Diario di una giovinezza, diciannovesima puntata. Il lager

La stazione di Stablack

La stazione di Stablack

FELICE BACCHIARELLO

Stablack

A Stablack fummo internati in un campo già abitato da circa 30 mila prigionieri francesi, in maggioranza, russi e inglesi. Ivi cominciammo a prenderci una visione della vita vissuta in mezzo al filo spinato.
Fummo sottoposti alle solite operazioni preliminari, alle quale deve sottostare di rito ogni prigioniero. A scaglioni, con ogni nostro eventuale bagaglio, fummo fatti passare, dopo ore ed ore di penosa attesa, al freddo (si noti che a metà settembre ove si fosse gettata acqua alla sera, al mattino seguente si vedeva il ghiaccio), in un lungo baraccone-ufficio. Ivi apposito personale passava in rivista lo zaino o qualunque fardello ad ognuno, asportando qualunque cosa fosse riuscita a questi gradita, non esclusi sigarette e denaro, pagando il proprietario, se non con una pedata, almeno con un “Das Verboten” (questo è proibito), procedendo indi alla immatricolazione con consegna del piastrino relativo con inciso il nome del campo in cui si era stati iscritti ed il numero di immatricolazione, che serviva come documento di riconoscimento; pertanto era obbligatorio portarlo al collo sempre come una sacra memoria. Per questa abitudine lo volli portare almeno a metà a casa.
A me toccò il numero 1056, numero che se campassi cent’anni non mi sfuggirebbe dalla mente di certo, tanto mi è rimasto impresso per averlo sentito innumerevoli volte ripetere nei continui ed assillanti appelli. A mio fratello il 1058.

In questo campo, in mezzo alla nostra incredulità, ci fecero sentire la parola del Duce Mussolini, dopo la sua liberazione dal luogo di prigionia, incitante al combattimento, a far parte della nuova sedicente Repubblica di Salò.
In seguito a questo cominciarono le pressioni da parte del comando tedesco per ottenere il nostro arruolamento nelle truppe della repubblica italiana fascista, pressioni che durarono per parecchi mesi ed ebbero il loro effetto e le loro conseguenze.

Per ultimare le prime operazioni del campo, fummo fatti passare al bagno, dove sbrigativi parrucchieri provvedevano a far tabula rasa delle nostre chiome, le quali non ebbero più la ventura di crescere per circa due anni.
Il cibo non era troppo (non c’era il rischio di indigestioni), ma almeno era in quantità superiore a quello del viaggio, corrispondendo a circa un terzo del fabbisogno, come gonfiamento però e non come sostentamento.
Inoltre c’era la possibilità di rifornirsi di viveri dai prigionieri francesi e inglesi, i quali, tutti ormai addestrati magnificamente nell’arte della truffa e dello strozzinaggio, approfittavano della nostra fame per prendere ogni oggetto di valore di cui ogni affamato si spogliava senza scrupolo e senza pensarci due volte.
Bisognava guardarsi dai ladri tedeschi ed italiani, perché recandosi a fare il giro dei reticolati divisori (si noti che il campo era diviso in centinaia di piccoli campi denominati battaglioni, cinti da reticolati), al ritorno era facile trovare i propri effetti manomessi, ed asportata qualsiasi cosa di qualche valore o utilità. A me toccò mai tale ventura, perché di solito certi giri di perlustrazione per eventuali colpi di mano li faceva mio fratello, mentre io stavo a guardia di quanto ancora era in nostro possesso.

