scrivendo una Réponse aux conseils de la raison par l’auteur de l’Avis aux Hessois. In essa risponde per punti e dopo aver confutato la definizione di “libello”, o pubblicazione diffamatoria, data alla sua opera, passa all’epiteto di “licenzioso”, avvertendo che “questo è inappropriato perché tutti i despoti chiamano libertà la licenziosità e  tutti i dominati trattano gli scrittori coraggiosi da autori licenziosi; ma gli uomini saggi e in buona fede, che sanno che la licenziosità è anche quasi nemica della libertà come il dispotismo, non ignorano che uno scrittore è raramente l’apostolo della licenziosità, oggi che il fanatismo è espirante e che si trovano più infami apologisti dell’autorità arbitraria e oppressiva che di entusiasti della libertà. Per altro, loro mi leggeranno, loro esamineranno i miei principi ed io sarò perdonato”. Confuta anche l’utilizzo improprio della parola “rivolta”, perché quando l’autorità diventa arbitraria e oppressiva, quando attenta alle proprietà per la protezione  delle quali fu istituita, quando rompe il contratto che concedeva diritti e limitazioni, la resistenza è un dovere e non può che chiamarsi ribellione.  Colui che si sforza di ritrovare la sua libertà e combatte per essa esercita un legittimissimo diritto» (Luigi Marengo, Mirabeau politico / La Libertà, il Popolo e la nazione, Lampi di Stampa Editore, 2011, Google Libri, pp. 24-25).
Anche le scelte di vocabolario possono celare un inganno ed è un atto di lotta politica  dimostrarlo.  Evidentemente, Mirabeau era consapevole di essere veramente “un homme fait pour jouer un rôle”, come gli era stato preconizzato fin dall’adolescenza, e la lettura dei quattro tomi delle sue lettere, scritte  a Vincennes  dal 1777 al 1780 rivela quanto gli sia costato il suo pazientare fino a tutto il 1778.

È un anno cruciale il 1778.

Il 25 dicembre Mirabeau scrive a monsieur  Lenoir: «Je ne finis pas cette année comme je l’ai commencée, Monsieur. Aigri par des longs malheurs et trop d’injustices dont j’ai été, dont je suis et dont je serai probablement victime, j’ai trop de raison de ne pas estimer les hommes; et les dépositaires de l’autorité, par qui le monde, depuis qu’il existe, a été si malheureux, ont été les premiers objet de mon indignation; car j’ai toujours cru et je croirai toujours que l’indifférence pour l’injustice est trahison et lâcheté; qu’un honnête homme doit, quand il le peut, foudroyer les oppresseurs; que les détester, et démasquer les mauvais administrateurs, c’est vraiment aimer son Roi et sa Patrie, qui passe infiniment avant lui. Telle est ma profession de foi…» (Non finisco quest’anno, come l’ho cominciato, Signore. Inasprito da lunghe sventure e troppe ingiustizie di cui sono stato, sono e probabilmente sarò vittima, ho troppo motivo di non stimare gli uomini; e i depositari dell’autorità, per colpa dei quali il mondo, dacché esiste, è stato così infelice, sono stati i primi oggetti della mia indignazione; perché io ho sempre creduto e crederò sempre che l’indifferenza nei confronti dell’ingiustizia è tradimento e vigliaccheria; che un uomo onesto deve, quando può, fulminare gli oppressori; che detestare e smascherare i cattivi amministratori equivale veramente ad amare il proprio Re e la propria Patria, che viene infinitamente prima di lui. Tale è la mia professione di fede).  

Colpisce l’uso dell’avverbio trop, che ritroviamo poco oltre, nella lettera a Lenoir del 6 gennaio 1779, in cui Mirabeau dichiara che essere prigioniero di Stato dal 1774 “c’est trop”, ed esclama: “Je suis las”, sono stanco.

È stanco di essere trattato come uno schiavo, e sacrificato ai più vili intrighi, in un Paese del quale si vanta la giustizia.

Rinnova solennemente a Lenoir l’espressione dei suoi sentimenti di deferenza, rispetto e gratitudine, ma con quella lettera vuole rivolgersi a lui  soltanto come  al “Consigliere di Stato, incaricato dell’ispezione della prigione”, per chiedergli di mostrare la sua petizione al Ministro. Quindi Mirabeau proclama che “sa cosa deve a se stesso e anche cosa gli è dovuto”, prima di tutto come uomo, poi come cittadino notabile, accusato a torto, che “desidera”, che “domanda” un giudizio legale, che “reclama e reclamerà fino al suo ultimo sospiro” i suoi diritti con “l’energia della sua volontà”.  Si dichiara anche pronto ad affrontare le conseguenze del suo gesto di ribellione. (Lettres originales de Mirabeau, écrites du donjon de Vincennes pendant les années 1777, 78, 79 et 80; recueillies par P. Manuel, Tome troisième, Paris, 1792, Google Libri, pp. 41-42 e 44-47).

