B come BASQUIAT

FULVIA GIACOSA

Basquiat lavora quando la stagione delle grandi contestazioni si è definitivamente chiusa e il generale clima post-moderno è caratterizzato dal pluralismo linguistico: di tecniche, di iconografie e di stili sempre più meticci. Gli Ottanta, in pieno edonismo reganiano, sono ricchi di contraddizioni. I ghetti etnici della Grande Mela in abbandono sono lo spazio di una cultura alternativa, ribelle, fortemente identitaria, non più in senso collettivo come nei decenni precedenti ma fortemente individuale: le nuove generazioni hanno una fragilità esistenziale aggravata dall’uso smodato di droghe e cercano il riscatto dalla marginalità aggredendo l’ambiente urbano con i graffiti. Presto, per suggellare tale riscatto, finiranno di entrare nello star system artistico pagandone però un prezzo altissimo: quando e se ottengono la visibilità inizia l’ossessione di poter perdere tutto all’improvviso.

Nel variegato contenitore che ha assunto il nome di Graffitismo, Jean-Michel Basquiat (1960-1988) è un protagonista. Si tratta della seconda generazione di graffitisti seguita a una prima fase “anarchica” in cui i writers si tenevano lontani dal mondo mercificato dell’arte con l’intento di offrire gratuitamente ai passanti le loro immagini in imprescindibile dialogo con edifici fatiscenti. A New York sono soprattutto zone come Downtown ad essere ricoperte di graffiti ma nel giro di pochi anni si assiste al loro recupero e al dilagare della speculazione edilizia. In questi quartieri, non lontani dall’area del Greenwich Village ove sono nate prima la Beat Generation poi la cultura hippy, iniziano la loro avventura artistica cantanti, musicisti, attori, registi, pittori destinati a fama internazionale in futuro. Scantinati e garages diventano sede di piccole gallerie alternative e studi artistici improvvisati. Ed è qui che compare lo stile selvaggio di un’arte realizzata sui muri con spry e vernici industriali prima di essere fagocitata dalle gallerie di Soho (Gagosian, Mary Boone, Nosei tra le più note) dotate di fiuto mercantilistico e capaci di irretire personaggi underground come Keith Haring e Jean-Michel Basquiat mettendoli in contatto con i collezionisti e determinandone la fortuna. Si registra un boom del mercato e il fine principale degli artisti è ormai far soldi. Complice la generale stanchezza nei confronti delle ultime neoavanguardie (dal minimalismo al concettualismo più radicale, ma anche dal tramonto della parabola Pop), i mercanti sono consapevoli che occorre qualcosa di nuovo e trascinante. Eppure, in personaggi come Haring e Basquiat non mancano spunti pop, pennellate informali, primitivismi neo-espressionistici; tale mix, aggiornato sulla contemporaneità, compone un ordigno che esplode nella capitale artistica americana per dilagare oltre, Europa compresa (si pensi ai graffiti del muro di Berlino). Nel giro di qualche anno alcuni graffitisti raggiungono quotazioni strabilianti, anche se hanno pagato con un atto di abiura: l’abbandono del muro per la tela. Il successo si deve al viscerale uso della figurazione dopo tanta arte mentale e impersonale. Il graffitismo eredita così lo stretto rapporto tra arte e vita (in Basquiat spesso un’arte biografica) e l’urgenza gestuale dell’Informale che si mescolano a messaggi provocatori da “fuorilegge” come era avvenuto nella prima generazione della street art.  Il modus operandi dei graffitisti ha una brutale istintualità e non è casuale che molti di loro riconoscano in Dubuffet (e la sua “art brut”, ossia grezza, teorizzata nel 1945) un loro sodale.

