Antonio Canova … e altri

(da Wikimedia Commons)

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FULVIA GIACOSA

Tra gli anniversari del 2022 c’è il bicentenario della morte di Antonio Canova, artista che oggi può apparire assai lontano se lo si guarda con gli occhi della contemporaneità. Non bisognerebbe tuttavia dimenticare che la storia dell’arte, scritta nella posterità, non può considerarsi del tutto esente da una visione angolata sul presente che, fatta salva la corretta contestualizzazione storica, non si può eliminare totalmente: lo dimostrano le continue revisioni critiche sul passato artistico tra accantonamenti e rivalutazioni. Peraltro la post-modernità ha ben poco a che vedere con lo spirito dei tempi di Canova per lo sconquasso provocato dalle vecchie e neo avanguardie novecentesche che talvolta citano l’antico mescolandolo irritualmente con il prosaico presente. Ne vedremo tra poco due esempi, ma prima qualche informazione sul gran Canova come lo definì G. Leopardi.

Canova (1757-1822) ha raggiunto fama internazionale negli anni a cavallo tra Sette e Ottocento nel momento di passaggio dalla tradizione tardo-barocca alle nuove ricerche artistiche che rispecchiano la complessità del momento storico, dominato dal pensiero illuministico alla base tanto del Neoclassicismo etico di J. L. David ed estetico di A. Canova quanto dell’idealismo visionario dei pre-romantici, da considerarsi correnti intimamente legate come provano personalità artistiche del calibro di Füssli, Flaxman, Piranesi, Ingres per citare solo i più noti.

Come tutti sanno (e mi scuso per l’ovvietà di quanto vado scrivendo) il Neoclassicismo non è fenomeno “antiquario”, nonostante una pletora di artigiani che copiavano l’antico per soddisfare i desideri dei committenti; nei suoi artisti più sinceri è invece arte pura che nasce da una tensione creativa e, in tal senso, “rivoluzionaria” nei confronti del recente passato. D’altronde i primi neoclassici si consideravano “ribelli”, oggi diremmo avanguardisti, fortemente impegnati a scardinare la tradizione. Il nome con cui il loro lavoro è passato alla storia, che risale soltanto a metà Ottocento dunque a movimento ormai finito con la famosa querelle tra classico e romantico, li ha condannati a letture standardizzate.  Essi, con i teorici che li sostenevano, definivano la propria ricerca “vero stile”, altro che fenomeno accademico quando non addirittura semplice “moda”. Vero stile e vera natura, integrità intellettuale e razionalità, anti-illusionismo e grazia sublime, solennità e purezza ne sono le caratteristiche fondanti. Canova viene subito notato da committenti e collezionisti per suo virtuosismo tecnico e il successo arriva rapido: sono gli anni di opere come Orfeo ed Euridice, 1773 e Dedalo e Icaro, 1779, anno del suo definitivo trasferimento a Roma dove il suo mecenate è l’ambasciatore veneziano Girolamo Zulian che gli commissiona Teseo sul Minotauro (1781-‘83) e Psiche (1793). Tornato provvisoriamente a Possagno nel 1798 ai tempi dell’occupazione francese della città eterna, vi passa circa due anni, preoccupato per le “orribili disgrazie che di giorno in giorno sempre più vanno crescendo alla desolata nostra nazione” (lettera a Selva del 1797). Qui si dedica soprattutto alla pittura; oggi molte tempere popolate di ninfe ed amorini ispirate a modelli ercolanensi (Il mercato degli amorini, 1799), sono conservate nella Gipsoteca di Possagno. Tornato a Roma pur con viaggi a Parigi dove espone al Salon, Vienna e Londra, Canova scopre i capolavori dell’antichità visitando Pompei, Ercolano e Paestum, oltre alle grandi collezioni romane come quelle del Belvedere (Apollo e Laocoonte ai Musei Vaticani) e la villa-museo del Cardinale Albani, élitario centro di studi, incontri ed elaborazione dell’estetica neoclassica. Compra poi un intero isolato in via delle Colonnette e ne fa il centro internazionale della scultura più aggiornata con un gran numero di lavoranti ed allievi, definita al tempo “officina statuaria”, una sorta di factory ante litteram si direbbe oggi in riferimento all’ ”industria artistica” di Andy Warhol negli anni Sessanta del Novecento.

