L’ultimo lento

Libertango, di Franco Blandino

Libertango, di Franco Blandino

SILVIA PIO

Le luci abbassate rendono la sala un luogo morbido, nel quale è facile nascondersi. In due l’avevano invitata a ballare: uno non era proprio capace, l’altro sapeva di aglio e aveva le mani sfuggenti. Finiti i brani si era allontanata dalla pista, ringraziando, e si era seduta a un tavolino nelle alcove ai bordi. E di là aveva continuato a guardarlo, un altro, un bel tipo che non perdeva un ballo e sempre con donne diverse. Una volta gli sguardi si erano incrociati, e lei aveva subito abbassato il capo, per poi rialzare gli occhi di sghimbescio.
Aveva ordinato una tonica, chiedendo un goccio di gin al barista compiacente, che le aveva fatto pagare solo la bibita. Guardava i rilessi del ghiaccio e del limone che quasi brillavano nella penombra.
Ti va di ballare?
Alzando gli occhi se lo trova davanti, con la camicia ancora impeccabile nonostante si sia mosso per almeno un’ora e i jeans attillati. Per fortuna le luci sono davvero basse perché deve avere una cinquantina d’anni, forse meno.
Non risponde ma si alza e gli tende la mano.
A volte i due che ballano hanno altezze troppo diverse, a volte le mani scivolano, i corpi sfuggono nei giri più vorticosi, le punte dei piedi cozzano. Ballare è faticoso. Ma non con lui: sincronismo perfetto e forza centrifuga azzerata da una specie di magnetismo. Non accenna a smettere, e lei pensa che presto si sentirà stanca. Durante un brano pop da ballare a lento, quando sono per forza più vicini, lui comincia a sussurrarle alle orecchie in un gesto un intimo.
Mi piace questo posto e mi piace ballare. Vengo spesso qui. Con te mi trovo proprio bene, ci possiamo rivedere?
Non si è accorto della mia età, pensa lei. Non si vede quasi nulla, e poi non ho mai dimostrato gli anni, sono minuta, e i capelli sembrano biondi.
Vengo quasi sempre la domenica, che ne dici della prossima?
Adesso sono un po’ stanca e confusa… non ricordo quando sarà domenica…

Da mesi dimenticava le cose, il gas acceso, la porta aperta… Era come se ci fosse un black-out, e tutto quello che succedeva spariva. Aveva provato alcune strategie prima di andare dal medico, come mettere promemoria sul telefono o imparare a memoria le poesie: si ricordava tutto Leopardi, ma non se era già andata a fare la spesa. Aveva fatto le analisi prescritte e la diagnosi era stata di demenza senile: entrambe le parole l’avevano offesa profondamente.
Aveva fatto finta di nulla per un poco, ma quando aveva perso entrambe le chiavi dell’auto aveva dovuto giustificare a sua figlia perché viaggiasse in taxi. E sua figlia aveva preso la situazione in mano, come sempre, e l’aveva convinta a trasferirsi vicino a casa sua, ma non con lei, no: il marito è troppo impegnato e i ragazzi troppo impegnativi. L’aveva convinta a vendere l’alloggio e le aveva trovato un bel pensionato dove qualcuno si sarebbe occupato di lei. Facendo un costoso duplicato delle chiavi, l’auto si poteva ancora vendere a un buon prezzo.
Tutto organizzato.
Il trasloco è la prossima settimana. Non sa dove finiranno i suoi bei mobili, i libri, gli abiti eleganti. Può portare solo una valigia, la stanza al pensionato è piccola.

Sediamoci. Vado a prendere da bere? Vuoi qualcosa?
Lei fa cenno di no con il capo, aggiungendo un sorriso a mo’ di grazie. Lo guarda allontanarsi e diventare una macchia bianco acceso sotto le luci stroboscopiche.
Non credo che tornerò in questa sala, pensa, né domenica né mai. Il pensionato è vicino, insomma abbastanza, a casa di mia figlia, ma ben lontano da qui. Volevo ancora ballare una volta, come facevo da giovane quando ero sposata. È stato bello nascondersi in questa penombra che avvolge, dove posso essere chi voglio e non chi sono.
Perché togliere le illusioni a questo bel cinquantenne?
Ma ora devo sganciarmi. Vado all’ingresso e faccio chiamare un taxi. È così buio che nessuno si accorgerà di me.
Devo solo trovare la borsa.