La breve vita di Basquiat, con una famiglia meticcia della middle class (il padre, commercialista, è haitiano, la madre portoricana), è fin da subito segnata da disordine e trasgressione: scappa più volte da casa, dorme nei parchi, ha problemi con la scuola, frequenta gli ambienti borderline e fa uso di droghe. Nonostante si sia definito un “poeta analfabeta” è colto, parla tre lingue, visita i musei d’arte contemporanea con la madre, fa musica e legge molto, soprattutto la Beat Generation; inoltre si appassiona di anatomia già da ragazzino grazie ad un libro di Henry Grey regalatogli dalla madre durante la degenza in ospedale dopo essere stato investito da una macchina mentre giocava a pallone. In molte sue opere se ne notano gli influssi (arti, crani, volti come “Skull”, 1981, e “Agony of the feet”, 1982); non a caso, chiamerà “Grey“ il gruppo musicale con cui suona il clarinetto al Mutt Club, locale alternativo della zona. Inizialmente scrive sui muri con un compagno di scuola e i due si firmano con la tag “SAMO©” (riferita alla marjuana che fumava a scuola (Same Old Shit = sempre la stessa merda). I graffiti di questo primo periodo sono pubblicati sul giornale “Soho news” che li definisce poesie di strada. Il 1979 segna uno spartiacque tra un prima e un dopo. Prima è sostanzialmente uno street artist come tanti, anche se la sua particolarità consiste nell’uso quasi esclusivo di testi scritti (uno di questi recita “SAMO©” come alternativa al fare arte con la setta radical chic finanziata dai dollari di papa”). Eppure il copyright rivela la necessità di rivendicare la proprietà intellettuale del graffito, la consapevolezza del proprio talento che brama riconoscimenti. Un anno prima della svolta conosce Keith Haring alla “School of Visual Arts” e con lui stringe un’amicizia durevole. I due però sono diversi: se i topoi figurativi di Haring sono quasi innocui, i disegni di Basquiat presentano una “devianza” che è specchio di una vita spericolata e piena di guai. Basquiat vuole quel successo che aveva promesso al padre perplesso sulle scelte del figlio. Per far ciò occorre “uccidere” SAMO. Così nel 1979 compare la famosa frase-annuncio “SAMO© is dead” che pone la parola fine su questa fase della sua esistenza. Basquiat cerca contatti con l’establishment, diventa un “artista” che usa tele e cartoni, e comincia a guadagnare un mucchio di soldi. Una serie di serigrafie dal titolo “Anatomy” (1982) è caratterizzata da frammenti anatomici disarticolati. Ottiene le prime recensioni e partecipa ad alcune collettive ((“Times Square Show”, 1980 e “New York/New Wave”, 1981). In questa seconda mostra incontra il gallerista Emilio Mazzoli che lo invita a Modena dove organizza la sua prima personale nel 1981. Alla fine di quell’anno esce una prima importante recensione sulla rivista “Artforum” dal titolo The Radiant Child. Ormai la montagna è scalata e le successive mostre saranno un successo, tant’è che nel 1982 viene invitato a Kassel per la mostra quinquennale “Documenta”, pari per importanza mondiale alla Biennale di Venezia. Sempre nell’ ’82 incontra Andy Warhol che lo accoglie nella Factory e con cui dà vita, nel 1984, ad una serie di lavori a quattro mani, a volte addirittura sei per gli interventi del transavanguardista italiano Francesco Clemente (serie “Collaborations”). Warhol vede in Basquiat una ventata giovanile e innovativa di cui ha bisogno, mentre il secondo sa che Warhol, l’uomo che ha fatto di se stesso un’opera d’arte e per il quale ha una stima sincera, è un ottimo passpartout per il successo. Negli ultimi anni si attenua in parte quella rabbia che ne ha caratterizzato finora il percorso. Ma un’ombra nera incombe su di lui: un crescendo nell’uso di droghe lo porterà a morire di overdose a soli 28 anni e forse la morte precoce, nel pieno di una fama che l’artista ha ormai raggiunto ma che è terrorizzato di perdere, ha contribuito a farne un mito per i giovani di ieri e di oggi, proprio come è successo alla generazione di musicisti che tanto ha amato (da Jimmy Hendrix a Janis Joplin, morti prima dei trent’anni). Quasi consapevole è in lui l’avvicinarsi della fine: lo dice in “Eroica I” e “Eroica II” (1987-‘88), ove la pittura quasi sparisce per far posto alla ripetizione della frase “man dies” e ancora in un’ultima opera, “Riding with death” dove una figura che ormai pare un’ombra monta un cavallo scheletrico verso il nulla (mi vengono in mente certi “Trionfi della Morte” medievali).

