FATE PRESTO. Una collezione atipica d’arte a Caserta

Lucio Amelio, polaroid di Augusto De Luca (da Wikipedia)

Lucio Amelio, polaroid di Augusto De Luca (da Wikimedia Commons)

FULVIA GIACOSA

Il mese scorso quotidiani e media hanno ricordato il terribile terremoto in Irpinia della sera del 23 novembre 1980 con un bilancio impressionante di quasi 3000 vittime e circa 300.000 sfollati. Paesi come Sant’Angelo dei Lombardi, Lioni, Muro Lucano furono letteralmente rasi al suolo. Le immagini della devastazione di interi territori tra Campania e Basilicata, aggravata da un ritardo ingiustificabile nei soccorsi e stigmatizzata dall’allora presidente Pertini, si commentano da soli. Tristemente celebre è diventata la prima pagina del Mattino di Napoli del 26 novembre dal gigantesco titolo FATE PRESTO che da solo riassumeva la disperazione di quelle terre.

Forse non a tutti è nota una iniziativa in campo artistico che vorremmo ricordare. Il gallerista napoletano Lucio Amelio (1931-1994), forte di conoscenze internazionali, chiese ad artisti di tutto il mondo di realizzare un’opera da dedicare all’evento, pur lasciando a ciascuno piena libertà espressiva, ed ebbe risposte immediate. Il gallerista dichiarò in quell’occasione: “c’era dell’energia nell’arte, tanta energia da potersi contrapporre a quella scatenata dalla terra”, frase che riassume lo spirito con cui gli artisti aderirono all’iniziativa. Tra costoro citiamo i nomi più noti al pubblico chiedendo scusa agli altri: Joseph Beuys, Enzo Cucchi, Keith Haring, Jannis Kounellis, Robert Mapplethorpe, Julian Opie, Mimmo Paladino, Giulio Paolini, Michelangelo Pistoletto, Robert Raushenberg, Andy Warhol …

La settantina di opere finì per costituire una collezione atipica, nata dalla conoscenza e amicizia di Amelio con gli artisti, dal titolo Terrae motus che, dopo una prima sede ad Ercolano e molte mostre in varie parti del mondo, venne trasferita alla Reggia di Caserta a cui Amelio la lasciò nel suo testamento. Attualmente le opere vengono esposte a rotazione nella reggia per problemi di spazio.

Forse la più nota è “Fate presto” di A. Warhol, che riprende e ingrandisce per tre volte la prima pagina del giornale: ogni serigrafia ha tonalità diverse, quella originale del giornale ha i forti contrasti bianchi-neri della stampa, una seconda è quasi un negativo ed una terza è sbiadita nel biancore della dimenticanza. Joseph Beuys utilizza l’installazione mettendo in una stanza alcuni oggetti trovati tra le macerie e sottolineando la precarietà del quotidiano con contenitori in vetro posti sotto le gambe di un tavolo e spargendo vetri rotti sul pavimento (“Terremoto a palazzo”); inoltre all’inaugurazione l’artista si china sotto un tavolo come chissà quanti irpini hanno fatto nella speranza di salvarsi dalla scossa. L’allora giovane Keith Haring non rinuncia ai suoi graffiti e alle sue figure simboliche: nel “Senza titolo” sono presenti sia i cani rabbiosi che richiamano il dio egizio Anubi, guardiano dei morti dalla testa di cane, sia la folla (nella parte bassa) che qui assume il significato della tragedia collettiva. Vi sono poi opere neo-espressionistiche come “Erdbeben im Bierkeller” di A.R. Penk, un dittico ad acrilico, o “Et la terre tremble encore, d’avoir vu la fuite des géants” di Anselm Kiefer, entrambi tedeschi sia pure di generazioni diverse, o ancora “L’ombra che trema” di Miquel Barcelò (un autoritratto che dipinge mentre la terra trema); oppure installazioni come quella di Richard Long (un cerchio di pietre vesuviane, “Vesuvius Circle”) o quella di Christian Boltanski (“Senza titolo”) che appende al soffitto una serie di ex voto comprati a Spaccanapoli; tra gli italiani molti faranno la fortuna internazionale della Transavanguardia, mentre all’Arte Povera appartiene Mario Merz che nel suo “Terrae Motus, in quel tempo…” sconvolge l’ordine dei numeri di Fibonacci nei cerchi concentrici dei sommovimenti tellurici. E tanto altro ancora …

La vicenda ci consente una conclusiva riflessione su una funzione essenziale dell’arte, vale a dire la trasformazione di un fatto in memoria collettiva: alle immagini dei mass-media, consumate in poco tempo e dimenticate con facilità, l’arte contrappone la durata del transeunte nella coscienza collettiva. A tal proposito vorrei richiamare un brevissimo intervento di Didi-Hubermass in “Del contemporaneo”. L’arte è essenzialmente “forma” e come tale va oltre il suo contenuto narrativo, impone una attenta osservazione e in tal modo facilita la comprensione superando il primo livello, quello della cronaca, per entrare nella dimensione storica dal respiro universale che è proprio dell’arte quando sa uscire dalla ristrettezza del contingente.

https://www.reggiadicasertaunofficial.it/it/reggia/terrae-motus/