I soggetti più frequenti della produzione canoviana sono figure mitologiche sul tema dell’Eros (Amore e Psiche giacenti su tutte) e quelli funerari sul tema di thanatos. Nei primi domina un’eleganza armoniosa, nei secondi una mestizia che limita l’aspetto celebrativo (Monumento a Clemente XIV nella basilica dei Santi Apostoli e a Clemente XIII in San Pietro) e che diventa trenodia scolpita nel Monumento funebre a Maria Cristina d’Austria (1798-1805, Vienna, chiesa degli Agostiniani) con la mirabile soluzione di quel velo quasi acqueo, su cui avanzano le figure dolenti, che unisce vita e affetti con la morte che regna nel buio sepolcro. Secondo G. C. Argan “Il maggior Canova è, come il maggior Foscolo, quello dei sepolcri”:

Quale rapporto tra gli originali antichi e la versione canoviana? Prendiamo la Paolina Borghese come Venere Vincitrice (1804-08), in copertina. Qui il ritratto si fa idealizzato, allontanandosi dal concetto di ritratto fisiognomico, e la figura distesa riecheggia la statuaria antica come anche certa pittura contemporanea (Madame Récamier di J. L. David è di pochi anni prima). Non si tratta di “copiare” uno o più modelli (le Veneri giacenti ellenistiche), ma di distillare e sublimare lo “spirito dell’antico” come suggeriva Winckelmann. Il fascino di questa e tante altre figure femminili di Canova sta nel loro essere fuori dal tempo storico, in un agognato esilio di perfezione accompagnato tuttavia da terrena sensualità (Amore e Psiche stanti, 1796-1800 e Amore e Psiche giacenti, 1787-93). Altre opere meno note sono le “teste ideali”, non dunque ritratti ma variazioni sulla bellezza femminile, e le “steli” come quelle di Giovanni Volpato e la stele Tadini, memori di quelle attiche del V e IV sec. a.C.  Sul piano tecnico Canova è stato un maestro. Le sue opere seguono un procedimento originale: dal disegno e il bozzetto in terracotta, più raramente in cera, al modello in gesso a grandezza naturale e alla sua trasposizione in marmo seguendo i “punti” segnati sul gesso, per finire con la “lustratura” che dà lucentezza e l’applicazione di una patina speciale e misteriosa (gli esperti non sempre concordano sugli ingredienti e Canova parla genericamente di encausto, ossia a base cerosa) che consente effetti morbidi ed estremamente naturali. Tale processo esecutivo dalla tecnica raffinata trasporta nel visibile il concetto di “sublimazione”.

Nel secolo scorso, come accennato, non mancano opere che guardano all’antico, spesso passando per le trasposizioni neoclassiche (Canova, Thorvaldsen). Certo quel passato stride così tanto in un secolo di avanguardie che di esso ha dichiaratamente voluto fare tabula rasa in nome di una piena contemporaneità. Certo non si può parlare di eredità canoviana in senso stretto. Tuttavia il mondo classico e conseguentemente quello neoclassico sono l’arché indiscutibile dell’arte occidentale, in particolare italiana, anche quando sono messi in discussione, quando distanza e prossimità con quei mondi s’incontrano clandestinamente.

Prendiamo due soli esempi.

