Un moderno che amava l’antico: Giovan Battista Piranesi

Carceri d'invenzione (da Wikimedia Commons)

Carceri d’invenzione (da Wikimedia Commons)

FULVIA GIACOSA

A proposito di anniversari, sicuramente il 2020 (20-20, due bei numeri pieni, tondi) sarà l’anno di Raffaello (morto nel 1520) e Beethoven (nato nel 1770), tuttavia sono anche 300 anni dalla nascita a Venezia di G.B. Piranesi, incisore, architetto e teorico, a cui dedichiamo le seguenti note.

Pillole biografiche. Dopo qualche lavoro architettonico e ingegneristico presso la Magistratura delle Acque della laguna, si trasferì nel 1740 a Roma dove iniziò le prime incisioni (Prima parte di architetture e prospettive inventate e incise da Gio. Batta Piranesi architetto veneziano, 1743). Se si esclude un breve rientro a Venezia tra il 1744 e il 1747 visse sempre a Roma dove aprì bottega. Nonostante l’aspirazione a diventare un grande architetto in grado di restituire alla città eterna la grandezza perduta, sarà l’incisione la sua principale attività, basata su attenti studi archeologici. Tra le serie più note si annoverano le Vedute di Roma (due serie, nel 1748 e poi nel 1756, di grandi tavole su ruderi e monumenti antichi che ebbero un successo anche commerciale), Opere varie di architettura, prospettive, grotteschi, antichità sul gusto degli antichi romani, inventate e incise da Gio. Piranesi architetto veneziano del 1750, Camere sepolcrali degli antichi romani, le quali esistono dentro e fuori di Roma iniziate nel 1750 e pubblicate nel 1752, e Carceri d’invenzione (dal 1745 al 1761, varie edizioni) il cui successo internazionale si spiega in parte con la moda settecentesca del grand tour che fece di Roma un centro di intellettuali cosmopoliti e di Piranesi la fortuna. Nell’anno della seconda edizione delle Carceri l’artista diventò membro onorario dell’Accademia di San Luca e ricominciò ad interessarsi di architettura con progetti di restauro tra cui la chiesa di Santa Maria del Priorato e la costruzione della piazza antistante (1763) voluta dal cardinale Giovanni Battista Rezzonico, nipote di papa Clemente XIII e gran priore di Malta. Dello stesso 1761 è la pubblicazione di un saggio, Della magnificenza e architettura de’ romani, seguito nel 1765 dal Parere su l’architettura: con l’ausilio di tavole illustrative Piranesi puntò a dimostrare la superiorità dell’architettura romana su quella greca, in contrasto con le idee del contemporaneo Winckelmann. La rivalità tra i due è cosa nota e le differenze non sono solo su questioni estetiche: se si escludono le comuni, umili condizioni di nascita (figlio di un calzolaio Winckelmann, di un tagliapietre Piranesi), tutto li separa. Il tedesco riuscì a compiere studi universitari e trovò presto protettori potenti; aveva modi gentili da uomo di mondo che gli garantirono assidue frequentazioni dei salotti romani e del mondo accademico, oltre a diventare bibliotecario del cardinale Albani, l’uomo intorno al quale fiorì il Neoclassicismo settecentesco. Il veneto, dal pessimo carattere, dispotico irascibile polemico e vendicativo, che non si fece scrupoli nello sfruttare i figli nella sua bottega, era convinto di non essere sufficientemente apprezzato e soprattutto ostacolato nell’agognato esercizio dell’architettura (non a caso si definiva architetto e non incisore nei suoi frontespizi); faticò ad entrare nei circoli romani tant’è che la sua fortuna si deve in gran parte a stranieri “romanizzati”. Eppure Piranesi ebbe una vita priva di grandi scossoni e una sepoltura “degna” nella sua chiesa sull’Aventino con tanto di statua, Winckelmann finì assassinato da un balordo che tentò di derubarlo (anche se dietro pare ci fossero questioni più scabrose) e sepolto in una fossa comune. Diversissimi anche i rispettivi giudizi sull’antico: Winckelmann, personalità di spicco nel circolo del cardinale Alessandro Albani, è sostenitore della incomparabile grandezza della grecità riassunta in nobile semplicità e quieta grandezza che occorre “imitare”; Piranesi rimpiange e insieme “reinventa” la ciclopica monumentalità dell’arte romana. Così la nostalgia dell’antico si ammanta di voluttà in Winckelmann e di saturnina melancolia in Piranesi. Il Tempo regna nelle sue incisioni sia in forma di rovine (da studiare e raffigurare con esattezza scientifica) sia in forma di arbitrarie invenzioni che nascono già “consumate”. Non stupisce dunque l’incomprensione dei contemporanei con i loro giudizi feroci, come quelli di Vanvitelli.