Nella sua produzione ricorrono alcuni temi in cui convivono le origini afroamericane, la cultura bianca, la denuncia della ghettizzazione, l’orgoglio nero, le simbologie personali. Sono indiscutibili echi dell’Informale (sgocciolature alla Pollock, grafie elementari alla Twombly, deformazioni alla De Kooning, matericità alla Dubuffet) e la rielaborazione personale di soggetti comuni e popolari propri della Pop depurati della loro freddezza grafica; il primitivismo delle forme non ha nulla a che vedere con certe tendenze primo-novecentesche, anzi egli prende le distanze da Gauguin, Picasso e Matisse per i quali la negritudine è stilema superficiale, incapace di coglierne la sincera e ancestrale potenza espressiva; la sua arte tribale intende riscattare i valori etici dei popoli extraeuropei cui si sente di appartenere. L’orgoglio black è incarnato in figure di “eroi neri” dello sport (i pugili Muhammed Ali e Joe Louis, il cestista Jackie Robinson, l’atleta Jessie Owens) e della musica jazz (Charlie Parker, Miles Davis). Ripetutamente inoltre compaiono simbologie identitarie come la corona a tre punte, quasi un’aureola che lo identifica come re dei graffitisti ma anche re caduto e martire; o come l’eroe-guerriero (“Warrior”, 1982) che riscatta il mondo afroamericano. Le parti figurate generalmente sono inserite in un contesto scrittorio; la scrittura infatti costituisce la fitta trama dell’opera, fatta di scarabocchi, parole cancellate, pensieri sincopati, accostamenti criptici che eliminano ogni compiutezza narrativa (“uso le parole come fossero pennellate”, ha detto). Il tutto costringe lo spettatore ad una altrettanto frenetica percezione simultanea. Le sue tele sono una sorta di ring su cui l’artista combatte contro i propri fantasmi, un’ “arena”, come si disse per Pollock, dove vita e arte coincidono (“Mentre lavoro non penso all’arte, penso alla vita” dice). Le forme sono disorganiche, spigolose, arcaiche come nella scultura africana e richiamano un mondo magico, sciamanico. Non è un caso che l’artista senta il bisogno nel 1986 di fare un lungo viaggio in Africa alla ricerca delle proprie radici.
Dopo un successo internazionale, tra il 1986/87 inizia a scemare l’entusiasmo di critica e di pubblico e l’ultima personale importante è quella di Parigi l’anno prima della morte.

Basquiat ha lasciato in eredità ai graffitisti di oggi il giudizio critico sulla società massificata orfana di valori. Ma nel giro di una generazione tempi-modi-luoghi sono cambiati. Un artista come Bansky (Bristol, 1974) lo dimostra. Oltre alle diverse origini dei due – Basquiat immerso nella cultura “black”, Bansky in quella inglese – c’è un elemento strettamente artistico che li distanzia. L’arte del primo è enigmatica oltre che rabbiosa, quella di Bansky è comprensibile al primo sguardo: nessun significato nascosto, nessuna violenza e caos paranoico, “ciò che vedi è ciò che è” (come il motto dei minimalisti), nessuna astrusa teoria estetica: tutto ciò aiuta la comunicazione e la riflessione. “Accessibilità” è la sigla dei suoi lavori, da alcuni suoi detrattori sminuita a mediocrità mentre invece lo scopo dell’artista è di avvicinare all’arte un nuovo e vasto pubblico refrattario alla componente concettuale del contemporaneo. Questo non gli impedisce di denunciare le storture della società, ma tutto avviene senza urla, con l’ironia tipicamente british. La bambina col palloncino sul muro di Israele, i due bimbi (dipinti) che giocano su un (vero) cavallo di frisia in Ucraina sono immagini immediate che non necessitano di scritte esplicative.
Bansky ha saputo tutelare la sua privacy (e il proprio anonimato) grazie ad un abile uso dei media, senza rinunciare al successo. L’autore quasi si annulla come tale; per lui parlano i messaggi sui muri accuratamente scelti di volta in volta nel mondo o tradotti in stampe e tele destinate al mercato, conciliando – se possibile – i due mondi del (post)graffitismo. Resta, allo stesso artista, la difficoltà di tale conciliazione quando dichiara: “Non voglio essere ricordato come quello che ha contaminato una forma perfettamente lecita di arte di protesta con il denaro e la celebrità. A volte mi chiedo se io sia parte della soluzione o parte del problema. Ovviamente non c’è niente di male a vendere la propria arte … ma non è facile decidere fino a che punto si può arrivare.”

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