“Il nuovo che si abbevera all’antico”: “Soglie”, di Massimo Del Prete

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GABRIELLA MONGARDI

Se è vero che la vita è tutta una questione di stile, a maggior ragione lo è la poesia. Ciò che rende poetico un testo non sono tanto i temi affrontati, quanto le parole usate (Leopardi, Zibaldone, nn. 1789 ss., settembre-ottobre 1821, ad esempio: «Le parole lontano, antico e simili sono poeticissime e piacevoli perché destano idee vaste, e indefinite, e non determinabili, e confuse») e soprattutto l’originalità e la musicalità con cui sono usate. In realtà, la dimensione musicale del testo, ossia il ritmo, gli enjambements, le rime e le altre “figure di suono”, insieme con l’imprevedibilità delle scelte lessicali e delle combinazioni sintattiche attuate, contribuisce prepotentemente alla sua “originalità”, ossia allo scarto della lingua della poesia dalla lingua standard, riportando così la lingua stessa, e noi che ne fruiamo, alle “origini”, a una condizione aurorale, al di qua e prima di qualunque “soglia”.

Questo miracolo si realizza in ogni pagina della raccolta Soglie di Massimo Del Prete (Ladolfi editore 2018), in ogni lirica c’è almeno un verso o un sintagma memorabile, come il “tempo imperatore” di Ballando con Arliana o “il tuo sorriso / alto e possente” di Via Pier Capponi (con l’enjambement tra il nome e gli aggettivi) o endecasillabi perfetti quali “all’ombra fresca e muta del mio cuore” (Proemio), “questa bellezza diffusa ti segue” (Interno), “così la vita si disfa in visione” (Chansò).

Quella di Del Prete è un’opera prima che rivela già una grande maturità, perché la sua lingua è profondamente “poetica” nel senso detto prima – ma senza forzature, senza stravaganze né arzigogolii, con la massima naturalezza e consapevolezza del cammino compiuto e di quello ancora da compiere, delle “soglie” ancora da varcare. La direzione del suo percorso poetico è esplicitata in Vecchi versi, è “il nuovo che si abbevera all’antico”, per sostituire a “immagini sfocate e senza sangue / che non sanno dire niente” “la verità del sorriso”. E “l’antico” a cui attingere è per Del Prete tutta la nostra tradizione letteraria, dai Provenzali a Petrarca, da Leopardi a Pascoli e D’Annunzio, per approdare a Montale, vero nume tutelare e padre spirituale del giovane poeta.

Lui stesso, in Proemio, si accosta ironicamente a Montale, “il gran maestro delle anguille e dei limoni” e in effetti le sue poesie, più che in italiano, si direbbero scritte in “montaliano”, tanto sono frequenti, specie nelle prime due sezioni del libro, le allusioni al poeta delle Cinque Terre. È come se Del Prete avesse letto e studiato Montale come i petrarchisti Petrarca: ha a tal punto “memorizzato” il suo lessico e il suo ritmo da non riuscire a esprimersi in un’altra “lingua”. Non si tratta, ovviamente, di scopiazzature e men che meno di plagio, bensì di interiorizzazione, la stessa che si verifica quando si padroneggia finalmente una lingua straniera, quando si usano le parole degli altri come se fossero nostre… Forse, il titolo stesso della sua raccolta gli è stato suggerito dalla prima poesia di Ossi di seppia, In limine: sulla soglia; a me però ricorda anche la soglia su cui attende, per tutta la vita, il K. protagonista della parabola kafkiana Davanti  alla Legge – del resto, la condizione dell’io lirico, segnata da estraneità e inappartenenza, ha molto di kafkiano (già in Montale).

Il libro è articolato in cinque sezioni: Qualche esempio, In salita, Gli atti minimi, Zoom, Il passo che precede, ed è soprattutto nell’ultima che si condensa il tema della soglia: l’ultima poesia ha come titolo proprio La soglia. Scrive nella sua acuta prefazione Giuliano Ladolfi: «Nell’emblema della “soglia” trovano vita i sogni di un’intera esistenza: la realizzazione di un amore, il superamento della solitudine, la condivisione della quotidianità. Contestualmente la “soglia” costituisce il confine tra un territorio fisico, mentale e psichico, entro il quale si vuole appartenere anche al fine di costruire l’identità personale sempre minacciata da stimoli contrastanti, e un “fuori” con il quale ci si vuole mescolare, una volta raggiunta una sicura fisionomia interiore. Del Prete, pertanto, ha saputo sintetizzare due aspetti fondamentali dell’esperienza umana: quello relazionale e quello evolutivo, individuando un preciso linguaggio per parlare a chi sta vivendo e a chi ha vissuto il doloroso passaggio adolescenziale».

Ladolfi mette ben a fuoco il fondamentale significato esistenziale della “soglia”, ma il plurale usato nel titolo autorizza anche altre interpretazioni.
Sul piano biografico Del Prete, che è laureato in Ingegneria Chimica e frequenta Lettere Moderne, si muove sulla soglia tra le due culture, la scientifica e l’umanistica (com’è evidente fin dalla lirica che apre la raccolta, Onda/corpuscolo) e da questa sua condizione deriva alla sua lingua poetica una non comune – e preziosa – ampiezza e varietà di registri – ma c’è dell’altro.

Si confronti la già citata Vecchi versi con questa dichiarazione di Il pieno:
«…Volevo superare tutte le
vecchie poesie, le mezze parole in lingue
biascicate che non sono la mia, l’uscio
socchiuso della mente, lo spiraglio intravisto,
tentare ancora la tua soglia – dov’è?…»,
dove la soglia sembra essere quella della poesia stessa, una poesia scritta finalmente in una lingua che il poeta senta come propria.

E scrivere poesia non è forse altro che una condizione liminare, appunto, uno stare sospesi tra due mondi, quello della quotidianità e quell’altro, che appare solo fugacemente, per barbagli,
«come quando
sul ciglio del crepaccio un piede
resta a terra e l’altro
s’è già sporto nell’abisso, sperando
sul suo fondo un eden
di ripiego e il nuovo mondo» (da Vigilia di…).

Il poeta è il messaggero che fa continuamente la spola tra questi due mondi, ne riporta “doni” («non c’è un singolo atto che io scordi / – un occhiolino, una carezza, una risata – / i doni che m’han fatto, irripetibili», da Proemio) e in cambio:
«giungerà la parola a dirmi,
quella che sentirai, che capirai
– chiunque tu sia, e dovunque –
quella che rumina il dentro indicibile
e lo traduce in senso intero –
la vibra la lingua come un bacio
in settembre, il corpo che materia il pensiero» (da La soglia).

Il poeta non è che una soglia