Chiave d’accesso. Marguerite Yourcenar, quando era a New York dove si era trasferita con lo scoppio della II G. M., comprò alcune stampe di Giovan Battista Piranesi, una delle quali sul Canopo di Villa Adriana a Tivoli: Mémoires d’Hadrien era già in bozza dagli anni trenta e venne ripreso proprio durante questo periodo e pubblicato poi nel 1951. Di Piranesi ammirava lo spirito e le tecniche, in particolare i bulini e le acqueforti, e di lui scriverà negli anni sessanta richiamando proprio quella melanconia immaginifica che lo rende moderno (Le cerveau noir de Piranèse, in Sous bénéfice d’inventaire, 1962). La scrittrice, sulla base di un saggio di H. Focillon su Piranesi del 1918, coglie la sintesi tra una puntuale analisi archeologica delle rovine e una “sublime” immaginazione sulle ruine parlanti come ebbe a definirle l’autore stesso. Già presente nei primi lavori, quest’ultima trova pieno compimento proprio nelle Carceri d’invenzione. Gli spazi ciclopici e dedalici che sembrano affiorare da uno stato onirico sono negazione del tempo, sfalsamento dello spazio,…ebbrezza dell’impossibile raggiunto o superato, scrive la Yourcenar. Prospettive multiple mescolate tra loro, aperture inaspettate, improvvise interruzioni del vuoto con volumi architettonici, scale improbabili, strumenti di tortura, piccole figure misteriose sono esaltate dai tratteggi densi e dalle “barbe” della puntasecca con una dominante nera che limita le zone luminose delle acqueforti; tutto ciò ha finito di sostituire la precisione “illuministica” delle prime incisioni con una visionarietà preromantica nella quale l’ordine neoclassico viene rappresentato come perdita e proprio per questa ragione è ancor più evidente e presente (ancora Yourcenar). Il “bello” dell’ultimo Piranesi non ha nulla a che fare con l’apollineo di Winckelmann: è sublime dionisiaco. Ad esso l’architetto arriva solo dopo un ostinato percorso dentro l’antico: da un iniziale atteggiamento nostalgico alla constatazione della inevitabile corrosione fino all’ultima angosciante consapevolezza della “decadenza” cui si può rispondere solo con l’audacia dell’invenzione. Questa raggiunge il suo vertice nelle Carceri, quasi kafkiane (penso a Nella colonia penale, 1914), alcune delle quali recano citazioni frammentarie tratte da Tito Livio.

Al confronto delle incisioni, le opere architettoniche di Piranesi possono parere deboli. La sistemazione dell’Aventino, con i giardini, il viale alberato con vista sulla cupola di San Pietro, la piazza con la cinta muraria coperta di edicole monumentali e la Villa del Priorato, la chiesa di Santa Maria (restauri dal 1764 al 1766, gli stessi anni del testo Parere sull’architettura) venne commissionata da Clemente XIII e famiglia con la precisa richiesta di rinnovare e non restaurare le preesistenze. Su un impianto neoclassico di esaltazione dell’antico Piranesi inserisce decorazioni fortemente simboliche atte ad esaltare l’Ordine di Malta e i committenti e a ricordare i miti legati al colle (detto monte dei serpenti, figure che compaiono in facciata), sfruttando la propria conoscenza delle antichità romane e delle loro radici etrusche e addirittura egizie, in linea con quanto scrive nel Parere.