Poco più di una settimana fummo lasciati in questo campo.
Non tollerando Hitler che alcuno rimanesse inattivo nel grande Reich, fummo nuovamente caricati su un treno ed inviati in un campo nel quale appena 25 anni prima avevano sofferto altri italiani, a giudicare dagli scritti rimasti nel legno dei baracconi seminterrati e da vari cimeli italiani, situato nel paese di Ebenrode, a 20 minuti di strada dalla linea di confine con la Lituania. Il campo, abbandonato da parecchio tempo, era pieno di sterpi, malandato, per cui fummo noi i primi a riattivarlo e metterlo in funzione con tutti i vari servizi, per accogliere poi quelli che a distanza di 10 e 15 giorni seguivano la nostra sorte.
Si era 1500. Coll’arrivo di altri prigionieri, come noi sventurati, in certi giorni si raggiungeva il numero di dieci e più mila uomini, pigiati, senz’acqua, senza latrine. I nuovi arrivati venivano smistati dopo l’immatricolazione ed inviati ai vari centri di lavoro immediatamente (miniere, fabbriche, imprese, ecc.).
Cessato questo primo afflusso, altri militari arrivarono in uno stato da far pietà e trattati in modo veramente barbaro, tanto da causare la morte di parecchi in pochi giorni; arrivarono molti civili sotto la colpevole denominazione di “banditi italiani” e fra i quali erano uomini di 60 anni e bambini di 11-12, catturati in costume da bagno sulle spiagge di Napoli e altre località fatte dai tedeschi obbligatoriamente evacuare, e così trasportati in Prussia, ove morirono in gran numero per il freddo e la polmonite.
Si rimase ancora fino a tutta la prima decade di novembre. Questo periodo fu di fame duratura. Infatti il vitto, che sulle prime era scarso e cattivo, con il passare dei giorni diveniva nullo e immangiabile.
Il mattino, gentilmente svegliati a colpi di calcio di fucile o con altro brutale mezzo da parte dei soldati di guardia, in pochi minuti ci si doveva radunare negli spazi antistanti le rispettive baracche per il controllo, cosa che avveniva tante volte quante saltava in mente al più pezzente e moccolato rudere di soldato tedesco.
Veniva poi la distribuzione del cosiddetto caffè, acqua nera e puzzolente, che si beveva durante in giorno in mancanza di acqua più igienica. Verso mezzogiorno una zuppa consistente in circa mezzo litro di brodo di rape, poco era di più, senza condimento (questo dirò in seguito a cosa servisse per i tedeschi). Attenti! Poi presentazione della forza presente a quella mummia tedesca rappresentante un uomo, il quale se di cattivo umore faceva ripetere l’operazione più volte distribuendo a più riprese pugni e calci a destra e a sinistra, fino a tanto che compiaciuto dicesse: “Ap” (avanti). Allora con gavette e pentolini, raccolti chi sa dove, ci si presentava dinnanzi a quelle marmitte, dalle quali esalava un odore nauseante, per recuperare un mestolino del contenuto, che talvolta veniva d’un fiato tutto bevuto, senza nemmeno adoperare il cucchiaio. Questo era il “Mittagessen” (pranzo). Il pomeriggio era impiegato nei più stupidi lavori all’interno, pur di soddisfare il capriccio degli aguzzini, i quali soffrivano se vedevano uno non soffrire tanto quanto loro volevano. Verso le quattro avveniva la distribuzione del pane, con talvolta una specie di companatico consistente in pochi grammi di margarina o mezzo cucchiaio di marmellata, magari di rape, o mezzo cucchiaio di ricotta acida. Il pane consisteva sempre nello stesso tipo di pagnotte immagazzinate da chissà quanti mesi, verdi per la muffa, da dividere qui in otto. Poi veniva distribuita una “lavatura di marmitte” che “loro” denominavano “the” (un infuso di chissà quali erbe, che nonostante si prendeva volentieri per dissetare la bocca riarsa di continuo dalla febbre).
Per parecchio tempo come zuppa a mezzogiorno venne distribuito un mestolo di sporchi baccelli di fagioli secchi (come si dà ai maiali da noi, però mettendovi su farina o crusca perché altrimenti non li mangerebbero), che per quanto bolliti non erano mai cotti.
Si attendeva con gioia, come si può attendere una festa, il giorno in cui venivano i contadini a richiedere uomini per la raccolta di patate nei campi, perché il fortunato che poteva essere incluso nel numero era certo di potersi almeno sfamare a patate.
Avveniva che talvolta un folto gruppo faceva ressa dal mattino, un’ora avanti giorno, ai cancelli per essere tra i fortunati eletti ad uscire a lavorare nei campi presso i contadini, i quali tutti degni della razza loro approfittavano di tanta fame per farsi fare i lavori dando la stessa mercede che ai maiali allevati nei loro porcili.

Non mi meraviglierei affatto stentasse a credere quali cose si possa fare per la fame, nella più nera miseria, chi non l’abbia mai provata nella nuda e cruda realtà, poiché stento a rendermene oggi ben conto io stesso, pur essendo certo di averla provata al punto da non poter dormire di notte per i crampi allo stomaco.
Molto spesso, poi, veniva adunato tutto il campo per andare a lavorare in territorio lituano alla costruzione di una linea di sbarramento anticarro. A questo lavoro chi poteva si sottraeva per il solo fatto che la zuppa era quella del campo, perciò era un dispendio di energie senza compenso, a danno dello stomaco.

Noi sottufficiali nei campi si era dispensati dal lavoro, perciò tanto per uscire da quel labirinto ci si recava sul posto di lavoro a godere di un’apparente maggiore libertà, per il solo fatto di non vedere sempre quegli immobili reticolati intorno, che, illuminati poi di notte dai potenti fari posti sulle garitte sopraelevate, erano impressionanti.

(Continua)

Foto tratta da http://users.skynet.be/philippe.constant/stalag.html

Le puntate precedenti si trovano cliccando sul tag ‘Felice Bacchiarello’