L’incredibile storia del profeta Mansur

Mansur 31

Trentunesima puntata - La pazzia della storia

FRANCESCO PICCO

Viktor aveva la barba lunga e i capelli arruffati. Stava sull’alto di una collina e guardava sotto di sé il campo dove il suo Profeta aveva riportato quel giorno la sua imprevista vittoria contro re Eraclio di Georgia. Il Profeta era già partito. Mansur si era lanciato come un leone ad inseguire l’esercito sconfitto. Viktor era rimasto indietro. Non si sentiva bene – diceva. Mansur non aveva detto nulla. Aveva acconsentito con una smorfia di disgusto e non gli aveva più rivolto la parola.

La pianura incuneata fra i monti del Caucaso era ricoperta di morti. Ventiduemila, si diceva. Viktor non stentava a credere al numero. La matematica da alcuni mesi era impazzita. Anche lui stava per impazzire. Mansur era già matto da tempo – da sempre, forse.

L’odore della battaglia è terribile nel momento in cui si svolge. Dopo, però, è peggio. Polvere, piombo, fosforo, sangue, escrementi, corpi non lavati – prima. Ma quando le armi tacciono, comincia a diffondersi un altro odore. Il sentore dolciastro della putrefazione. E il rumore dominante è quello dei cani che sgranocchiano le ossa.

Viktor stava male davvero. Vomitava in continuazione. Eppure si sforzava di mangiare, anche se ogni volta che masticava gli sembrava di essere uno di quei cani. La gloria. La vittoria. Il trionfo. Tutte queste parole che aveva apprezzato da ragazzo erano solo maschere. Maschere con cui la Natura celebrava il trionfo della decomposizione, della scomposizione degli elementi, dell’annientamento umano. E Mansur non ne era che l’inconsapevole strumento. Tutte le sue ossessioni religiose e politiche, la sua sete di comando e di conquista – erano inganni. La Natura aveva bisogno di atomi da rimettere in circolo: atomi che fino a quel giorno erano uomini, ragazzi, perfino bambini.

Ad ogni passo, scendendo dalla collina, Viktor doveva sforzarsi di distogliere lo sguardo. Non poteva sostenere più oltre quella vista. Così, al terzo giorno, decise di partire e raggiungere il suo Profeta a Tbilisi dove nel frattempo Mansur era piombato in forze, mettendo la città a ferro e fuoco. Le cifre del saccheggio gli furono note ben prima di giungere nella capitale dell’annientato regno georgiano: diecimila tra ragazzi e giovani maschi catturati e rivenduti come schiavi ai mercanti di Costantinopoli; seimila erano invece le donne – bellissime, si diceva – che il Profeta aveva fatto rapire per sottrarle (così sosteneva lui) agli appetiti dei suoi soldati; e tutti i tesori delle chiese, dei monasteri, dei palazzi nobiliari che erano finiti nella tenda di Mansur in attesa che il suo segretario lo raggiungesse per prendersene cura.

Ed era vero che Mansur lo stava aspettando. Nel palazzo che era stato del re. L’incontro fra Mansur e Viktor avvenne a porte chiuse, nella sala del trono. Il Profeta ordinò a tutti di lasciarlo da solo con il suo ex confratello e collega. Finché l’ultima delle guardie non fu uscita, Mansur rimase sul trono guardando fisso nel vuoto con aria truce e implacabile. Nessuno di quegli uomini d’arme avrebbe voluto trovarsi da solo là dentro con Mansur. Passando vicino a Viktor, lo guardarono con un misto di ironia e di commiserazione. Ma non appena le porte furono chiuse, Mansur smise di guardare nel vuoto, scese dal trono e andò ad abbracciare Viktor. Quest’ultimo, incredulo, gli chiese in arabo se avesse deciso di ucciderlo.

Mansur si ritrasse inorridito esclamando: «Giuda fàuss, it saras pa fòl[1]?». Di lì in avanti la conversazione si svolse in piemontese e fu amichevole, sommessa e complice come sempre era stata fra i due. Viktor fu informato dei successi ottenuti – che già conosceva – e delle intenzioni future, che ancora ignorava. Mansur intendeva approfittare della vittoria ma senza esagerare: procedere oltre in territorio georgiano avrebbe voluto dire scontrarsi con i Russi, e le sue schiere anche se numerose e agguerrite non erano certo in grado di fronteggiare le zampate dell’Orso pietroburghese. Perciò – disse – sarebbero tornati verso Akeska, risparmiando con grande enfasi il Nakhicevan dove c’erano monasteri domenicani. Una volta ad Akeska, Mansur avrebbe fatto quello per cui era stato mandato: una riforma religiosa basata sulla tolleranza e la fratellanza reciproca, che dando il giusto riconoscimento di supremazia ai mussulmani avrebbe garantito al suo Stato la fedeltà dei cristiani di ogni denominazione, degli ebrei rabbinici, dei caraiti, degli yazidi e dei sabei. Tutti i popoli del libro si sarebbero sentiti garantiti e sicuri sotto la sua bandiera multicolore.

Ecco, pensava Viktor. La solita solfa. Facciamo guerra, ammazziamo il maggior numero di gente possibile, rapiamo ragazze, sbudelliamo adolescenti, lasciamo morire di dolore e di fame vecchi e bambini: tanto siamo giustificati, la nostra è una missione umanitaria ispirataci da Dio. Lo facciamo per la pace, no? Noi stiamo solo costruendo il futuro. Lo fabbrichiamo su fondamenta di ossa, ma lo fabbrichiamo. E per essere sicuri che sia benedetto, sopra ci mettiamo come suggello un bel simbolo religioso o politico – che poi, a ben vedere, è la stessa cosa.

«Lòch penses-to, Tòjo?»[2]

«I penso ch’a l’é pa la matemàtica ch’a l’é vnù mata. A son le religion, le lege, la stòria midema ch’a son mate da sempr[3]»

Mansur si fece serio e fece segno di sì con la testa.

«A l’é pròpi lòn ch’i penso ’dcò mi»[4]


[1] Giuda falso, non sarai mica scemo?

[2] Che cosa pensi, Vittorio?

[3] Penso che non è la matematica ad essere impazzita. Sono le religioni, le leggi, la storia stessa ad essere pazze da sempre.