Nel 1967 Michelangelo Pistoletto, protagonista dell’Arte Povera, realizza la Venere degli stracci, un gesso classico messo di schiena contro un cumulo di stracci che in parte erano stati usati dall’artista per lucidare le sue “opere specchianti”. L’opera accentua ogni contrasto: alto e basso, originale e copia, ordine e disordine e in definitiva un’ipotetica eternità neoclassica e una rassegnata transitorietà contemporanea. Tutto ciò ad un primo sguardo. Eppure, a ben vedere, Venere non è poi così diversa dal mucchio di logori panni in quanto copia mediocre (comprata già fatta in un negozio di decorazioni per giardini), idolo declassato ad una quotidianità tanto cara all’arte contemporanea (la prima versione smantella l’aulicità del marmo essendo in cemento con una finitura in polvere luccicante). In fondo siamo di fronte a un provocatorio ready-made di derivazione duchampiana.  Ora, se confrontata con la Venere italica (1804-1812) di Canova, a sua volta sul modello della Venere Medici ( I sec. a.C ) razziata insieme a tante altre opere da Napoleone molte delle quali restituite all’Italia grazie alle accorate suppliche di Canova, saltano subito agli occhi le differenze fino a farci dimenticare che Pistoletto accarezza una certa nostalgia per un passato illustre ormai definitivamente sepolto, facendone una sorta di icona impossibile legata com’è ad una esautorata idea del bello. La sua Venere sta a terra, nel mondo d’oggi un po’ kitsch, negando la tradizione scultorea di un piedistallo che la ponga in uno spazio ideale, mentre quella canoviana è posta su una originale base girevole cosicché lo spettatore possa vederne tutti i particolari intenzionati a renderla figura desiderabile. Scrisse Ugo Foscolo grande ammiratore di Canova: “Io dunque ho visitata, e rivisitata, e amoreggiata, e baciata, e, ma che nessuno il risappia, ho anche una volta accarezzata, questa Venere nuova … questa ch’io guardo e riguardo è bellissima donna; l’una mi faceva sperare il paradiso fuori di questo mondo, e questa mi lusinga del paradiso anche in questa valle di lacrime”. Alle certezze del Neoclassicismo per il quale l’”aura” dell’unicum era indiscusso si sostituisce la riproducibilità dell’attualità (si veda “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica” di W. Benjamin).

Altro artista novecentesco che propongo alla vostra attenzione è Giulio Paolini che in due cicli di opere degli anni settanta e ottanta (Mimesis e L’altra figura) espone su geometrici piedistalli gessi di teste prassiteliche ma anche di figure intere apparentemente “antiche”, spesso con frammenti spezzati posti a terra. Da un lato la consapevolezza della distanza che ci separa dal mondo antico, dall’altra il suo permanere nella nostra memoria storica. Una vena malinconica constata l’abisso tra antiche perfezioni e uno scialbo presente, tra la necessità del passato da preservare e il sogno definitivamente infranto di un’arte che ha perduto la sua torre d’avorio. Questi lavori si presentano come un dialogo muto tra epoche e non è un caso che Paolini avesse una passione per Giorgio De Chirico e i suoi ragionamenti metafisici sulla storia dell’arte e sul processo di creazione. I pezzi di gesso rotti posati a terra non ci ricordano soltanto che l’antico stesso ci giunge spesso in frammento ma anche che la nostra epoca è orfana di integrità.  La particolarità delle opere citate è la presenza di due calchi accostati e perfettamente uguali che pongono l’accento sul tema del doppio, creando una sorta di tautologia, assai praticata nel secondo Novecento dal Concettualismo per il quale l’opera parla di se stessa, del suo specifico linguaggio. E che Paolini sia assai vicino a tale corrente spiega il suo rapporto con la storia dell’arte quando dice: “L’intento è di cogliere – lasciandola intatta – la distanza che ci separa da quelle immagini, ma che al tempo stesso ce le rende visibili. … Non si tratta di una rivisitazione … è più un’accoglienza indifferenziata, una memoria che vuole attingere al farsi stesso dell’opera”. La disposizione ad accogliere lo porta a “rifare attraverso lo scarto”, non è mai dozzinale citazione che rischia di cadere nel cattivo gusto. In una intervista a Angela Vettese Paolini ha dichiarato: “La storia dell’arte non dimentica se stessa e non può tradirsi. Certo attraversa una fase di stravaganza, di voglia di vacanza”. 

Questa accoglienza non è poi così diversa da quella che Canova ha mostrato nei confronti dell’antico.