L’incredibile storia del profeta Mansur

13 Cap xiii

Tredicesima puntata I fantasmi del fumo orientale

FRANCESCO PICCO

Cos j’é-le, matòt? Has-to pàu?[1]

Viktor non riuscì a formulare una risposta di senso compiuto: le parole gli salirono tutte insieme dallo stomaco, parole piemontesi francesi russe e toscane, ma gli si attorcigliarono disordinatamente intorno alle corde vocali, non fu più capace di districarle e le emise tutte spezzate in un unico, poderoso colpo di tosse.

Non devi avere paura, gli disse padre Hovan. Non c’era nulla di cui avere paura, in quella stanza. C’erano solo i fantasmi di due o tre persone che erano morte al mondo ma continuavano a vivere dentro di lui. Ma erano fantasmi innocui, senza alcuna intenzione di spaventare i cristiani. Perciò non c’era altro da fare che avvicinarsi alla lunga pipa ricurva, quella che in Egitto chiamano ‘šiša’ e in Persia ‘qaljan’, ‘hoqqah’ o ‘narghileh’, accoccolarsi fiducioso sul pavimento di tenebra della stanza e lasciare che padre Hovan lo istruisse nell’arte di fumare ‘maassel’. Detto questo, padre Hovan sollevò una sorta di coperta sotto la quale giacevano strati di foglie di tabacco impregnate di melassa. Afferrò delicatamente le foglie, che emanavano un piacevole profumo di frutta, e le depose in un braciere senza pressarle e senza raggiungere l’orlo del braciere; coprì le foglie con un foglio di metallo bucherellato, poi a parte accese un fuoco su cui depositò dei carboncini. Quando questi carboncini furono incandescenti – e il loro rossore brillava sinistro nella tenebra della stanza monacale, quasi come un invadente messaggio dagli inferi – li depose sopra il foglio di metallo. Quindi chiuse lo strano braciere con una specie di ampolla da cui si dipanava un lungo tubo ricurvo. Infine iniziò ad aspirare l’estremità del tubo con una strana voluttà, accentuata dal fatto che mentre aspirava chiudeva gli occhi. Viktor pensò per un attimo di approfittarne per scappargli, imboccare la porta della cella e sparire chissà dove. Ma nel momento stesso in cui lo pensava si rendeva conto che non lo avrebbe mai fatto. Si avvicinò invece al vecchio taumaturgo che fumava beato e assente – ma con un occhio accortamente semiaperto – e si sedette di fronte a lui con le gambe incrociate, come un vero giovane turco.

Senza dire una parola, padre Hovan gli porse l’estremità dalla ‘šiša’ con un gesto che equivaleva ad un invito a fumare. Un po’ titubante, Viktor sistemò quella sorta di bocchino tra le labbra e aspirò il fumo. Tossì. Aprì la bocca. Riprese fra le labbra il narghilè e tirò un’altra boccata di fumo. Stavolta non tossì. Il fumo era dolce. Odorava di frutta e gli piacque. La testa gli pulsava ma senza fargli male. D’improvviso gli sembrò che il buio intorno fosse meno intenso. Distinse sul ventre vitreo dell’ampolla una targhetta in ottone che prima non aveva visto. Protese il viso e si rese conto che sulla targhetta erano incise parole. Anzi, intere frasi. Una in un alfabeto ignoto, che doveva essere arabo o persiano o turco. Ovviamente non seppe leggerla.

L’altra, in alfabeto latino. Era scritta in francese. Diceva: HOMMAGE AU PROPHETE MANSOUR, PRINCE DE CROYANTS.

La lesse e la rilesse. Alzò lo sguardo su padre Hovan e vide che il vecchio non aveva gli occhi chiusi. Anzi, li teneva spalancati e fissi su di lui. Le tempie cominciarono a fargli male. Pulsavano sempre più forte. I polmoni gli bruciavano. Ma trovò la forza per fare a padre Hovan una domanda, rivolgendosi al vecchio in francese:

Qui est-ce le prophète Mansour?

Non attese a lungo la riposta, che già dentro di sé conosceva.