In febbraio, nelle lettere che Gabriel indirizza a Sophie, comincia a  comparire la parola liberté.

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[*Un ricercatore, Laing, preoccupato della responsabilità politica del lavoro scientifico e propenso a riconoscersi moralmente coinvolto a un punto tale che osa dichiarare: «Ciò che viene chiamato “normale” è un prodotto di repressione, negazione, scissione, proiezione, introiezione, e di altre forme distruttive operate contro l’esperienza […]. La persona “normalmente” alienata, per il fatto di agire più o meno come tutti gli altri, è presa per sana. Le altre forme di alienazione che non stanno al passo con lo stato di alienazione predominante sono quelle che vengono etichettate dalla maggioranza “normale” come nocive o folli. La condizione di alienazione, quella di essere un dormiente, inconsapevole, fuori di sé, è la condizione dell’uomo normale. La società fa gran conto del suo uomo normale: educa i fanciulli a smarrire se stessi e a divenire assurdi, e ad essere così normali. Gli uomini normali hanno assassinato 100 milioni circa di loro simili uomini normali negli ultimi cinquant’anni. […] Viviamo tutti sotto la minaccia costante del nostro sterminio totale. Sembra che cerchiamo morte e distruzione come fossero vita e felicità. Siamo pronti ad uccidere e a essere uccisi non meno di quanto lo siamo a vivere e a lasciar vivere. Non possiamo aver raggiunto la capacità di vivere in un relativo adattamento ad una civiltà che va, a quanto pare, verso la propria distruzione, se non attraverso la più grave violenza contro noi stessi. […] Tuttavia, se non altro, ogniqualvolta nasce un nuovo bambino vi è la possibilità di sfuggire alla condanna; ogni bimbo è un essere nuovo, un profeta potenziale, un nuovo Principe dello spirito, una nuova favilla di luce caduta nelle tenebre esteriori. Chi siamo noi per poter decidere che per lui non vi sono speranze?» (R. D. Laing, La politica dell’esperienza, Feltrinelli Economica, 1968, pp. 24-25, 75-76, 27)].

[** Io devo dire che sono stata particolarmente colpita da considerazioni introduttive che sembrano la fonte di quelle di Ronald Laing che ho voluto citare nella nota precedente.

Mirabeau afferma, infatti, che non si può sapere se l’homme naturel fosse incline al dispotismo, mentre non vi è dubbio che lo sia l’uomo modificato dalla società: «Nous connoissons bien imparfaitement le peu d’hommes naturels que nous avons trouvés sur le globe, et nous nous sommes beaucoup plus occupés à les massacrer qu’à les observer. Des milliers de brigands ont immolé trente millions d’hommes dans ce vaste hémisphère, si long-temps dérobé à notre entreprenante cupidité; il n’est pas un seul philosophe qui nous ait transmis ses recherches sur ces victimes infortunées.  […] Dans l’état social les idées s’étendent, les désirs s’aguisent, les passions se développent, et celle de dominer est l’une des premières qui germent dans le coeur humain.  […] Voyez l’enfant au collége; […]: vous reconnaîtrez déjà les traces de ce sentiment que nos institutions nourissent avec soin; car la première éducation de l’homme semble également arrangé pour le disposer à être esclave et tyran. […] Considérez tous les peuples; parcourez l’histoire: on n’y trouve guère que des noms de conquérans et des despotes»  (Noi conosciamo molto imperfettamente i pochi uomini che abbiamo trovato sul globo allo stato di natura, e ci siamo molto più occupati a massacrarli che a osservarli. Migliaia di briganti hanno immolato trenta milioni di uomini in questo vasto emisfero, tanto a lungo sottratto alla nostra intraprendente cupidigia; non c’è un solo filosofo che ci abbia trasmesso le sue ricerche su queste vittime sventurate. […] Nello stato sociale le idee si estendono, i desideri si acuiscono, le passioni si sviluppano, e quella di dominare è una delle prime che germogliano nel cuore umano. […] Guardate il bambino in collegio: voi riconoscerete già le tracce di questo sentimento che le nostre istituzioni alimentano con cura; perché la prima educazione dell’uomo sembra ugualmente organizzata per disporlo a essere schiavo e tiranno. […] Considerate tutti i popoli; percorrete la storia: ci sono solo nomi di conquistatori e di despoti) (Essai sur le Despotisme, Seconde Edition, Londres, M.DCCLXXVI, Google Libri, pp. 3, 8, 9-10)].