Mio padre Amedeo

MIOPADRE

RINO GIACHINO

Mio padre fumava trinciato forte, un tabacco nero, dal profumo intenso.
Mi mandava a comprarlo insieme alle cartine nel negozio dei Gavarino, sempre e solo un pacchetto perché era sicuro che sarebbe stato l’ultimo.
Smise parecchie volte di fumare.
Capitava che con determinazione prendesse il pacchetto di tabacco durante una delle sue crisi di asma e lo buttasse nella stufa, rabbiosamente.
Di lì a poco sarebbe andato a rovistare nelle tasche delle giacche, nei cassetti, ovunque, per trovare un po’ di trinciato.
A fumare aveva incominciato da soldato.

Mio padre partì a diciannove anni per andare a fare il soldato.
Era il 15 giugno del 1940.
Lui e Armando s’incamminarono per un sentiero che tagliava la vallata, attraversarono il fiume passando su una passerella fatta da un fusto enorme di castagno messo per traverso e poi sparirono nel bosco.
Erano molto eccitati per quella partenza e cantavano spavaldi nella loro marcia verso quella terribile esperienza.
Ritornarono nel 1945.
Spesso ho chiesto a mio padre di raccontarmi della guerra, lui immediatamente s’incupiva e cambiava discorso.
In certe notti lo sentivo urlare, erano le ferite di quei giorni che venivano ad assillarlo nel sonno, si svegliava madido di sudore, respirava forte e sperava che nessuno lo avesse sentito per rimuovere quei ricordi angosciosi, il più in fretta possibile.
Una sera d’inverno venne un suo amico che aveva vissuto come lui la guerra.
Lo sentimmo allora raccontare di piedi gelati, del mulo a cui si era affezionato, di tormente di neve, della fame, terribile, da fargli rimpiangere quello che a casa bolliva nella pentola con la pastoia che poi sarebbe finita ai maiali.
Raccontò di compagni che chiedevano aiuto stesi sulla neve, la pena e la sofferenza di doverli lasciare a perire, animali feriti senza speranza, corpi dimenticati in una sofferenza sconfinata.
Non ho più provato a chiedergli della guerra.
D’inverno in una grossa pentola facevamo bollire le patate più piccole e deformi, che poi pestavamo per darle in pasto alle galline o ai maiali.
Mio padre ne infilzava una con la forchetta, la pelava fumante e pastosa, la salava leggermente e la mangiava lentamente.

Quando mi ammalavo, mio padre si sedeva vicino al mio letto e mi raccontava delle storie.
Erano storie di maghi che vivevano nei boschi ed avevano grosse pentole che bollivano, pronte per farci cuocere chi venisse loro a tiro.
Finivano per finirci loro nella pentola, ingannati da un bambino “furbo come la volpe” diceva mio padre.
Erano fiabe crude e terrose, eppure magiche e incantate, raccontate in dialetto, con i personaggi dai nomi intraducibili.
I maghi si chiamavano “Drajè” e non avevano la barba bianca e il capellino a punta, ma erano giganteschi e deformi, il bambino furbo era “Tèsnen” e in tasca aveva dei ceci che lo aiutavano nei momenti di bisogno.
Qualche anno dopo, nella biblioteca della scuola, conobbi i libri di favole, con le loro illustrazioni, i loro personaggi famosi, Cappuccetto Rosso, Biancaneve e i sette nani e altri ancora.
Quelle dei libri erano favole, quelle raccontate da mio padre erano storie. Era diverso.
Mentre raccontava le sue storie io gli guardavo le sue mani enormi e tagliuzzate dai lavori di campagna, i suoi occhi chiari e vivaci.
Mi piaceva ammalarmi.

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