Il canto della materia. “Sculture da camera” di Emanuele Greco

locandina-1-830x1207FULVIA GIACOSA

Al Circolo “I Caprissi” di Cuneo, nel secondo weekend di settembre, si è tenuta una mostra di sculture (una ventina, di cui alcune realizzate appositamente per questa esposizione) di Emanuele Greco[1],curata da Ivana Mulatero e promossa dalla Fondazione Peano, dove le opere saranno ancora visitabili fino a metà ottobre.
L’evento mi ha fornito l’occasione per qualche riflessione sulla storia recente delle arti plastiche.

Nel 1945, due anni prima della morte, Arturo Martini dava alle stampe il libro “La scultura lingua morta” evidenziando come la scultura fosse ormai sempre più sofferente, in specie quando s’illude di poter raggiungere l’immediatezza della pittura o quando tradisce la sua storia. La dolorosa vicenda esistenziale di Martini è all’origine di meditazioni pessimistiche che sanciscono la fine della “statuaria” ottocentesca in cui ancora si identificava la Scultura e contemporaneamente dichiarano l’estraneità all’ ambito scultoreo delle forme astratte.

Se è vero che l’idea antica di scultura con le avanguardie primo-novecentesche ha effettivamente chiuso il suo ciclo vitale, ricusando la figurazione tradizionale con la quale è sempre stata simbiotica, e che nella seconda metà del secolo scorso (Minimalismo, Arte ambientale, Land Art, Arte Povera e in parte Concettualismo) l’ha di fatto dichiarata irrecuperabile e sostituita con varie pratiche installative di forme plastiche spesso “di recupero” legate strettamente al sito che è componente fondamentale dell’opera, se in sintesi i fatti sembrano dar ragione all’epitaffio di Martini, è pur vero che il Novecento ha saputo dare alla scultura esempi sommi e che questa ha conservato, magari sotto traccia, l’eredità del passato.  Si pensi a Constantin Brâncuşi (1876-1957) che rifiutò l’invito di Rodin a lavorare nel suo studio dichiarando “Non si può crescere all’ombra dei grandi alberi”, consapevole della grandezza del maestro francese come del necessario cambio di passo per rendere moderna l’arte plastica, o ad Henry Moore (1898-1986) che riconosce al rumeno la liberazione da vecchie consuetudini al fine di “renderci nuovamente consapevoli della forma”. Cito questi due grandi della scultura novecentesca perché entrambi, pur distanti stilisticamente tra loro e da Rodin, conservano di quest’ultimo la vocazione monumentale, che non vuol dire celebrativa.

Negli ultimi decenni dello scorso secolo, in seno ad un generale ritorno alla figurazione e tra le pieghe di una transumanza stilistica che ancora può dirsi post-moderna, la scultura ha poi recuperato dall’Ottocento e dagli anni tra le due guerre (ad esempio con il Realismo Magico) una vocazione narrativa e intimistica, da intendersi qui come un’attenzione contemporanea al quotidiano e una rinnovata sensibilità per la figura umana. Tra roboanti allestimenti urbani di opere che amano il gigantismo e si collocano a metà strada tra scultura e architettura, tra ibridismi di scultura e pittura (certo tardo Iperrealismo) hanno trovato spazio ricerche sulla forma scultorea che rinnovano la tradizione dello scolpire, incidere e modellare, riscoprendo il “canto della materia”, titolo azzeccatissimo per Emanuele Greco che non parte mai da una forma mentale precostituita ma la trova nella manipolazione artigiana da troppo tempo dimenticata se non denigrata da certa critica militante.

sognante

sognante

Ora, per introdurre le sue “sculture da camera”, caratterizzate da freschezza formale e visibili tracce delle dita che plasmano l’argilla, vorrei proporvi alcune considerazioni. Emanuele lavora prevalentemente in creta e fusioni bronzee (e non disdegna materiali poveri come il cemento patinato): una scelta non casuale. Fin dai tempi di Plinio il Vecchio (Naturalis historia, I sec. d. C.) l’arte plastica era stata divisa in tre grandi categorie sulla base della tecnica: l’arte fusoria (metalli), scultorea (arte dell’incidere materiali duri) e appunto quella plastica (modellazione). Nel corso dei secoli, con l’apice di Michelangelo e successivamente di Bernini, la scultura si era identificata con lo scavo del marmo; sarà l’Ottocento a rivalutare il modellato prima considerato solo preparazione bozzettistica per opere marmoree; Auguste Rodin era un modellatore persino quando si serviva del materiale più nobile poiché pensava in argilla forme che sembrano crescere dall’interno verso l’esterno, come la vita stessa, diceva. E non stupisce che siano spesso i pittori ad avvicinarsi a tale tecnica come dimostrano i lavori di Degas, Renoir, Matisse.  Plasmare con le mani una materia morbida e malleabile esclude ogni rigidità, quella che invece l’incidere (marmo, legno) esalta; ne deriva una forma vibrante, mutevole, sensibile, in una parola una “lingua viva” che nega l’assoluto statuario (la cosa in sé direbbe Kant) per privilegiare il relativo, il transeunte, l’umano.  Ha scritto Alberto Giacometti, altro grande modellatore, “Il motore per cui si lavora è certamente per dare permanenza a ciò che passa”.

disincanto dei tempi moderni

disincanto dei tempi moderni

Wittkover, nel suo saggio sulla scultura, cita Jacob Epstein (pittore e scultore statunitense, 1880-1959) quando dice che modellare significa creare qualcosa dal nulla, mentre nell’intaglio il suggerimento formale dell’opera spesso viene dalla configurazione del blocco che limita la libertà creativa e raggela il flusso vitale; e Arturo Martini – ricordato all’inizio – già negli anni ‘20 parlava di modellato come “riconquista del volume su forme elementari e originarie”. I ritratti di Epstein lasciano a vista l’impasto dell’argilla proprio perché possano fremere di vita e, fusi in bronzo, ne portino alla luce ogni passaggio; mi sembra che lo stesso possa dirsi di certe teste in terracotta e in bronzo di Emanuele Greco (come “Disincanto dei tempi moderni”) che traducono in una lingua attuale un’altra conquista di Rodin, quella del frammento (si vedano anche “Al passo” e “Appello all’umanità”).

al passo

al passo

Le opere più recenti sfidano la tradizione della grande dimensione (fino alle gigantesche teste cave di Igor Mitoraj scomparso pochi anni fa) e dominano nelle ampie sale affrescate del luogo espositivo accanto a piccoli lavori dal segno essenziale paragonabili nel loro concentrato espressivo ad un singolo verso poetico o ad una breve sequenza di note (“”Piccola danzatrice”, “Corvi in volo”, “Piccolo centauro”). Tra potenza e delicatezza, il modellato di Greco nasce da continue sottrazioni e aggiunte della materia umida, da una lavorazione aperta a modificazioni fino all’ultimo tocco; la frammentarietà non consiste soltanto nella scelta di singole parti anatomiche ma anche – direi anzitutto – nel lasciar sospesa qualsivoglia finitudine o perfezione, nel coniugare in un’unica forma e simultaneamente apparenza e sparizione, presenza e assenza. Per le sue teste non si può parlare di ritratti, piuttosto di maschere epifaniche strette tra ineffabile e sembianza. Sono opere che originano dalla constatazione della corruttibilità umana di fronte al trascorrere del tempo dal quale e ancor più “nel” quale salvano la forma dell’esistere, anche se lacunosa e tremolante.

All’autore non interessano teorie, stili, mode: la sua arte sorprende per la naturalità con cui sgorga, la forza comunicativa, il pathos creativo e la tecnica prometeica, la compresenza di mistero, fascino, fatalità, attesa e fiducia con cui abbraccia la vita di uomini e cose.

attraverso il tempo, un bacio sempre

attraverso il tempo, un bacio sempre

INFO: attualmente le opere dell’artista sono visibili nella sede della “Fondazione Peano”, corso Francia 47, Cuneo, nei giorni di sabato e domenica. Tel. 0171-603649


[1] Emanuele Greco, cuneese (1981), ha frequentato il Liceo Artistico di Cuneo, si è laureato all’Accademia di Belle Arti di Carrara in Scultura ed ha insegnato nei licei artistici di Torino e Cuneo (dove è tornato quest’anno)